Giovanni Zamponi è nato a Smerillo (FM) nel 1949 e vive a Fermo, dove esercita la professione di medico. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Fascini di contemplazione (1995), Fughe nella Realtà (1996), Ombra bianca (2001), Poetry Quartet (con Centinaro, D’Angelo e Marota, 2002), Poetry Quartet 2 (con Centinaro, D’Angelo e Marota, 2020). Altri testi poetici sono apparsi su riviste come “Smerilliana” e nell’antologia 80 poeti per Luciano Erba (2003). Molteplici i saggi e gli articoli dedicati alla poesia, tra i quali: Il pellegrin poeta, Teopoesia?, La riva dell’apokálypsis, Di soglia in soglia, Gellu Naum, Archimandrita di un tranquillo disordine, La solitudine del terminus; oltre a saggi dedicati a temi di epistemologia, mistica, filosofia. Conoscitore a memoria dell’intera Divina Commedia, al poema di Dante ha riservato molte letture e svariati interventi critici.

giovannizamponi@hotmail.com

 

 

POESIE

RIME TRASCENDENTI
*
Se mai avessero già violato tutto
del tutto avuto, qui posino gli occhi
fra il nettare dei pini e il dolce frutto
dell’azzurro e i suoi limpidi rintocchi.

Sí, amore che amai, quanto piú dirada
al giogo del tramonto la mia vista,
e l’anima è vampa che si digrada
se la tua luce è palio da conquista.

Sí, amore che amo, se tutto m’è dato
qual fiore tuo e di terra, piú somiglia
a un ospite il presente, e ogni passato
sommersa tua radice è alle mie ciglia.

E questo sí che “assidua” oggi il mio canto
recida ai vasti no la voglia e il vanto.

*
Sul crepuscolo d’indaco una tela,
stelo di bruma, stella vaporosa;
miliardi d’anni e ancora la sequela
sfida il voto del tempio e non riposa.

Forse mi condurrà l’ultima vela
fino alle spine della prima rosa,
dove, dissolta ogni abile cautela,
sta la domanda estrema e timorosa:

molecole ancestrali, collabiti
singulti uguali alle virtú d’un “quanto”?
senza dolore avventi concepiti?

molecole diverse, noi, e all’incanto
lacrime trafugate? stalattiti
senza spasimi o angeli di pianto?

*
Lacrime t’offro di una rosa stanca
raccolta nel giardino invalicabile,
visitatore io dall’ombra bianca,
ombra d’eterno e sull’eterno labile.

Il fotogramma è muto, e inafferrabile
muto è il teorema che il dolore affianca;
e lontano deriva l’ineffabile
poema al giorno che palesa e affranca.

La rosa è il prezzo, il canto inestimabile,
che declina le pause d’ogni verso,
deserte crome, in serto musicale;

la luna intanto, lacrima augurale,
stellante sale in cima all’universo,
petalo con petalo intramontabile.

*
L’angelo primo mi donò una tromba
d’oro, e musicai cosí il mio dolore;
lo lamentai, e fu il cuore la colomba
che violò col silenzio quel clamore.

Mi porse il secondo angelo una spada
d’oro, e sciabolai cosí il mio furore;
lo lamentai, e fu il cuore quella strada
che arse in terra e fatica ogni altro ardore.

Il terzo venne e mi recò una fronda
d’oro, e fustigai cosí il mio vigore;
lo lamentai, e fu il cuore quella gronda
che ristorò di sete ogni languore.

Rifulse il quarto messo, e fu un’assenza
che trapassò di sé ogni presenza.

*
Tante le solitudini stasera
che indossano l’abito dell’attesa,
mentre si svela intima e straniera
la vana verità d’ombre indifese.

Poco a poco si stempera ogni voglia
di pace e di contesa in una vaga
identità che riveste e si spoglia,
e annega questo cuore, se l’appaga.

Non so se ricercare fuori o dentro
di me per inseguire luci nuove
che non siano galassie senza centro,
firmamento d’indizi senza prove.

È un grande amore a volte che mi spinge,
a volte l’ombra d’una immensa sfinge.

*
Dilaga profondissima impensata
la trasparenza di quella lontana
galassia ch’ebbi in confidenza e amata.
Eppure ascolto nella gran fiumana

dagli astri a me un discorrere diverso:
alta costellazione è l’immutato,
ma il ponte d’oro fino all’universo
ora è d’oscurità un immenso iato.

La vista che per breve si ritrova
fa in sé come un fuoco che arde e non arde,
gioco che non s’arrende né mai trova
il passo lungo necessario al tardi.

Spegnerò anche stanotte il firmamento;
domani, se vivrò, vivrò piú a stento.

RIME DELLA ROCCA E DELLA ROCCIA
*
S’abbarbica la sera ai desideri
come l’edera a questo albero antico;
vinta è la rocca dal suo tardo ieri,
viaggio rincorso d’un abbraccio amico.

Tutto, e in tutto, è una zolla di mistero
e di terra; ma qual virtú l’intende?
Non so dal cielo il vero del suo vero,
né se il buio lo estingua o lo difenda.

O mistica illusione, che ti pieghi
a condonare quel buio alle cose
della notte, qui indugia e poi dispiega

le delizie piú incerte e timorose;
e radicata dentro il tuo stupore,
lenta leva un sorso all’altrui dolore.

*
Risalgo il giorno in cerca di parole
oracolari, se sapranno ancora,
fino alla roccia prima dove il sole
di terra e silenzio è cima, a quest’ora.

Se raccolgo le tavole piú antiche
di codici di pietra in campo azzurro,
invisibili penne e ali pudiche
librano verità, ma in un sussurro.

Non invoco pietà per uno sguardo
che ora niente piú sa, se non che lento
dilegua il mondo – e muto – se m’attardo
di qui oltre il moto che eccede ogni intento.

Invoco che non sia vano quel velo
– rotolo aperto – che sorregge il cielo.

*
Non so capire se oggi porti il vento
alcuna voce; quello che mi resta
è quest’altezza, in verità, che sento
faticare nell’aria. Alla mia festa

piú caro quasi m’è il ginepro e il cardo
su un’isola di roccia, quanto basta
a pungermi le palpebre, se guardo
l’arena che dilaga cosí vasta

di vuoti in solitudini affollate:
tracce che piú somigliano dipinte
a figure piú volte sfigurate,
a mura diroccate a lungo, e vinte.

E in questa frantumata residenza
cerco qualcosa dentro la sua assenza.

RIME DEL TEMPO (AUTUNNALI)
*
T’aspetterò domani per entrare
nel bosco raro delle mie passioni,
forse riavrà la vista il mio guardare
tribolato da inganni e delusioni.

Ritorna la Sibilla a congiurare
con intriganti ambigue seduzioni,
ma è gioia di settembre assaporare
un giaciglio trapunto di finzioni.

Passa il vento su un cielo d’acquarello
che sa di giovinezza e di tramonto;
va il cavaliere e dona il suo mantello

alle pagine d’ogni tuo racconto;
passa il pittore ed esita il pennello,
perduto coi tuoi occhi il suo confronto.

*
Non indossa piú l’abito di gala
il concerto dei girasoli spenti,
e per noia neppure la cicala
affida ai versi le sue incurie ardenti.

Fende l’aratro la migliore zolla
morente, su cui in fiore e in radice
si consumò solenne la corolla.
Se cenere in attesa di fenice,

il solco fuma nel tepore stanco
dei resti d’una favola tradita,
fra terre scelte sopra un cielo bianco
sfuma aperta la favola imbandita.

Si congeda cosí l’estate, prima
che ogni altra fede in “fede” si redima.

*
Il giorno sale, ma forse è già tardi,
se cade, e cado, insieme a queste foglie;
soltanto un vento va che mi riguardi,
e incerto, che s’estingue in brevi soglie.

Fra lembi azzurri paiono più sole
quelle nubi, e distanti quei confini;
e intanto un esule accordo di sole
vola remoto a incontri più vicini.

La bella donna, sotto veli sparsi
di giovinezze senza più intenzioni,
si specchia a una vetrina, e il suo ammirarsi
cauto e incurante cela altre emozioni;

l’accarezza una foglia, che ha il colore
della pelliccia che indossa, e il dolore.

*
Friabile di nebbia e quasi un vapore
timido di calendule il tramonto,
affinità disperse entro un dolore
che muto attende nel farsi racconto.

Fruscia l’autunno, ma è amaro rumore
solo che chiama solo che risponde,
che veglia e tace e veglia: fu amore;
che tace e veglia, angolo profondo

di nuda verità; antiche voglie
chiedo all’albero, come a un poeta,
in colmi d’impossibile raccolto:

che sia restituzione, se non vieta
questo il breve stormire d’un ascolto
che chiude e schiude un crepitio di soglie.

*
Amo di questi giorni l’imbrunire,
quando palpita il cuore dei lampioni
nel vespro, mentre indugia, sul finire,
una quiete devota sopra i buoni

mondi che si confondono: lontane
ragioni vere in seno a ciò che tarda;
ore sonore, note di piú arcane
partiture da un buio che sogguarda.

Sosta la notte lieve sopra un velo
di pensieri rifratti dalla sera,
quasi operosi sentieri tra voglie

d’eterno, ove l’anima si raccoglie,
dove s’accoglie frazionata e intera,
se alto piú sú s’adorna e si apre il cielo.