Michele Arcangelo Nigro è nato a Rionero in Vulture (PZ) nel  1943 e vive a Verona. Patologo, ha, per primo al mondo, osservato e descritto, in un embrione umano, nanobatteri di possibile origine extraterrestre e ha descritto un nuovo tipo di tumore cutaneo. Ha pubblicato, in versi, la raccolta: Prose ritmate – Scienza, etica e versi (Quiedit, 2020), oltre a diversi volumi e interventi di critica letteraria (anche su Italian Poetry) e traduzioni di poeti in varie lingue e dialetti italiani. I suoi attuali interessi sono concentrati, oltre che sulla ricerca biomedica, sulla storia dell’arte, con pubblicazioni di livello internazionale, e sulla psico-neuroestetica della poesia.

michelenigro43@yahoo.it

POESIE

SIGNORE, UCCIDIMI!
(da Luis de Gόngora, Ciego que puntas y atinas – febbraio 1999)

Hai rastremato il tronco del mio gaudio,
hai tarpato lo slancio dei miei voli.

Il mio senso hai fiaccato, dispogliando
il fervore, la rabbia, il desiderio.

Lo smalto dei miei fiori hai inaridito.

Perché, se l’hai ferito
il mio cuor non hai finito?

«Déjame en paz, Amor tirano,
Déjame en paz!»

A NUR
(dicembre 2001)

Per te, che dalla foto mi sorridi,
amica che ti aggrappi ai nostri sogni,
ho messo nell’armadio dei silenzi
un sacchetto di petali di rose.

Mi han fuso nel crogiolo degli afflitti
e mordo il fazzoletto del rimpianto.
Nell’androne non s’apre alcuna porta.
L’ascensore non porta al Paradiso.

L’età dell’oro è morta in una sera.
L’abisso si spalanca, desolato,
di contro ai sassi, oscuro, in fondo al molo.
Gronda di mare il palo della luce.

La rondine ritarda il suo venire
e il muro è ormai chiazzato di licheni.

Se non diffiderai del mio candore,
ti coprirò di gigli, amica mia.

LIBERTÀ
(gennaio 2002)

Non trovo modo alcuno di convincermi
che la tua libertà possa finire
dove inizia la mia.

La tua è l’espansione interminata
dell’erratico volo d’un uccello;
come pure la mia.

Essa deve morire
dove nasce il mio dolore.
Ma tu non puoi capire.

Non hai sofferto abbastanza.

DIALOGO
(maggio 2003)

Vedo, attraverso il tuo dolore
Quel dolore che tu puoi dare a me.

PADRE, PERDONA LORO PERCHE’ SANNO QUEL CHE FANNO
(al-Hallaj. La mia crocifissione – marzo 2004)

Signore, i Tuoi servi qui riuniti
stanno uccidendo me per quello zelo
che pongono nel culto a Te innalzato.

Per esser più vicini a te lo fanno.

Perdonali, Signore, perché Tu,
se loro avessi detto quel che a me
svelasti non avrebbero mai fatto
quel che fanno e se Tu nascosto avessi
all’occhio mio quel che hai nascosto al loro
ora non soffrirei quello che soffro.

CANTO D’IBN ARABI
(marzo 2004)

Il cuore è capace di racchiudere
ogni forma che esista nel creato.

In esso vanno al pascolo gazzelle,
è convento di monaci cristiani.

Nel suo spazio dimorano anche gl’idoli,
il pellegrino trova la Ka’aba,
la Torah vi ha deposto le sue tavole.
È il luogo del Santissimo Corano.

Seguo la religione dell’Amore,
ovunque m’indirizzi il suo cammino,
ovunque vada la Sua carovana.

SUI NAVIGLI
(3 febbraio 2007)

Dal pozzo degli affetti attingo
non so che speranza (illusione?).
Mi fingo che possa mutare
la mia condizione di paria.

Mi accingo a dare la libera
uscita all’estrema chimera.
Sei tu l’occasione più vera
o solo l’ennesima maya?
L’incognita Thule o l’alzaia
che trae la mia barca ricolma
di attese, promesse, progetti?

Insomma, sei tu che m’ispiri
nel petto la pace o la guerra.
Rinserra le fila il mio cuore,
scommette ancora una volta.
È incerto, poi chiama a raccolta
disperse ragioni di vita.

DESERTO
(novembre 2007)

L’aria calda, che trema al suolo, opaca,
segna le oscillazioni dei miraggi.

La cupola zincata della luce
bianca e sinistra, come fosse ossario,
schiaccia gli sterpi macilenti e invoca
assenze sovrumane ed angosciose.

Atterrisce l’altezza del silenzio,
fa presagire spettri abbacinanti
con le bocche sinistre aperte all’ira.

Afone grida in un deserto ardente
di polvere maligna e velenosa,
di acacie solitarie ed aspri spini.

IL FABBRO
(da una mia lettera a Seamus Heaney – novembre 2007)

Efesto condannato a replicare
il centuplice ritmo falciforme
del braccio che martella il ferro giallo.

Lampeggiano faville effuse a torme.
L’oscurità si nutre di fatica.
La vescica del mantice s’affanna
con asmatico ritmo. La tiranna
sequela di clangori senza requie
annuncia esequie senza remissione.

BAGHDAD
(novembre 2007)

Un’orribile luce sventra il caldo.
Globi di fuoco luccicano sangue.
Si esplode in alto come sciagurati
uccelli azzannati dalle schegge.

Insegue un grigio rotolo di polvere
il boato che corre disastroso.
Squarciato l’autoblindo come barca
sfondata dalla roccia e ribaltata.

Madri ululanti luttuosi nitriti
che non sanno perché le martirizzano.
Singulti atroci gonfi di lamenti.
Ambulanze che inghiottono disgrazie.

Corre l’Eufrate, giallo, nelle rive.

Il terrore ha piantato i suoi artigli
nelle teste e nei ventri stritolati.

Aiutami, ar-Rashid, sono finito.
Anche le voci amiche sono ostili.

Un’agave ha trafitto la pietà.

SQUALLORE
(marzo 2008)

Meriggio esausto al mare. Sull’ossario
delle pietre si estenua, corrosiva,
la risacca incessante, frantumata.

Cardi seccati, duri, macilenti,
prostrati sotto il pugno della spera
pretendono radici dalla vita.

Freme un’abbacinata vibrazione;
enigmatico un raglio, di lontano,
querela un’angosciata sovvenenza.

La sabbia cresce atroce là, di dietro,
celando un entroterra inabitato.

Siamo raspati, come prigionieri,
dal fiato acheronteo dello sgomento.

I MIEI FIGLI
(marzo 2008)

Eravate fanciulli soavissimi
com’aria di montagna quando, a notte,
s’aderge il plenilunio e non c’è vento.

DEGENERATI
(novembre 2008)

Lui potente, altolocato, dagli affari misteriosi,
positivo, equilibrato, elegante, distaccato,
ambizioso,competente, riparato dall’amore,
di mignotte e di veline riservato estimatore.

Poi sposato a una signora con passioni sublimate,
fervidissima vestale di esoteriche esperienze,
che finiva nelle alcove, per ragioni genitali,
di nerchiuti personaggi che fingevano interessi
per le sue vanesie ubbie di bisogni spirituali;
poi, non libera da colpe, giudicava la sua sorte, c
con isterica sentenza, meritevole di morte.
Una morte – non scherziamo! – esoterica pur essa,
che appariva necessaria per poter ricominciare.

Lui lasciava che facesse, che fingesse, che finisse
per travolgere se stessa, senza rompergli in coglioni.

BEFFATO
(maggio 2009)

Una sudicia nota discordante
fu il primo sorso della delusione.

Si presentò una luna smerigliata
a frugare in quel misero bivacco,
ma non vidi più nulla di benigno,
sprofondato nel sogno d’un vinaccio.

INVERNO
(ottobre 2010) 5

Giallisce al sole una grigia campagna
veleggiata da nuvole affrettate.

Solo un momento. Ed il tramonto rosa,
tenero e fondo, come annunciazione,
partorisce gli anfratti della notte.

VALICO 113
(febbraio 2013)

Entra la sera al bosco dei castagni
recando neve in petali mansueti,
bianche luminescenze volitanti.

Tace, per un istante, la coscienza
della pena afflittiva che n’involge.
Si cede agli stupori dell’infanzia.

Sono momenti in cui sembra possibile
si realizzi il sogno d’una vita,
ma la partita è persa e la sortita
darà luogo a una rotta disastrosa.

SCǺNIA, BOSJÖKLOSTER
(febbraio 2014)

Il lago, da più lati barricato
in faggete e querceti, ricalcato
da un cielo spento e madido di gelo,
prende un colore verde acquoso e stinge,
sull’orizzonte, come opaco mare.

La mole del castello, nel tramonto,
rasa i contorni cupi del boschetto
e carica di neve gli spioventi
degli erti tetti simili a costoni
di vette dolomitiche o a velame
di vascelli ascomanni giunti in proda.

Non è un sentire mesto che mi prende
nel rievocare un giorno di mestizia.
Piuttosto un memorare ed onorare
un ricordo, indulgente di pietà,
di cui non posso dire più di questo.

MORTIFICAZIONE
(giugno 2015)

Domatore vigliacco, ch’hai spuntato
gli unghioni all’orso ch’esibisci in fiera
e che rinchiudi in gabbia fra una danza
e l’altra, non t’accorgi del tormento
inulto che gl’infliggi – fiera nobile
che si duole e consola da se stessa
tenendosi la testa fra le zampe?

Se fossi un secondino, so per certo
che non avresti scrupolo di sorta
ad umiliare Dio nell’uomo afflitto.

REGRET
(giugno 2017)

In un presente esente
da turbe, la mia mente
si esamina e si pente
per quanto non fu fatto
per evitare un atto
astioso: quello scatto
di nervi, irriguardoso
verso chi, mai distratto,
mi colse neghittoso.

OMNIA HUMANI A ME ALIENA PUTO
(luglio 2018)

In questo tempo di rovine e lutti
e carestie e rivolgimenti insoliti,
davvero penserete che si debba
ringraziarvi del vostro cinguettio
d’anime belle, intente a dire messa
nelle assorte cappelle dei sonetti
liquorosi che ammielano il giudizio
quando vi si richiede un interesse
maggiore per il mondo in cui vivete?

COSTANTI
(febbraio 2019)

La lunghezza, la massa, il tempo. Stoney
determinò le tre costanti con
espressioni, in radici, strutturate
in modo da valere 10 alla
36 emme, 10 alla meno
9 kappagi e 10 alla meno
45 esse: bizzarrie
d’un intelletto incline a battezzare
unità astratte col suffisso “-ine”
(per l’elettrone tramutato in “-one”)?

CHIMERE
(maggio 2020)

Docilità e rispetto: un pas des deux
tra un femminile conscio di contare
ed un maschile immune da albagia
potrà mai darsi? Le fragilità
di genere ipotecano entusiasmi,
sconsigliano incursioni nel fantastico
(cascami post-romantici, flessioni
di spiriti clorotici, impotenti).

LETTURA
(marzo 2021)

La vorace voragine, che inghiotte
dell’intelletto le scaffalature
è l’impunito marchio, il buco nero
che sugge il tempo fino ad annullarlo.

Nulla sarà concesso per estinguere
l’arsura di conoscere gli arcani
celati in fondo al libro terminale.

FUOCO
(gennaio 2022)

Affatturati da guizzanti spire
di fiamma fomentate con cautela,
sfiaccolate dapprima, assidue poi,
sopite quindi in ammansita brace
(sotto inerte cinigia freme un palpito,
un ordito di filamenti accesi,
di continuo languenti e rattizzati,
a capillari pari e a vene e arterie –
poi tutto si rastrema in entropia),
consideriamo, con inerzia attonita,
nascita e morte in un tizzone esangue.

SHINE
(aprile 2023)

Radiava il cielo un lume giovinetto
ch’esclamava un orgoglio giubilante.