Giovanni Perich è nato nel 1941 a Bologna, dove è scomparso nel 2013. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Gli incantevoli mattini (Guanda, 1979), Poesie d’amore e quasi (Edizioni del Leone, 1998), Un inutile amore (Edizione del Leone, 1999), L’acrobata nell’azzurro (Aragno, 2004), La passione interminabile (Nomos Edizioni, 2012). Ha pubblicato i romanzi La città sfiorita (Camunia, 1992), Gli amari impatti di Malanato (Pendragon, 2009) e i libri di epigrammi L’unghia lunga del mignolo (Edizioni del Leone, 2001) e Tra feudogiornalisti e feudocantautori (Giraldi, 2010). Sue poesie sono apparse sulla rivista Il Belpaese. Una sua raccolta di epigrammi è apparsa sulla rivista Concertino. In collaborazione con Pier Damiano Ori ha pubblicato tre biografie: Talleyrand (Camunia, 1978), Matilde di Canossa (Camunia, 1980), Maria Luigia di Parma (Camunia, 1984), e il romanzo La carrozza di San Pietro (Camunia, 1983).

http://www.literary.it/dati/literary/r/ruffilli/un_ricordo_per_giovanni_perich.html

POESIE

da PROVE DI MORTE

*
Ma questa è già la “non sopravvivenza”,
il post mortem virtuale:
quattro lustri e più dopo,
l’assalto al treno (“vuoto”, come aveva
aggiunto, ironizzando,
l’uomo magro ed itterico, civile)
alle otto di mattina alla stazione
di Firenze, e la nave da crociera
nella teca dell’atrio, prima della
diaspora per Scandicci, tra le solite
fitte al pensiero di Angela, qui,
tra queste lente curve e case e insegne,
mai venuta o ventura. E che sinistro
miracolo, sapendo
che sono, altri vent’anni, un miraggio,
che tutto sembri
così vicino, ancora sembri ieri.

UNA FOTO DEL ’40
Sulla spiaggia di Senigallia, e quanti
frontalmente schierati e, come usava
(uno spavaldo e giovanile, un altro
già padre di famiglia
e perciò rilassato) coi pudichi
costumi dalla cintura anellata
bianca, e tutti in attesa.
E, fra essi, mio padre. Dietro,
ma più che altro dai capelli, si
indovinava un mare
appena mosso in quel biancore. E come
solo ora recuperano senso,
dal fondo della cassetta, più simili
anche a me. Perché, in fondo,
è un’altra morte il tempo che non c’eravamo
prima di nascere.

CHIAREZZA
La fiducia in un Dopo
in filigrana angelica e santini
ti ha nutrito, l’hai avuta.
Ma era la bagarre dei sentimenti
tagliati con l’accetta, e delle rosse
furibonde erezioni.
Vivere e credere all’eternità
era un tutt’uno
con la felicità del corpo vano
nelle vetrine al mare.
E il Paradiso era già qui.

PIÙ CHE QUESTO
Più che guardare e imbevermi
dei cirri, più che respirarli come
davanti a un quadro di
Raffaello o Dalì, o come quando,
con pochi giorni di vacanza al mare,
assurdamente
inalavo lo iodio con violenza,
a farmene riserva. Più che questo…

PROGETTO PER LA MORTE
Ma poi, quando ti prende,
ti lasci andare, delega
in bianco al bianco delle
infermiere e dei muri
assetati di rosso di Derain.
Nota: “Donnez-moi un peu de rouge”, battuta ospedaliera attribuita al pittore

*
Anche così, magari
fra il bollettino del tempo
e lo scolare della pasta a sera,
fra tavolo e lavello. Come una
libellula sfregata
fra due dita. Non come
Garibaldi nel quadro a Caprera.

RISTORANTE SAN MARTINO
Carrelli di bolliti,
paradisi del caldo
fasciante nei ristoranti, a gennaio.
E dei fumi. Ma, dicono,
accelera, la supernutrizione,
la morte. E io ci credo. Ma,
anche, accende il nirvana,
ti preserva dal gelo
che sempre meno tolleri
di sentirti nel corpo.

LA BELLEZZA DELLA CREMAZIONE
Ma questo patrimonio,
miracolo che sono,
a pensarlo inceppato in una volta
e subito infrollito, carne-verme,
per un embolo, una
venina… E almeno, dopo,
potesse riposare, statua-corpo,
a futura memoria in bella vista
sul più duro basalto.

DEFILAMENTO
Preparare la non sopravvivenza
nello scempio benevolo
dei vivi; fin da ora
libero dal fastidio di sapermi
ancora ombra dove
è, per gli altri, la vita
carne e sangue, e mangiari e odori e amori.

EQUIVOCI DI BASE
Il corpo, indegno
di qualsiasi aldilà,
pensavo… E già in Confessione, da piccolo,
mi sentivo in difetto
perché non aggiungevo, per vergogna,
“anche” le funzioni fisiologiche.

da ULTIME PER ANGELA

LA PREVEGGENZA INUTILE
Non era la sua indole,
il suo cuore! (e fu il mio massimo
tributo averlo già allora saputo)
cosa per me. Ma come
profondo deve essere
stato questo mio amore
per accettare di vivere
così sicuramente dentro un sogno
destinato a finirmi.

QUALCHE VERGOGNOSA NOTIZIA
Nella routine dei giorni
con la carta carbone,
non va male. È soltanto
la rottura imprevista dell’ordito
che m’accascia: mancare
per tre giorni di seguito,
alla periferia di Modena, via Kosica
con l’orario che incalza e ritrovarmi,
affannato, lontano; se va via
la luce o la televisione
si guasta troppo tardi
per rimediare. È
allora, solo, ignominiosamente,
che ritorno uno straccio,
come se fosse ieri
che c’è stato l’addio.

ANCORA SOGNATO DI LEI
Era Angela, certo,
ma non lei,
un viso tutto diverso. Era lei
perché io lo dicevo, e dicevo:
“Ma cos’hai fatto?”. Eppure
gioivo, nel sogno,
di aver deciso di ritrovarla, di averla
chiamata, affannato a scoprirle
appena una granulosità
accampata nell’occhio
di quell’altra persona che era lei.

LA CARTINA DI TORNASOLE
“È sapere che ci si abituerà,
che inutile è il lutto
che ti sottrae il domani,
il peggio…”. E, allora,
non pensarci, sbrigarsi
con le pratiche del cordoglio. Ma
Angela, ancora dopo cinque lustri,
nel mio fondo? È, lo so, inceppamento
cerebrale, abitudine
priva di una veridica
sostanza. Eppure è vero
che è soltanto con lei che a Trieste
potrei tornare senza
residui, da
nulla rimorso e, su tutto,
l’idea di non essere “con lei”
lì, al confine da tutto.

da POESIE DELLA PENSIONE

*
Questa nuova stagione (che “si apre”?)
forse più desolata ma tranquilla,
e mi fa gioco, adesso,
l’idea della città randagia, piatta
fra le nebbiole dei mattini…

L’AMICA
“Con la liquidazione” (che parola)
“imbiancherai la casa,
cambierai almeno le sedie” dicevi. Io,
sapendo i miei guazzabugli,
sorridevo, nicchiavo,
anche, a tratti, angosciandomi. E, adesso
che il gruzzolo è arrivato,
come ti sono grato
che non lo dici più, che hai capito
che non basta la quota di speranza
a quel piccolo sforzo.

da OLI E ACQUARELLI

LA DIRIMPETTAIA
Un’argentina, o una cubana bianca
(non necessariamente io furtivo)
dentro il grande rettangolo
della stanza. Ma poi,
una volta per strada,
non era facilissimo decidere,
a parte il supplemento
di fascino di quei
gesti, per quel loro svolgersi lì,
se così preferirla,
ballerina ingaggiata di lontano,
o invece concittadina, a sorpresa
nel nero antro della fruttivendola
come tutti in attesa
fra gli acri odori delle merci e
le verze a terra buttate. Del resto,
come in una bottega dell’Avana.
E l’enigma continua.

VIAGGIO
Anche le biancorosse
ragazzine all’unisono
cromatico e di modi,
che servivano ai tavoli
della CAMST appena fuori
la stazione di Mestre;
i taxisti allineati
nel sole, lungo il marciapiede, i
gomiti ai finestrini; gli
abitués da una vita, coi minimi
riti confidenziali. Non sono
spariti solo perché con Mariella
riprendo il treno. “Anche
qui” diceva l’amico di una volta
“si vive e si ama”.

da LA CASA DI VIA SARAGOZZA

TRASLOCO 1958
La mia rivoluzione
copernicana: aprì le cateratte
all’età delle angosce inesprimibili
e senza chiara origine. Ma c’erano,
nel nuovo bagno, le
buchette per il sapone. Così
non mi parve di perderla, perdendola,
la vecchia casa di via Saragozza.

SFOLLAMENTO
Uscivo da un casermone, a Piticchio.
Una macchina ferma, sul portone,
friggeva. Avevo – io o qualcuno – scordati
su i guantini, di lana blu, a gattini.
Mia proprietà. Ma era
il terzo piano e
così raro a quei tempi avere un’auto.
Tutto premeva intorno a me. Partimmo,
io con dentro, però, un’idea, la prima,
di ingiustizia e di perdita.

*
Solo, a Piticchio, un mattino, nel sole,
treenne problematico,
volevo con un temperino svellere,
buttato a ginocchioni tra due
case strette di vicolo in discesa,
le fondamenta della mia. All’intorno
c’erano, si diceva, “i partigiani
della Maiella”: una sciccheria,
pensavo, quasi
con questa stessa parola. Poi, altri
tredic’anni sarebbe
stata ancora, la terra,
senza Angela. Ma
era scritto, con certi
pensieri che, prima ancora di nascere,
era persa.

COSE DA SCRIVERE
Troppo procrastinate
per incapacità
e chimeriche ormai… Ma non è
lo stesso, in fondo, essermele godute
dentro la mente? I
fruttini di marzapane, o l’idea
che fosse “tutta di legno” la casa
di Arcevia: proiezioni
perfette della più
perfetta delle autobiografie.

PORTO CORSINI 1946
C’erano punte di spilli sul mare
quel giorno, oblique. Io per la prima volta
lo scoprivo venendo dalle erbacce, come una
detonazione blu, via via slargantesi.

INFANZIA
I “bianchi”
erano i bianchi d’Inghilterra,
gli invitti, i mai sconfitti
dagli azzurri, di cui sapientemente
favoleggiava mio padre. Erano,
fin dal mattino, nella
nebbiola della strada, immaginato
contrappunto cromatico
alla formicolante attesa, prima
della radiocronaca “completa”
accanto alla Marelli luminosa.
Quel giorno
persero, i nostri, proprio in fondo, due
gol, raccontò Moro, uno sull’altro,
per la iattura della nebbia. E, ancora,
non parve il sortilegio scalfibile
anni dopo a Firenze, col pareggio,
uno a uno, alla fine, di Amadei
e il “Rete, rete, rete!” di Carosio,
a distesa ed incredulo.
Poi, invece,
vinse, un giorno, l’Italia. Ma già era
eroso, a quel punto, dal consumo
televisivo anche il passato. E
non fu una festa in proporzione, nella
già avanzata primavera all’Olimpico – anche
indolore l’impresa, certo – quello
scoppio a freddo finale: conclusivo
obolo, più che altro,
a una già esaurita preistoria,
annegata nel sole
di una domenica fra tante.

da DONNE ANCORA

LA DONNA CHIMERICA
Dal basso dell’emicrania
il suo fascino è prova
flagrante che non può
più finire, persuade a preferire
che rimanga a tarlare
all’ipotesi (ragna, incubo, rebus)
di muovere domani alla conquista.

UN ALTRO SOGNO
Nera, ma rada e corta
sulle guance lattee,
Sonia aveva la barba.
Me ne accorgevo solamente dopo
averla cinta alle spalle guardando,
giù da una balaustra,
una partita, credo di pallanuoto. Ma
non era, il mio, dentro tutto quel chiaro,
un ribrezzo. Piuttosto
il cruccio di non potere più stringere
come una volta quei suoi seni unici
dai capezzoli acini, sgranati,
spalmati, anzi, sopra e sotto. E
c’era poi la questione più importante:
la sua dolcezza. Quella non potevo
– e il visetto dolcemente concavo –
a nessun costo accettare di perdere.

LA TARDA SESSUALITÀ
Questa
quota di desiderio realizzabile
a costo del ridicolo. Ma
dove c’è gusto, dicono
a Napoli, non c’è
perdenza. E, allora, ben venga
la finalmente e
davvero solidale
creatura senza punte,
dimentica per una
volta di sé e a te solo votata
non per soldi: puttana per dolcezza.

DONNA DI MEZZ’ETÀ
Persa l’eternità con l’onniscienza,
l’ubiquità, la non appartenenza,
non più regina di qualcuno, ora
persona finalmente democratica.

LA MUSA INQUIETANTE
Nel sogno Alessia (credo, almeno, lei,
talmente dirupati
i lineamenti, annacquati,
e anche il tondo dell’occhio,
come qualcuno avesse urtato al gomito
chi, in inchiostro di china, lo formava): “Ma lei
è un uomo pericolosissimo”
sibilava con odio e paura,
stringendo gli occhi e scostandosi. Io
trasecolavo. Sapevo
di non avere mosso un dito, dopo,
per ritrovarla. Ma, allora, che altro?
E soprattutto, cosa
di così insopportabile le avevo
fatto, soltanto col glorificarla?

LA CITTÀ SPIETATA
La brutta
ragazza mostra l’ombelico. È
suo diritto. Ma fa
peggio, perché subito scatta
malevolo lo sguardo
al naso da faina,
alla bocca da lepre e così cassa
la realtà di quel tondo. Così, nella
città d’oggi, spietata,
vendica la bellezza ogni indebito assalto
ai suoi emblemi, preserva
a possibilità di pieno anelito.

NUDO
La diceva d’argento,
certo indebitamente (e infatti, subito,
di rame) immaginandola. Ma
così, rame o argento, i suoi occhi, la pelle,
i capelli perfino, e i denti,
come alonati dal tutto,
solo la presagiva. E, quel colore,
uniforme, spruzzato
meticolosamente
giù giù dal filo della schiena fino
sopra i molli risvolti
delle dita… Ma poi
solo Mantegna può spiegarla, se
voluttuosamente (conscia o meno)
schiacciata come da una gravità, ma eretta ai gomiti,
tutta un’orografia la marca: le
natiche dune, elmi esattamente
segati uguali alla base; e, appena
due centimetri sopra, quella sua
ossea svasatura: fiore, foce,
area franca indifesa
in apparenza e, invece, svincolo,
cellula della sua potenza, più
struggente quanto più
silenziosa lei, o altera.
Poi, è ancora
l’argento che si fa
sogno nella parola, immaginato
consenso a me, incredulo
che, così inafferrabile,
inspiegabile anzi, lei pure
abbia le parti molli, e che le esponga,
delle dita dei piedi.

da LA GIORNATA DI SISIFO

SISIFO
Fossero solo mattine,
col filo dell’equilibrista sempre
alto e teso nell’azzurro, ancora
astratta e non nociva l’idea
della resa dei conti, del bacillo
pomeridiano solito, al ritorno
arido nella cripta…

TRANCHE DE VIE
Usciva, ritornava e poi di nuovo
usciva, a ben dosati
intervalli. E ogni volta sulla soglia
un attimo esitava
in bilico fra quei due vuoti,
al trillo immaginario del telefono.

A MENO DI NON VIVERE A NEW YORK
(a G. un tempo amata, a suo marito e agli altri)
Ragioni di misura
– dovrai ammetterlo –
suggeriscono più
prudenti strategie e, prima fra tutte,
l’abolizione degli addii. Perché
dopo, lo sai, di continuo è un tremore
agli angoli di strada
delle città-pozzanghere, uno svelto
distogliere lo sguardo
quanto più insostenibile, con gli anni,
l’anacronismo del tuo punto. Eppure,
a guardar bene, non sei tu, ma sempre
gli altri, gli ormai appagati
e quelli che non c’entrano,
per malizia o noia a non tenere
il patto, a trasformare
subdoli in un ridicolo
puntiglio da burletta
una tragedia giovanile.

ALTRE POESIE

MECCANISMI
Ma che stretto ventaglio di pensieri,
sempre gli stessi ignominiosamente,
quasi misura igienica
poco prima del sonno. Così, ora,
per equanimità, provi: col Nepal,
forse, o il Giappone e le sue isole,
solo come fiammelle
della città di Dite
sempre pensate nel punto
dell’ammaraggio notturno. Però,
vedi, dura un istante l’ampliamento
e subito ritorna
l’intrico vegetale
dei pensieri covati sotto casa.

NON LO SANNO PIÙ FARE
Imita, il nuovo cinema,
la vita e crede di rappresentarla.
Non recitano più e vanno, i dialoghi,
per conto loro, a rotoli
di intelligenza fritta. E inerti e sciatte
le scene, sempre un po’
gonfie troppo e prolisse. Davvero
bene diceva la Lollo che, un tempo,
“ci faceva sognare”. Adesso storcono
il naso i giovani
al bianco e nero. Io
ancora come una ricchezza covo
Capitan Blood, Beau Geste, Quai des orfèvres.

IL MESSAGGERO DELLE GALASSIE
(a Italo Calvino)
Di una inconsumabile materia,
uno
di quei tuoi uccelli tutti
osso e becco, pure gli occhi… Era
questa, non so perché, da sempre
la mia idea che tu fossi. Così
– fosse quella balbuzie,
o la finezza superiore – adesso
non mi è d’impaccio immaginarti nella
morte non quale la si disse, ma,
con quel sorriso automatico sulle
mascelle afflosciate,
e le palpebre anche,
da qualche parte ancora
instancabile in viaggio ad annotare
vive le meraviglie e a crearle
dentro il nero pneumatico di un volo.

LA LOSANGA DI SOLE
Luminoso mattino,
e azzurro. Lì, a sinistra, una losanga
gialla di sole. Se anche
l’aria appena più fresca,
l’inizio delle “Lettere da Capri”.
Tanta desolazione da che, sabato,
Mario Soldati se n’è andato e sembra
d’un tratto mai esistita quella sua
curiosità ecumenica:
le farmacie notturne, i “pezziduri”,
quella furiosa alacrità capace
di rinsanguare i luoghi, dare un senso
credibile alle cose, che pareva
non dovere finire. E questo vento
freddo, la gente in fretta che va, più povera
senza saperlo…
Ma, allora, di dove
(e perché mi rincuora?)
così assurdo il pensiero che non era,
in quell’esatto punto,
diverso il sole nei suoi anni: cara
sterminata voragine che una
serie di foto in bianco e nero adesso
ci rimanda: la Valli
sul set di un film poi mai distribuito,
e altre. E altre… Anche lui lo sapeva,
che non perdeva un minuto di vita,
che il presente ha ragione, che erano
perfino le onde di Tellaro un ultimo
prestito alla passione:
qualcosa prima di lui,
qualcosa dopo.