Marino Moretti è nato nel 1885 a Cesenatico, dove è scomparso nel 1979, con lunghi soggiorni a Firenze. Le sue raccolte di poesia: Fraternità (1905), Sentimento (1907), Poesie scritte col lapis (1910), Poesie di tutti i giorni (1911), Il giardino dei frutti (1916), Poesie (1919), L’ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze (1973), Diario a due voci (1973), Diario senza le date (1974). È autore di racconti e di romanzi: Il sole del sabato (1917), La voce di Dio (1920), I puri di cuore (1923), Il segno della Croce (1925), Andreana (1935), La vedova Fioravanti (1941), I coniugi Allori (1946), La camera degli sposi (1958). Nel 1922 cominciò la sua collaborazione trentennale con la pagina letteraria del Corriere della Sera. Nel 1925 firmò il manifesto antifascista di Croce e per questo si vide rifiutare da Mussolini, nel 1932, il Premio dell’Accademia d’Italia.

https://it.wikipedia.org/wiki/Marino_Moretti

http://www.treccani.it/enciclopedia/marino-moretti_%28Dizionario-Biografico%29/

 

POESIE

A Cesena
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolente,
il babbo che ti vuole un po’ di bene…

« Mamma! » tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
« Vedrai, vedrai se lo terrò di conto »;

parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:

« La mamma nostra t’avrà detto che…
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza… »

Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

Elogio di una rosa
Rosa della grammatica latina
che forse odori ancor nel mio pensiero
tu sei come l’immagine del vero
alterata dal vetro che s’incrina.

Fosti la prima tu che al mio furtivo
tempo insegnasti la tua lingua morta
e mi fioristi gracile e contorta
per un dativo od un accusativo.

Eri un principio tu: ma che ti valse
lungo il cammino il tuo mesto richiamo?
Or ti rivedo e ti ricordo e t’amo
perché hai la grazia delle cose false.

Anche un fior falso odora, anche il bel fiore
di seta o cera o di carta velina,
rosa della grammatica latina:
odora d’ombra, di fede, d’amore.

Tu sei più vecchia e sei più falsa, e odori
d’adolescenza e sembri viva e fresca,
tanto che dotta e quasi pedantesca
sai perché t’amo e non mi sprezzi o fori.

Passaron gli anni: un tempo di mia vita.
Avvizzirono i fior del mio giardino.
Ma tu, sempre fedele al tuo latino,
tu sola, o rosa, non sei più sfiorita.

Nel libro la tua pagina è strappata,
strappato il libro e chiusa la mia scuola,
ma tu rivivi nella mia parola
come nel giorno in cui t’ho “declinata”.

E vedo e ascolto: il precettore in posa,
la vecchia Europa appesa alla parete
e la mia stessa voce che ripete
sul desiderio di non so che cosa:

Rosa, la rosa
Rosae, della rosa…

Valigie
Voglio cantare tutte l’ore grigie
in questa solitudine pensosa
mentre raduno ogni mia vecchia cosa
a riempir le mie vecchie valigie.

Oh le valigie, le compagne buone
dei poveri viaggi in terza classe
vecchie, sfiancate, fatte con qualche asse
sottile e con la tela e col cartone.

Le camicie van qui da questa parte,
quaggiù ai colletti cerco di far posto,
lì le cravatte e qua, quasi nascosto,
un manoscritto, e ancora libri e carte.

Ecco il pacchetto della mamma. Odora
vagamente di cacio e di salame.
Già, se avessi in viaggio ancora fame.
E questo libro e un altro, un altro ancora.

Dove vado? Non so. Ma mi sovviene
d’averla pur desiderata questa
partenza come, il piccolo, la festa
che col serraglio e con la giostra viene.

Dove vado? Non so. Ma pare a me ch’io debba
vivere senza scopo, allo sbaraglio;
e a tratti con l’inutile bagaglio
partir per i paesi della nebbia…

Rondini
Rondini, o voi dove andate
che par che il cielo v’ingoi?
O amiche rondini, fate
fate ch’io venga con voi.

Rondini, io getterò via
tutto ciò che amai, tutto ciò
ch’è inutil peso, terrò
soltanto l’anima mia.

Rondini, è certo che poi
senza l’ombra d’un pensiero
sarò leggero leggero
come il vento, come voi.

E tu taci, anima mia.
Mentre che scema la luce
andiamo dove ci conduce
questo volo, andiamo via.

La neve
ll bimbo guarda alla finestra i fiocchi
taciti, ch’empion turbinando l’aria,
guarda la strada bianca e solitaria,
che non ha che un ombrello e due marmocchi.

E guarda la casina dirimpetto,
che è agghiacciata dal vento e dalla bruma,
ma che pur nel silenzio freddo fuma
con la pipa del suo comignoletto.

Sorride il bimbo nel suo caldo covo,
ed è stupito perchè i fiocchi, a un tratto,
d’un paesello nero e vecchio han fatto
un paesello tutto bianco e nuovo.

è sorto a piè di un pioppo ossuto e lungo
un fiore strano,un fiore a ombrello: un fungo.

In cucina
Madre, se vuoi ch’io t’ami
come ti si conviene,
resta fra i tuoi tegami
smaltati bianchi e blu:
vuoi ch’io ti voglia più bene,
molto più bene?

Resta in cucina dove
la tua dolcezza ha un gaio
riso che mi commuove
quando passa bel bello
dall’acquaio al fornello,
dal fornello all’acquaio;

poi va’, corri in giardino
e coglilo un rametto
d’adusto ramerino
di scherzoso alloro
qualche pomodoro
ancora un poco aspretto;

poi trita con un muto
cenno le tue cipolle
giovani pel battuto
e accortamente schiuma
la pentola che bolle,
il bricchetto che fuma;

sì che, mentre la fiamma
si fa sempre più roca
nella cappa segreta,
tu pensa che la mamma
del giovane poeta
sa fare anche la cuoca

Oh lascia ch’io ti prenda
queste mani che sanno
di carne cotta in forno
e far sempre sapranno
Ogni buona faccenda
fino all’ultimo giorno;

oh lascia ch’io ti dica:
«Triste, mammina, triste
sapere troppe cose
e cercar fra l’ortica
o fra le vuote artiste
rose e foglie di rose;

dolce invece sostare
in questi vaghi odori
guardando il focolare
e i fumi di vapori
che con labile volo
escono dal paiuolo».

Autunno
Il cielo ride un suo riso turchino
benché senta l’inverno ormai vicino.
Il bosco scherza con le foglie gialle
benché l’inverno senta ormai alle spalle.
Ciancia il ruscel col rispecchiato cielo,
benché senta nell’onda il primo gelo.
È sorto a piè di un pioppo ossuto e lungo
un fiore strano, un fiore ad ombrello, un fungo.