Giuliano Gemo vive in provincia di Vicenza, dove è nato nel 1958. Si è laureato in letteratura contemporanea all’università di Padova (tesi sulla poesia di Luciano Erba, relatore Silvio Ramat). Ha pubblicato il libro di poesie Stagioni (Transeuropa, 2021, Premi “Etruria” e “Città di Siena”) e la raccolta di racconti Lo stormire dei giorni (Luoghinteriori, 2020, Premio “Città di Massa”), il romanzo Notizie dal futuro (Raffaelli Editore, 2024). Un suo saggio critico è comparso sulla rivista italo-americana di studi letterari “Forum italicum” (Fall, 1992). Suoi testi poetici e narrativi sono presenti nelle antologie di diversi concorsi letterari. Ha insegnato per oltre vent’anni in un istituto tecnico.

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POESIE

Era d’estate
Ed era la parete di roccia da scalare
era l’oro fra i suoi capelli controsole
il suo sorriso
era la neve bianca abbacinante
e i piedi gelati dentro gli scarponcini fradici

Erano tante cose che non sono…
La sola che ritorna è il confondersi
di tutte nella sera,
quando si scendeva, stanchi,
senza più parlare né vedersi,
dissolventi mano a mano anche noi
— come il sentiero, gli alberi, il monte —
nel pulviscolo grigiazzurro che infittiva.
E l’esserci e il non esserci
dei compagni diveniva
scambiabile come in sogno.

Ciò che ritorna è la stessa
spessa ragnatela intrisa
di buio, che ci avvolge,
la sera;
i passi a tentoni,
le stesse voci rade che l’attraversano,
ad accertar se ancora siamo.

E il volgersi indietro, ogni tanto,
e non vedervi nulla.

Le luci del paese giù nella valle
talora scoprivamo, quella sera,
lontane, tra la nebbia.

Scomparivano silenziose
a una svolta del sentiero.

Quando d’inverno…
Quando d’inverno la nebbia cala
sui campi dormienti ricoperti di neve;
quando svanisce il confine che divide
il grigio del cielo dal grigio dei prati;
e l’aria non muove,
e gli alberi, trame nere stampate,
ti guardano…
—————…come i volti e i corpi
—————di parenti lontani,
—————ormai morti,
—————dal fondo ingiallito
—————di vecchie fotografie,
—————fissi così,
—————condannati in eterno
—————a quel sorriso d’un istante,
—————o a quello sguardo trasognato
—————d’un attimo di distrazione,
—————farfalle trapassate da uno spillo
—————in scatole di vetro,
—————per sempre coi colori di un giorno
—————che nessuno ricorda più…

…quando il vento si leva inavvertito,
e lente fumate
di pulviscolo biancastro
infittiscono fra i rami
e li vanno sommergendo,
disegni incerti che trapelano appena…
—————…come dalla grana giallognola
—————che fascia non veduta
—————i gruppi di famiglia,
—————facendoli trasparire da infinite lontananze,
—————che assommano davanti alle ciglia di ognuno,
—————ai loro sguardi inebetiti
—————confitti nel mio,
—————spessi strati di assenza,
—————dal fondo dei quali
—————intorpidita mi giunge
—————di ciascuno la vita,
—————eternamente morta,
—————di quell’attimo…

…quando poi cala la sera,
e tutto davvero si spegne
e in breve scompare;
quando neppure più le ombre ritrovo,
e i fantasmi impietriti del giorno
sono solo un ricordo,
invano cerco, allora,
ad occhi aperti nel buio,
che resta

I  pioppi
(Humana condicio)

Lo sai perché
i pioppi si lamentano,
le sere d’estate,
laggiù lungo l’argine,
perché non tacciono mai?

Cantano piano,
sommessamente…
Ti parlano, e tu non li ascolti,
del loro amore senza fine
per il vento,
per i candidi cirri che corrono lassù,
altissimi, nel cielo;
e della loro pena che li fa
radicati alla terra.

Il vento che li trascorre
nei caldi meriggi
vuole accarezzarli,
ma non fa che disperarli
di desiderio.

Perciò a sera cantano tristi,
sommessamente…

E nessuno li sente.

Wonderful Life (*)
Ed ecco, quella canzone…
Quella meravigliosa canzone
che ascoltavi tanti anni fa
e ogni volta ti chiamava le lacrime agli occhi:
la danno alla radio
nell’auto in corsa sull’autostrada.
“…I need a friend…” canta Black.
Oh, sì. I need a friend.
Avresti bisogno anche tu d’un amico,
con cui condividere, a cui confidare
tutto questo.
Perché ne resti qualcosa,
una traccia,
in qualcun altro oltre te.
Intanto l’auto corre veloce
e basse nuvole scure
ti vengono incontro, schermando il sole.
La canzone meravigliosa ti avvolge
e come un tempo ti fa sognare
(barlumi di gioia e di giochi jadis,
stormire di foglie e azzurro nel cielo
disteso…).
Ma l’auto sfreccia sull’autostrada
e ora la trasmissione è disturbata
— sta svanendo la frequenza.
Parole e musica a tratti saltano,
brusii e raschi distorcon le note,
poi le coprono sempre più spesso,
e più a lungo,
a misura che la corsa continua.
Rabbia e dolore:
la canzone del cuore
si fa confusa,
labile, franta…
Vorresti fermarti — ecco, qui:
qui dove il segnale sembra ritornare —
per continuare ad ascoltarla.
Ma l’auto continua a correre;
non sei tu a guidarla.
Mentre le nuvole davanti a te
si fanno sempre più dense e scure
e i primi goccioloni si schiantano sul parabrezza
(la musica ormai quasi inafferrabile),
ti volti indietro:
dal lunotto posteriore vedi
i fianchi verdi delle colline
lontane
ancora accarezzati dal sole.
Vorresti rallentare, almeno,
e carpire ancora qualche brandello
del crescendo finale
(è l’ultimo ritornello)…
Ma ormai dalla radio escon soltanto
ringhi brutali
peti beffardi
che la voce di Black sommergono
completamente.
Ti viene da piangere.
Bisognava arrestarsi là, più indietro!
— dove si riceveva ancora,
e si sarebbe potuto, forse,
ascoltarla sino alla fine…

Ma l’auto continua a correre,
e non sei tu a guidarla.

(*) Titolo di una canzone del 1987, cantata da Black

Fiori nel tempo
(Humana)

“M’aveva mandato a prendere il vaso
dalla tomba dei nonni, per cambiarne i fiori.
Tornando, ho visto la gente che s’ammassava per salire sulla nave.
I miei amici, già a bordo, mi gridavano: ‘Che aspetti? Salta su!’
Rientrato a casa, continuavo a guardarli dalla finestra,
là sotto, nel porto, le due navi brulicanti di gente…
Mia madre, sul tavolo lì accanto,
preparava il vaso con i fiori.
Le ho detto: ‘Esco un momento’.
Sono ridisceso, e son salito anch’io”.
Distoglie lo sguardo. “La sogno, ogni tanto:
mentre pareggia i gambi dei fiori, sul tavolo in cucina,
e poi li dispone dentro il vaso…”

“A Hiroshima, quella mattina, mamma era già uscita,
lasciandomi a casa da sola.
Dormivo ancora, quando
mi svegliò il lampo (o forse il tremore).
Andai fuori:
nel giardino di casa nostra,
più nessuna traccia dell’erba, dei fiori…
C’erano solo, stese, delle persone nude,
tutte sporche di nero.
Chiedevano ‘Acqua, acqua’.
Corsi a prenderne dal pozzo lì vicino
e gliela diedi.
Loro mi ringraziavano, bevevano,
e mentre bevevano morivano”.

Nella hall dell’aeroporto,
l’uomo vecchio, alto, con gli occhiali,
tiene in mano un piccolo girasole
dal gambo piegato, la corolla all’ingiù.
Avanza verso un uomo meno anziano,
anche lui con un piccolo girasole in mano.
Si abbracciano.
Il crocchio dei giornalisti li chiude tutt’intorno.
“Si ricorda di lui?” chiede uno al più giovane.
“Sì, mi ricordo”.
“Da cosa l’ha riconosciuto?”
“Non l’ho riconosciuto. Son passati cinquant’anni.
Nel ’44 lui era di leva
ed io poco più che un bambino”.
L’uomo vecchio lo abbraccia di nuovo,
il microfono che lo pressa carpisce tre parole in inglese,
poi la voce gli si rompe,
e il volto torna a nascondersi sulla spalla del più giovane.
“Adesso cosa gli farà vedere, della città?” chiedono.
“Dove lo porta?” domanda un altro.
Il più giovane, fissando il girasole dal capo reclinato
nella mano dell’amico d’un tempo:
“A casa”.

Sul comodino di mia madre, in un bicchier d’acqua,
c’era un rametto di calicanto fiorito.
Ero felice, quella mattina…
…Fuori, dalla finestra al sesto piano,
vedo il primo chiarore del cielo, laggiù.
Sta albeggiando.
Mia madre mi chiama sottovoce, per non svegliare la compagna di stanza:
“Sei riuscito a dormire?”
“Sì”, rispondo, “un po’. Come ti senti?”
“Bene. Sì, adesso sto bene… Mi porti di nuovo la padella?”
“Certo”, e mi alzo per andarla a prendere.
E mentre percorro il corridoio deserto
nella penombra ovattata del turno-notte,
penso che siamo stati fortunati,
ancora una volta.
Quando, poco dopo, torno al vuotatoio per lavare la padella,
mi fermo lì, davanti alla finestra,
ad osservare la città sotto di me.
E la trovo bella, vista da quassù,
nell’albore e nella quiete della notte che svanisce.
Non credevo, non ci speravo più — come già altre volte…
E invece, adesso, posso stare qui, a guardar fuori,
a pensare che la mamma ce la fa.
Torno da lei. Ha gli occhi chiusi e,
sulle labbra (sembra), un cenno di sorriso.
Odo, di fuori, le voci delle infermiere
che preparano i carrelli per il giro del mattino.
È ora d’andare;
tra mezz’ora devo essere al lavoro…
Non ho più rivisto, felice, mia madre.
Solo da poco riesco a non accelerare più il passo
quando incontro, per caso,
il profumo del calicanto.

Cosa sono gli anni, il tempo…
Di che son fatte
queste pagine d’un libro
che si sommano l’una all’altra,
se finiscono, sotto il loro peso,
per prosciugare,
per disseccare
questi e infiniti altri
dolenti
fiori umani,
profumati e gentili? (*)
(*) Giacomo Leopardi, La ginestra, v. 34