Mario Baudino, nato a Chiusa di Pesio nel 1952, vive a Torino dove fa il giornalista nel quotidiano “La Stampa”. Ha scritto i libri di poesie: Una regina tenera e stupenda (Guanda, 1979), Grazie (Guanda, 1988, Premio Montale), Colloqui con un vecchio nemico (Guanda, 1999, premio Brancati), Aeropoema (Guanda, 2006). Ha pubblicato i volumi di saggistica Al fuoco di un altro amore (Jaca Book, 1988), Il gran rifiuto, storie di autori e di libri rifiutati dagli editori (La Gaja Scienza, 1991), Voci di guerra 1940-1945, Sette storie d’amore e di coraggio (Ponte alle Grazie, 2001), Il mito che uccide (Longanesi, 2004) e i romanzi In volo per affari (Rizzoli 1994), Il sorriso del Druida (Sperlig & Kupfer, 1998), Per amore o per ridere (Guanda, 2008).

mario.baudino@mailbox.lastampa.it

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POESIE

da AEROPOEMA

I (Flight coupon)
Nessuno più vede il cielo dal cielo
tutti sopra le nuvole a guardare
altro, carta stampata a volte o immagini
inchiodate nel prisma della fronte, eguali
grosso modo, diresti, a quelle
trascinate al check-in, recuperate
sul nastro dei bagagli quando tutto
nel suo tempo assegnato si consuma: nessuno
ti spia dal cavo delle nuvole, nessuno
che non sia effetto di fiamma o rifrazione, questo spieghi
al tuo vicino gemello
legato a te per la vita e per la morte
anche se l’aeroplano atterrerà di certo
e prenderai un taxi
Nessuno più vede il cielo dal cielo
come l’incantatore buono innamorato
nella sua torre d’aria, e un elfo o gnomo d’umidità addensata
che ti aspetti paziente nascosto
tra quelle praterie e quei mari, quei
mirabolanti bastioni di nebbia,
che ti veda passare di lontano e talvolta tornare
ti faccia cenni lievi con la mano poi alzi le spalle
ti sorrida e ti giochi magari uno scherzo
mentre bevi mangi chiacchieri e non sai,
un piccolo demone, un jinn,
uno spirto in bottiglia non c’è ma fuori è scuro
tutto è già cominciato, tutto
scivola a farsi mettere al sicuro
Corre il sedile bruciando il minuto
vecchio stregone, non t’ho riconosciuto

II.
Attento, le parole che hai detto in passato
ora ti danno la caccia
le parole che hai detto in passato
continuano a chiedere di te
le parole che hai detto in passato
non te le puoi staccare
e anche quelle che hai letto e forse
quelle che hai ascoltato, tutte
come un’onda di piena alle spalle
aspettano il momento perché sono astute
anche se querule, e in fondo il loro solo difetto è
la poca mira
così può accadere che spesso s’avventino non su te
ma su qualcuno che passa vicino magari
una donna un animale una cosa
una volta ho visto un albero era un frassino o un olmo
cominciare a difendersi e lottare sì aveva
una grande energia e voglia di chiarezza
voleva capire invece è impazzito
l’ho visto, sai, si annodava e si apriva
e sbatteva le ali e pareva volare

Giuditta
Se ti guardi né lontana né vicina
se un poco ti discosti dallo specchio
e ti sorridi, e credi in fondo non sia tutto
questa contiguità che ci sfarina
la soglia delle ore, l’attesa incantatrice
l’incerto gracchiare della segreteria
telefonica, l’informe parodia
d’amori, strazi, orgasmi, la radice
più profonda del caso, le impalpabili
quotidiane elusioni, la dubitosa caccia
che un po’ s’impenna e un poco si distende
per folate m’insegue la tua faccia
piove uno sguardo, a fondo mi sorprende
l’assai ironica centralità del naso

da COLLOQUI CON UN VECCHIO NEMICO
(Guanda, Milano, 1999.)

Lettera
Se volessi mie nuove non so
e neppure se apprezzi la forma
forse un poco affettata e inutilmente
desueta, con quel passo di marcia verso che
mi chiedi, preferisco
provare a dirti da dove, qui nelle vigilie
di tutto, in questi ricchi
paesi dove brillano finestre
e sorridiamo e pare
di vedere sentire toccare
schegge di vera
felicità, non ridere
caso mai ti rimanga una bocca
una chiostra di denti (erano belli
molto ritmati, loro, e facevano
una sorta di musica lieve, quando
li sfioravi con la lingua, le labbra o il fondo
di una sigaretta senza filtro) no non ridere
caso mai qualcosa
rimanga, e non è che ne sia certo
né so se poi qualcosa
resti da ricordare, occhi
mani fiato voci, e non è che ne sia certo:
per qualche giorno ancora
parlava di te la tua segreteria
un nastro registrato che diceva: non riattaccate
Ricordare è facile, ci si riesce
il peso non è questo
passa leggero il treno delle ore e credo
che sia l’assenza
di gravità a svelare al sentimento
il suo orizzonte. Qui
remano vigorose le navi del cuore
c’è molto vento d’altra parte e a volte
s’apre una nuvola come se poi fosse
normale. Qui è tutto normale
il giorno, la neve, l’orrore
se non ci credi non so come convincerti
non ne ho le prove
Se non ci credi sarà un atto d’amore
il mettere per strada tutto questo
eroismo di vinti resistenti
di vincitori ansanti, sai quant’è famelico
il capobranco, spesso urla da solo, spesso a botte
fa ordine tra i sogni, a ognuno un nome
il mio cambia sovente, sono
l’ultimo della classe, non ho avuto
da tempo più diritto a un contenuto
Se non ci credi non so come convicerti
balbetto le parole più difficili
non più, non ancora, poi, ora
ma qui la notte arriva sempre più presto
e se sai ascoltare a volte vinci un premio:
ti prende e ti divora

Aquile
I.
Anch’io sono venuto dai boschi neri
che cosa sulla culla soffiasse non lo so
ma un gran rispetto nella vita ci vuole
per qualcosa che non sia fuggevole
Guardo l’alba nebbiosa, raramente:
dal mio letto s’innalza il me più stanco
guardo nell’aria insudiciata e canto
qualche volta, davanti allo specchio
La mia faccia, devo pur confessarlo
può ispirarmi profonda pietà
un uomo è un uomo, su questo non c’è scampo
quando si tuffa nella quotidianità
Fra nemici e alleati può varcare
il giorno come Mosé fece col mare
prima di notte sarà utile un compplice
meglio una donna, tutto sembra più semplice
La salute si sa viene prima di tutto
e un grande avvenire ci aspetta
c’è nel futuro un crescente guadagno
arriveremo in fretta
Il secolo è democratico
concede tutti i dubbi
nessuno creda facile
tener lontano l’erpice
Vengo da una campagna
fatta di sogni e costi
foreste meste
tempeste
Sento che seduce
talvolta il vecchio Ortis
però sine pecunia
l’homo è l’imago mortis

II.
Quando guadagni, chiese
dico quanto guadagni in un mese
Ne studiò il viso
il non appesantito turgore
di secondari attributi sessuali
l’onda dei capelli
ai polsi l’oro
e non rispose

III.
Perché, se tutti, non io
s’accaldava addentando
e forbendosi soppesando
col convitato la trasparenza del bicchiere
Ecco, io cerco di farcela
in modo decente, in fondo
ho una mia competenza, un mondo
di relazioni, certo, anche un destino
o un obbiettivo almeno
Stava per dargli un nome
arrivò il cameriere

IV.
Cenano, di lui si intuisce
non l’argomento, il muovere di spalle
lei, maremoto di capelli, alta vendetta
d’occhi, i denti un lampo
e fra le dita il fulminato grissino
in mille pezzi, come cosa morta
passeggere, non sai, la sera è corta

Affidato alla voce
I.
Paura, fiducia, follia
disse, e la quarta parola era dolore
la quinta nulla e lì
ebbe un indugio come inciampando, come
se fosse stata spenta ora la radio
che ronzava ronzava già da ore
correndo col registratore

II.
Non so se sia contento
se il soffio della sera gli porti
battaglioni di sogni ad occhi aperti
o se magari guardi un poco nubi
muoversi al ritmodei pennuti, se
piova nel suo interno
d’anima, se ci sia una stanza
dilavata dall’odore di polvere
e d’umido e foglia, come quando
la prima goccia è già caduta e mai
mai una volta che tu l’abbia veduta.

III.
Provare a pensarla, affondare
nel colore che hanno gli alberi di notte
o nell’indaco accidioso del mattino
e non basta
provare a tentarla, chiederle
per piacere se può la sua sparuta
presenza darti un’esperienza vissuta
provare un modello, come
il rumore che hanno i pensieri la notte
il profumo del sigaro
ciò che resta e svolazza
solo il gatto ti guarda
sarà così, gli chiedi
o forse
ancor meno, sarà
una corsa pazza.

IV.
Non sapeva di sé maggior dolcezza
né altro annoverato tra i paragrafi
d’un canone d’amore
consegnò le sue reni alla tristezza
alla macumba della solitudine
Alato corre il demone delle ore
l’angelo con l’agenda
Non voleva di sé maggior pienezza
il senso del dovere
gli faceva piacere
Alato corre il demone dell’ordine
l’angelo con la benda

V.
Amò un’ombra, capì
che era infedele
all’alba
Amò un’ombra, sì
disse, è questo il modo d’amare
più corretto (lei
era mobile e scialba, era
perfetta, sotto questo aspetto)
Amò un’ombra, così
non ebbe più da pensare
gli bastava vederla
qualche volta tornare.

da GRAZIE
(Guanda, Milano, 1988. La traduzione è di Jean Baptiste Para)

Di tutte le partenze, una resta impigliata nell’anima
e tu non sai se sia un volo dell’acqua
o un’alga che ti afferri
per stringerti la gola sulla nebbia
con una grazia feroce e inevitabile, come
un gatto che giocando t’impedisca di scrivere
strappi via la penna
faccia a brandelli la carta
ne porti un pezzo lontano tra le labbra
per costruirne un topo simulato
una caccia sognata, un gioco preciso e ribelle
una giro più lungo tra la tua mente e le mani
profonde nelle tasche in questo mattino di treni
fischi, vapori, officine faustiane
Questa stazione non assomiglia più a nulla
forse è un dedalo di tracce cancellate
un terminale per gite oziose
a leggere un libro e dormire cullati dal treno
in viaggio turistico verso il passato prossimo
come un bistrot funereo, magari sepolcrale
un bar di cera, un museo…
E tra le statue, le ruote, i chioschi di giornali
si fanno strada ombre, dagherrotipi, vecchie pitture
carte di caramelle, pacchetti vuoti
riviste scolorite con donne grasse e spogliate
preservativi, dischi, aranciate amare
tutto un armamentario crepuscolare
e gli anni, ricordi uccisi dalla fotografia,
risucchiati urlando dalla vecchiaia e dalla morte:
e questa partenza non è così perduta
la sua immagine è più che un residuo, un fiato d’allusione
una metafora mentale, la tua impercettibile
correzione del tempo, come quando s’aprono
nuvole in cielo, e splende spaventata
lei, la buona madre dei ladri, pura e muta
Ma un diavolo, un simulacro di Minosse
orribilmente ringhia dai megafoni sulle pensiline
nello scompartimento che puzza di fumo
sul velluto bruttato
da pensieri annoiati, indifferenti e automi…
Lei non ha spessore, calore, fuoco d’anima
dice, è come la nebbia che s’apprende ai vetri
del finestrino, lei è come l’inverno
è arrivata tardi, ha perduto la strada
quando ha bussato alla porta il camino era spento
il gatto morto, qualche moscone impazzava per l’aria
con messaggi incompiuti, indecifrabili, infedeli
Sui muri c’era polvere, polvere sugli specchi
sul volto di Ermes ridotto a una piccola scimmia secca
un lare stecchito e sgretolato: ronzano i treni
scivolano via in questo mattino di buio,
so che non fuggirò, sei come Dracula
come lui, che il vantaggio ha del non nato
e del non morto, porta i segno d’un bilico infinito
e dall’inganno suo vita riceve,
tu non hai anima, non l’hai mai avuta
nei tuoi occhi non si infrange il riflesso
il lampo della sera sulla porta
il ritorno di ciò che arde lontano
indifferente, melanconico, alto sui monti
e inaccessibile, la luna
Questo silenzio non è più abitato
da muti fruscii di passi, da segrete
anse del tempo, come se ad un tratto
senza motivo schiudessero le valve
d’una conchiglia fossile, e splendesse
nella roccia l’ardore del cristallo
Questo silenzio è ora pieno d’oggetti
citazioni, reperti, tutti i regesti dell’avventura
monti e mari solcati come quando un sogno
dura oltre il risveglio, e non si tace
l’eco d’un gesto prolungato ad arte, il suo bramito

Celtis Australis
Forse non ci sono che gli alberi
per stagliarsi contro il vetro del cielo
e non vedere
e non conoscere filigrana o velo
e opacamente, duramente, semplicemente vibrare
nella forza che sale e, come fa, ritorna
nel curioso entusiasmo della sera
Non corrono sull’onda
che viene e va, non ha riva e non sa restare
non cavalcano un soffio
non hanno che un destino, il ritorno
il silenzio che non aborrono
Forse soltanto gli alberi sono sapienti
sanno bruciare al fuoco del loro fuoco
E tu, nel cui nome vibra l’orma d’un vento
il fiato d’un deserto
che hai respirato le città, i viali, l’asfalto
la polvere selvaggia di primavera
perché sai come crescere dalle pietraie
e dalla nebbia, albero povero
vegetale straccione, bagolaro t’han detto, spaccasassi
posso pensarti forzato o galeotto
lavorar di radici nella cava
instancabile prete deriso e riente
albero protomartire d’una religione
dimenticata, assente, irrilevante
inesistente, che sa essere niente

Titanic
Stanca di tristi tropici
troppa pace nel mare
lenta l’onda cammina
lenta come il Lete
Stanca le tue pretese
inquieta, insopportabile
lenta mi corre l’anima
lento si spegne un secolo
Stanca con le lungaggini
delle richieste facili
se hai miserie, tienile
chiuse dentro di te come uno scrigno
E se non hai niente da dire
niente da fare, se come sei zitta
stancalo, il tuo silenzio
svuotalo, lascialo spegnere
(L’acqua s’apre a voragine
la nave brilla al fulmine)

Alberich
Uno gnomo maligno ci potrebbe aiutare
gettando forse una manciata di fumo
evocando la nebbia, lasciando andare
come un volo di anatre lontane
lontano uno stormo d’anime, di impronunciate
voglie di distruzione, vomito, carneficina
fare un fuoco di sterpi e poi ruggire
quieti sopra le pentole, in cucina
Avarizia, cupidigia e gracile lussuria
annunciavano il drago e la sua furia
nessuno di noi tentò di mettersi a mezzo
a causa di ciò, credo, lasciammo un pezzo
di psiche, una frattaglia di desolato cuore
e qualche avanzo di cibo prima di fuggire
così ognuno per sé, col suo valore
costruì un castello, mise un nano di guardia:
se un demiurgo malvagio di ha ingannato
sarà un gatto la tua consolazione
sarà scintilla, messaggero, ragione
Uno gnomo maligno ci poteva aiutare
forse era un topo, angelo del focolare

Verbale
Interrogato, rispose
che sfumavano eguali in un unico morente
abbraccio, un brillio distratto
di voci, visi, di struggenti
inestimabili momenti irrilevanti
Non se ne fece vanto
entrò nel castello sull’onda di un lamento
dimenticò quelle figlie del reno in grave lutto
sedette a tavola senza la regina
celebrò un addio collettivo, un casto banchetto
non volle conoscere lo chef di cucina

da UNA REGINA TENERA E STUPENDA
(Milano, Società di poesia-Guanda, 1980)

I.
Una regina tenera e stupenda
restituisce la neve delle ore
al tiepido fiore del tempo, al rullo
del suo rumore acerbo
Principessa dei piccoli passi
sono fitte radici senza scoglio
e il loro bosco, uno strano sentiero
discende – vuole perdersi – sotto l’erba
(Il varco verso l’altro paese
si sposta piano, piano sembra vero)

II.
E’ ingenua stasera lei o la sua morte
ha voglia di sorridere, ripete
la sua felicità come uno spillo
(E’ l’Arca di Noé, un pianeta
di colli di giraffe, il loro fiato)

III.
Straccia la marmellata dell’amore
che trasforma il pensiero in zampe e ali
tocca fra bacio e parola il filo
che separa le ciglia dalla storia
dal corpo nero di un rfiuto atteso
E’ lei, la regina aquila
la gallina
supera i monti col suo passo zoppo
non ha pietà di sé, è ancora
ibernata in un sogno di neve

da SU, PER I MEANDRI DEL SONNO

I.
Su, per i meandri del sonno:
la fitta colombaia, i rotti ormeggi
il tempo di partire, vele
s’alzano nel risveglio, il finto sonno
e i passeggeri? <Oh, loro non si salveranno>

II.
Il passeggero di Lenin aveva fretta:
guardo i loro ritorni, i loro scudi
un lento sferragliare, e i treni al mare
corrono senza tuono, voraci

III.
Il fiume degli anni dolcemente la perse:
sale nel sale del cielo
non c’è scoglio al cuscino
apre le mani e piano
le rive non la lasciano, tra i baci

 

TRADUZIONI

Letter
I don’t know if you ever wanted news of me
and not even if you appreciate
the perhaps rather affected form, uselessly
passe, with that marching step, towards what
you ask me, I prefer to try to tell you from where, here
in the vigils of everything, in these rich
lands where windows gleam
and we smile and it seems
as we can see, hear, touch
splinters of true
happiness, don’t laugh
if ever you’re left with a mouth
a cloister of teeth (they were superb,
really regular, they were, and they made
a sort of music when
you brushed against them with your tongue,
or with your lips, or with the butt
of a filter-less cigarette). No, don’t laugh
is ever something is left, and it’s not as if I’m sure
of it nor then that I know if there remains anytihng
to remember, eyes hands breath voices,
and it’s not as if I’m sure of it:
for e few days still your answer-phone
talked of you, e recorded tape wich said:
don’t hang up.
Remembering is easy, you can do it.
The burden isn’t this,
the train of time passes lightly
adn I believe that it is the absence
of gravity which wakens its horizon to feeling.
Here the ships of the heart row vigorously,
there is a lot of wind, anyway, and sometimes
a cloud opens as if it was normal after all.
Here the day, the snow, the horror is normal
if you don’t believe I don’t know how to convince you
I don’t have the proof.
If you don’t believe, it will be an act of love
to get rid of all this heroism of defeated resisters,
panting victors, you know how ravenous
the pack-leader is, often he howls on his own, often
he sorts things out with blows
between the dreams, to everybody a name,
mine changes often, I am
bottom of the class, for a long time now I haven’t
been entitled to contents.
If you don’t believe
I don’t know how to convince you,
I stummer the most difficults words,
no longer, not yet, now,
but here the night comes earlier and earlier
those who know how to listen sometimes
win a prize: she catches them and devours them.

Trusted to the voice
I.
Fear, trust, madness
it said, and the fourth word was pain
the fifth nothing and then
there was a pause as if stuck, as
if the radio had been swiched off
after having buzzed and buzzed for hours
running with the cassette.

II.
I don’t know if he’s happy
if the breath of evening brings him
battalions of dreams open eyed
or if maybe he looks a bit at clouds
moving at the speed of birds, if
it is perhaps raining in the interior
of his soul, if there is a room
awash with the smell of dust
and damp and leaves, like when
the first drop has already fallen and never
never a time when you saw it fall.

III.
Trying to think it, going deep
into the colour which trees have at night
or in the lazy indigo of the morning
and itn’t enough
trying to try, asking her please
if her presence can give you a live experience
trying a model, like
the noise that thoughts have in the night
the aroma of cigar
that which stays and wreaths
only the cat looks at you
is that how it will be, you ask him
or perhaps
even less, it will be
a mad rush.

IV.
He didn’t know of himself anything sweeter
nor anything else numbered amongst the paragraphs
of a canon of love
he entrusted his loins to sadness
to the macumba of loneliness
The demon of time wings swiftly
the angel of the diary
He didn’t want of himself anything fuller
the sense of duty
gave him pleasure
The demon of order wings swiftly
the blindfold angel.

V.
He loved a shade, he found out
it was unfaithful
at dawn
He loved a shade, yes
he said, this is the proper
way to love (it
was fleeting and flickering, it
was perfect, in this regard)
He loved a shade, that way
he no longer had to think
all he had to do was to see it
coming back sometimes.
(Le traduzioni in inglese sono di Jonathan Usher)

Canards, nuit
De tous le départs il en est un
qui s’accroche à l’âme
et tu ne sais pas qui, de l’algue ou du vol de l’eau
te prend à la gorge et te fait mordre le brouillard
avec une grace féroce, inéluctable comme
un chat qui pour s’amuser
t’empecherait d’écrire
arrachant le stylo de tes mains
réduisant le papier en lambeaux
pour en emporter en bout entre ses dents
et construire à l’écart un semblant de souris
une chasse rêvée, un jeu précis et rebelle
une distance accrue de ton crâne à tes mains
qui s’enfoncent dans tes poches, en cette matinée de trains
de sifflets, de vapeurs et d’industries faustiennes
Cette gare ne ressemble plus à rien
elle n’est peut-être qu’un dedale de traces effacées
le point où se concluent d’inutiles voyages
où l’on a lu, dormi, bercé par le train
circuit turistique vers le passé composé
comme un bistrot funèbre, à la riguer sépulcral
un bar de cire, un musée…
Et parmi les statues, le roues, les kiosques à journaux
des ombres se frayent un chemin, daguerréotypes, vielles peintures
papiers de bonbons, paquet vides
revues où décolorent des femmes nues et bien en chair
préservatifs, microsillons, orangeades amères
tout un attirail crépusculaire
et les années, souvenirs abattus par la photographie
qui hurlent quand les happent la viellesse, la mort:
et ce départ n’est pas perdue, ou du moins son image
vaut mieux qu’un vestige, une allusion
une métaphore mentale, ton impercetible
correction du temps, comme à l’heure où des nuages
vont éclore dans le ciel, et que resplendit épouvantée
la bonne mére des brigands, muette et pure
Mais par le mégaphone un diable, un simulacre de Minos
grogne horriblement sur les marquises
dans le compartement qu’empeste la fumée
sur le velours qu’on salit
des pensées automatiques, indifférents et lourdes d’ennui
Elle n’a pas d’èpaisseur, de chaleur, dit-il, aucun feu
d’âme, elle est pareille à la brume qui s’accroche
aux fenêtres du train, pareille à l’hiver
arrivée tard, elle s’est perdue en route
quand à la porte elle avait frappé, le chat était mort
la cheminée éteinte, et dans l’aire peut-être
de grosses mouches affollées
portaient des fragments de messages, indéchiffrables ed infidèles
Une voile de poussière couvrait le miroirs et le murs
hermés dont le visage n’etait plus
qu’un petite singe sec, un lare maigre et disloqué:
dans ce matin obscure les trains ronronnent et s’ébranlent
je ne prendrai pas la fuite, je le sais, tu es pareille à Dracula
qui a l’avantage
de ne pas être né, de ne pas être mort
qui porte le marques d’un vertige infini
et par sa propre ruse obtient la vie;
tu n’as pas d’âme, n’en as jamais eue
dans tes yeux ne se brise pas le reflet
l’eclair du soir sur la porte
le retour de ce qui brûle au loin, mélancolique, impassible
hors d’atteinte et très haut sur les monts, la lune
Ce silence n’est plus habité
par le muet murmure de pas, le poignées
secrètes du temps, comme si tout d’un coup
et sans motif un coquillage fossile
avait ouvert ses valves, et que resplendisset
dans le roc l’ardeur du cristal
Ce silence est plein d’objets maintenant
citations, rapports, tous les registres de l’aventure
montagnes et mers sillonnées, comme quand un rêve
persiste au-delà du réveil, et que se refuse au silence l’écho
d’un geste à dessin prolongé, son brame
(traduzione di Jean Baptiste Para)