Gabriella Maleti è nata a Marano sul Panaro (Modena) nel 1942, dopo l’infanzia in Emilia ha vissuto e lavorato molti anni a Milano. Nel 1981 si è trasferita a Firenze, dove è scomparsa nel 2016. I suoi libri di poesia: Madre padre (1981), La flotta aerea (1986), Memoria (1989), Fotografia (1999), Parola e silenzio (2004), Prima o poi (2014), Il giorno sulla foglia (2023). Ha pubblicato anche testi di narrativa, tra cui Morta famiglia (1991), Due racconti (1995), Amari asili (1994), tradotto in inglese dalle Edizioni Carcanet (1999), Queneau di Queneau (2007), Sabbie (2009), Esperienza (2011), Vecchi corpi (2015). Ha pubblicato un e-book fotografico, Cosmo vegetale (LaRecherche.it, 2010). Fotografa e autrice di molti video-film, documentari e video d’arte, è stata redattrice della rivista “Salvo imprevisti” e di “L’area di Broca”. Nel 1984, con Mariella Bettarini, ha fondato e curato le Edizioni Gazebo. È presente in molte antologie e rassegne di poesia e narrativa contemporanea.

http://www.gabriellamaleti.it/

POESIE

da VECCHI CORPI

6
Poi tornano invisi alla tua memoria
frammenti di ambasce, soliloqui, canti,
bisbigliano come annotazioni, come
segmenti mutilati, e versioni annebbiate,
oro a tranci mescolato, variazioni del buono
e della consustanziale filigrana nera del nulla.
Così i tuoi occhi guardano smisurati ciò
che arriva dal corridoio, ma è una compagna
che sorride, stringendo nella mano un
mazzetto d’erbe e solitudini.

7
Tanto remissiva è la tua vita, qui.
A volte leggi, poi ti strapazzi
raggiungendo qualche porta. Cammini –
rosa vecchia – per piastrelle indefinibili,
se non fosse per il quadrato piccolo che
rappresentano, piccoli stralci di ben fornite vie,
lunghe vie maestre che non hanno insegnato
niente, che ti hanno invece portata per
rivelazioni e cause definite indefinibili,
poiché in giorni di sole hai misurato
quanto poco è ciò che anima.

10
Gli occhi di tutte voi, stelline moriture,
che vi adoprate come sapete, sparse nel
campo verde della permanenza, vagano
misurati e battono le palpebre come nidiacei
appesi al nido, un poco sorpresi e un poco
spaventati. Occhi vostri che contemplano
il caro esserci e le nubi improvvise
arrotolate e distese, grigie e con sussurri
invalidanti e poi basta un nembo luminoso:
gli occhi passano insieme un poco fanciulli,
proprio come la vita che va per la sua strada,
ma oggi per tutti c’è ancora luce.

18
E dunque ridi forte. Perché? Ridi a crepapelle.
Siamo nel campo, su una panchina anch’essa vecchia.
La vernice verde si è ròsa nel tempo. Il legno spoglio,
opaco, annerito nelle pieghe è a chiazze verdi in varie parti.
Paiono tacche di tempi vissuti bene o male.
Ma perché ridi? La tua mano destra piomba sulla coscia,
il rumore è piatto, non s’allarga, non sale, si acquatta
sotto il tuo palmo. Poi strusci le mani sulle ginocchia e
chini la testa dal ridere. Un momento, e la rialzi al cielo,
e sempre ridi. Saranno le nuvole? Parole spezzate ti
gorgogliano in gola, un cenno di saliva non sa se scendere
o rimanere dov’è. Mi stai raccontando un episodio che si
imbroglia nella tua gola. Lacrime per il gran ridere
cominciano a scivolarti dagli occhi. Mi volgi il viso
e gesticoli. Con l’indice indichi un posto davanti a te.
“Là, là”, indichi, e ridi e lacrimi. Sembri felice.
Poi piangi solo.

19
Dal letto mi allunghi una mano. La tengo così, come terrei
quella di mia madre. Il mento ti barbella un poco. “Che fai?
Non ti metterai a piangere!” Abbassi gli occhi. “Ho paura”,
dici piano. “Paura?” “Sì, di morire”. Chini il capo sul tuo
povero seno. Che dirti? Che anch’io ho paura della morte?
Che l’aspetto come un frutto marcio che cade? E poco o
niente mi solleva da quel momento che dovrebbe essere
l’allontanamento lieto dal corpo? E invece scuote come
una siepe indefinita, lontana da ciò che vedono attorno
i miei occhi. Che posso dirti, sorella? Che pesto i piedi
e dico no al cielo, alle promiscue nubi che mi rapiranno?
Vorrei chiudere definitamente gli occhi, ora, lasciare
il mio cane, le mie erbe, ora, con la tua mano nella mia.

27
E tu, che dici, assorta su una seggiola,
tra due letti? Le mani sulle ginocchia,
le braccia tese: “Su, cavallino, corri,
portami via!”, pare tu voglia dire, le
redini molli. Sapessi come, che qui
scrivo, vorrei essere su un baroccino
tirato da una inquieta cavallina nera.
Potremmo essere insieme nel vento
di marzo, tra campi, alberi e viole,
lì lì, viole quasi aperte.

da PRIMA O POI

*
Io non so che cosa dovrebbe in me tacere
e cosa parlare.
Non so se il momento è veramente gioioso
o se non lo sia,
o se nessun momento sia gioioso o
tutti lo siano, nonostante tutto.
Nonostante la lingua non sia madre buona,
e la volontà, in genere, non lo sia,
o lo sia a mezzo.

L’ombra passa negli occhi,
cade quello che fede non è, ma sforzo, argano,
mulo alla ruota.

*
Era per dire che
ci troviamo la vita trascorsa, anche
se noi la trascorriamo,
forse liberi, ma chiusi nella teca
che ci è data,
e non scelta. O forse scelta.
La confusione è totale.
Nondimeno, si considera nostro il nostro
tempo-vita, e non c’è – come me – chi
lo ritenga nostro e onesto, e invidiabile.

Perquindi, osserva le colline ora brumose,
alberi, terra, ed ogni minima opera che pur sia sasso
o scaglia,
e lunga sia la tua esistenza, e vivibile
ché io non posso concedere vita, né toglierla,
né vorrei.
Solamente indicare con una mano
lassù, il cielo e il suo colore,
se di arcobaleno si tratta.

da ESPERIENZA

Insieme a tutto quanto
II
Noi stiamo a guardare da una doppia tenda
ciò che di noi assiste e ciò che rimane, puntellato
ai cappi muschiosi e a piccole erbe grasse.
Verrebbe da pensare: ora usciamo spostando la tenda grigia,
così la coltura degli anni è in luce, perché niente è più insepolto
del sepolto, ma formalmente è stipsi di vita,
tale da ammucchiare le note condizioni dei giorni belli e bui,
bua da tutte le parti, come doglie perfette e imperfette.
Così è l’interferenza di ciò che si duole quando
rammemoro anni, e quando un lieve lilla si presenta.

IV
Si dice repente il cambio d’umore per l’immagine che balena,
il negativo manda acqua e nubi, e poi lentamente
il positivo del negativo affiora dalla tinozza, e non si capisce cosa
vogliono i due, se non offrire vibrazioni sorde, come chi
cammina in soffitta.

La soffitta
II
A mio parere, linguaggi, lungaggini, diatribe, rancori,
intolleranze, improbabili similitudini si sono rincorsi
nel vario tempo di ognuno, il più tempo buttato alle
ortiche, come funicelle marcite nell’acqua.
Si scioglievano in particelle non più visibili.
Siamo stati bravi a tenere il volante,
più per caso che per volontà, aspettando che
finisse l’acquata, pur camminando, tacendo,
nei momenti socio-abitudinari,
corrotti dalla violenza istintuale del più debole.

*
Guarda: c’irride la bell’uva,
sul tavolo e la pesca in carne.
Rosso al suo interno come anni non stufati,
il cocomero tiene in serbo friabilità e
crescita a terra, così, come il corpo nostro,
cerca d’appassire al suolo, retto da magri interessi,
ormai, da tasselli malformati,
che neanche a forza s’incastrano fra loro.

Ma di quale esistenza parlo?
Dell’unica, viva morfologia che,
pastrano dopo pastrano, ci ha fatto salire
sulla scala appoggiata al fienile, dove
paglia, fieno, topi, gatti, ci hanno indicato
cosa avveniva giù.
Vedemmo bambini, adulti.
Ci vedemmo.
Oh gloria del cielo, tutto camminava,
tutto aveva senso,
tranne il senso.
Le cose erano lì. Non rispondevano,
ma di mano in mano si passavano il filo.
L’uva cresciuta moriva, rinasceva.
Miracoli ai nostri occhi.
Vuoi il filo?, chiedeva la pesca,
e lo diceva anche l’erba, l’uovo della gallina,
la sua piccola cresta.
Il filo nero, il filo della rosa,
sfilacciato.
Tira, ma senza velocità.
E gli uccelli nella tagliola, tra la neve?
Impurità della nostra vita, della nascita.

da PAROLA E SILENZIO

Parola
rapida e meditata
frastagliata fatta a schegge (simile al silenzio,
del silenzio suburbio regio).
Cosa potremmo essere? In cosa ci distinguiamo?
Dillo tu, coda eponima impigrita: “Oh, bei dì,
dillo tu com’è”, con l’amenità di chi
spinge parole e incontra la lingua
che ripropone parole non a tempo e già fuori dal tempo,
ma qualcosa vogliamo, lo si rivuole,
addosso alla chierica balbuzie che sssibila metonimie,
come te: buriana bianca della mia tempesta
valore scandito a pezzi: campo di questo lavoro,
su su, nella parola rotta, inseguita,
nel tempo che sopravanza e risibile è il suo limite.
Riusciremo mai a dire nel ripudio d’una parola lesa
un’altra parola e una simile, l’ascesi e la sua oasi?
E il tempo, che fa, durlindana mozza, raccapriccio di lingua?
Non farà come quanto è già avvenuto o
così poco dirà di quanto deve avvenire?

Difilato un gallo tira il collo,
insegue i mezzi della sua parola
quanto non è passato ed è già passato in un’alba
e sempre passa
da formare corone (o catene) impareggiabili di “co” e di “chi”.

Ah, si fosse nella gola del gallo
per agguantare alba e gallo.

*
Da quando battente
col suo rinvivito odore la pioggia
e quella tramontana
lungo il corso
coda di rovesci nell’azzurro
di piccoli traguardi – si direbbe –
raggiunti con la monotonia del picchiettare
acqua ripetuta sferzata da destra
e precipitata obliqua
spinta nella sua ripetizione
pioggia, ripetente balbuziente
mentre lassù qualcosa si muoveva
se non nubi fastelli di fili
residui da mostrare il bianco
e l’azzurro cielo,
una freschezza raggiunge e
libera dalla coazione ad essere pioggia e suo linguaggio
vocazione coatta a ripetere quanto so
e non riesco a dire.

da FOTOGRAFIA

(i titoli delle poesie sono estratti da Il libro dell’inquietudine di F. Pessoa)

“Miei giorni di bambino, anche voi con il grembiule addosso!”
Ciò che non volevo non l’ho fatto. Ciò che vorrei non lo farò.
Di quale età “festiva” farne carico?

Ruzzolavo nel vestituccio dei miei avi bambini, bambino
ripido e sarchiato, riverente, talvolta a testa in giù
nell’acquitrino finemente abitato: insettucci in superficie,
e giù: saette, nutevolezza di codine a dirigere il percorso,
la passione vitale, nel mosto grigio, il loro gaio affare.

Cuori di animali tesi e fuggiaschi. Mio cuore in loro.
A poco a poco, cuori in spirito, fondanti su gagliarde zampe.
La solenne scrofa tossiva divorando i pennuti coco-stramazzati.
Farò. Farò. Anch’io farò, pensavo, con questo cuore da sterno
animale. Ma: viso glabro e insolita permanenza nel vocativo.
Oh, oh, lumini e saette, questa è la mia parte?
Scodinzolando nelle giacchette approssimate oh, dunque io,
tutta qui la nascita, mater dolorosa?

Sarchierò, vangherò, difenderò – pensavo – messa precocemente
a guardia di memorabili quasi decessi, di probabili eccessi,
di tutto ciò che si deteriorava, intristiva le mie zampette
di bambino.

Ma di quale infanzia sto parlando?

“Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il Cielo”
E da quassù o quaggiù,
nell’ormai nitore del tutto
o del nulla,
nella sede degli accantucciati o
morsi
noiosamente investiti dell’autorità
di ruminare al fuoco
– in propria mente e loco –
l’investito ardore di sé
e la conoscenza ormai disconosciuta
dei se e dei non e il magistero
del non finito,
stiamo raccolti come un pugno qualsiasi.

“E non c’è niente di meno esatto che pensare alla morte come a un sonno? Perché dovrebbe esserlo, se la morte non assomiglia al sonno?”
Ciò che pare morte
ma non è morte
eppure così morte
è la permanenza notturna
nei biechi balocchi del sonno
e sue protesi
silenziosamente mossi ad esaminare
a convergere,
e noi,
ficcati così nel mai più indulto
e concesso,
stiamo notturni
nel morbo di morte e sua sola figura:
altro non è il vascello
che ci esamina
nottetempo.

“E nel pensarlo con i sensi il chiardiluna è un tedio fatto ombra bianca che si oscura come se gli occhi si chiudessero su questo biancore indistinto”
Aggiungi me nel tuo morto lucore da biacca ferina
e scaltra vivente, luna,
io che vagisco appena e m’invalido della mia
affrettata compiutezza

Vado rompendomi, dilagando in ebbri mutismi
alla tua chioccia luce di demente che salpa e
ride delle pro/celle che marcano futuri gibbosi

Da qui t’osservo che cali, t’immiserisci,
reverendissima luce da misfatto, da usbergo,
da diceria, da stremata parente ingrassata che, stallatica,
attorno al bollore dei manzi beve e s’affossa nel suo ventre,
tonda, postribola in sua luce, commisera e tace.

No, così vaga e torrentizia, così scura
che mi talloni, respiri addosso a foglie
a bestie minute, agli implumi,
godi tu dal tuo occhio-timballo
le preci, i gusti, le salmodie notturne.

“Chi sono quando sento? Che cosa muoio quando sono?”
Sono ciò che mi sottraggo
e dalla mia stesura sento
e la morte non è che un rimasuglio
dal momento che ho capito quanto sono.

Questo mi pare il lascito
fosco
se non m’inganna il debito
contratto con qualche colpa,
se non mi perdo nell’incerta mia figura.

O nata già come confusa struttura.

da MEMORIA  E ALTRE POESIE

La donna nana
I viaggi che non ho fatto.
Gli immensi i sovraccarichi i munifici viaggi.

Giro per le stanze
osservo una tumefatta donna nana
che talora all’incrocio sosta
mugola nella sera aspettando una
indefinita auto.

Nella mia automobile viaggio
sovente
sparuta.

Non più di una stella
sola
sovente si mostra alla nana e a me
che parlottiamo sbilenche
e poi non è la stella
è l’aereo che vola
che passa
lei piange tòrta
io faccio l’aereo
piegando la testa amazzonica e
pampas.

Dovevan venire dice lei
guarda raso la strada
poi dondola come fanno le onde
(mio padre nuotava
scalciava nell’acqua bassa
con le corte gambe tintinnava).

Così la stella è scomparsa.

Piega il piccolo braccio sugli occhi
la donna
dice: proprio quest’ultimo giorno dell’anno.
Almeno bere tra dònnole e muschi
penso salendo la strada per
un viaggio dagli zii taciturni.
In alto: qualche verso notturno
la solita stella.

All’incrocio lei pesta i piedi
alta come una radura
sbianca
cerca l’automobile
innocente annaspa
qui all’incrocio – dispera
i miei viaggi
gli occhiali da sole.
S’alza dai sugheri
vuole vedere i suoi
lunghissimi anni che
non arriva a vedere
arcuata traballa
(al di qua) la testa pesante.

L’auto non viene
– mi hanno dimenticata – langue.
Così l’han dimenticata?

Correvo
le mie vecchie cugine lontane
han messo la barba
sono ombre deluse di capra
salgono greti
sono i miei viaggi padani
formelle.

Ora piagnucola invecchia
s’increspa la nana
più in là oscilla una palma
sono i miei viaggi al ribes
alla bislacca confettura per diabetici.
Mi sovviene
un ‘antica parente di zucchero
a cui mosche blu davano la caccia.

E’ così lontana l’aurora?
Piange la piccina starnuta
si pulisce con le sue cose incignate.

Le basterebbe l’auto
bere a molti palmi da terra
accesa come l’inferno
smemorata e poi pallida.
Pare coli
si dissolva nel fortuito belletto
con quella corona sgraziata
invece avvizzisce
manda suoni flebili da intera nidiata
poi soffoca.

Ah malaugurata sorte e regina e
reginetta
argentina tu e trilli.
Forse più catafratte
perderemo finalmente i bivacchi
le cugine assennate.

Il mare
Mare immoto temuto mare
dei miei dubbi anni
quando una (affralita) barcarola
faceva strascico di sé
nelle nostre umide menti di bambine
nei sommessi clangori delle posate dei piatti
a bada dei nostri silenzi andava
mostrava le sue catene
veniva fra i tavoli
fra le nostre mute gambette
(nella colonia marina)
tornava biascicava fluente
dalle nere guardiane a noi
sui nostri occhi che non vedevano il mare
che pure a uno zittito colpo di tosse
navigava.

Intanto mare
lambente il bianco rissoso delle vesti.
Treni bianchi portavano sudate visite in lino
cappelli schermati e inadatte scarpe lucide
(seppioline fuggenti).
Così il sonno che sopraggiungeva
unito ai malanni della mente
si faceva gorgoglìo
tiepido intrico e dispersione
nelle vaghe luminelle della notte
quando i miei carabi e t/umide scolopendre
mi circuivano i sogni.
Misuravo i misteriosi fiotti che
pure balzavano intersecanti
lungo il dromos della mia mente
e i canuti arredi
e gli oramai diruti prodigi.

Poi lontano dal mare
in altri fragori
nel corpo fastidiosi mitili
ragnatele di fillossera
(come distaccarsene)
rampe di oceani raggiunte con
i fragili e freddi malleoli
ogni tanto cascavo
ogni poco nelle cupe serre
a guardare il mare
il suo maremoto grembo
distillato goccia a goccia
nei sudori nei temerari ascolti
tra le zinnie che lo precedevano.

Così vivo in falsi marittimi alberghi
la mia sorte
l’atona partitura
con il mare che immagino a Bagni di Lucca.

A nessi e incastri pervengo al blu
ai minimi silenziosi decessi
ripetuti
repentinamente trascritti.
E cammino guardando il mare
dove lo temo e m’imbatto e mi rianimo
quando tu del mare avevi una sommaria conoscenza
di fiume – piuttosto – precise discendenze
e piccole fotografie
di te ritratta nelle velocissime acque
direi ridenti – se potessi
con un singolare cambio d’umore
con una intromissione cieca
da bambina senza fastelli.

Ma via (anima) voga
hai vogato per l’ampio mare
via sui riccioli crespi
per alluci d’alghe
per riverberi giallo-facondia
turchese tarchiato babbo
prende la gola
così continua
oltre l’affanno.

Memoria
V
All’inizio ci sono i bambini
quel loro persistente esserci
con la salvezza che propongono
derivati scolpiti accaldati
loro lieti bambini in avvenire
aggregati grappoli fatalità
– ah, bambini – e tremo pensando
qualcosa diffusamente trema
un ordito bambino rimasto incompiuto
confusamente trema
una vaghezza presentita
un torpore improvviso
smarrita come non prevedevo davanti a voi
interrotta perché mai annunciata integra
composta forzatamente intrecciata
ma subito lesa e in punti lacera
la mia autorità
solo nominale per raggiunta età
vaga
– come ha d’esser vaga (certo vaga) autorità –
e tristemente impacciata
inesistente diremmo
quella di noi bambini còlti anzitempo e
messi in una stiva a maturare bui.

E bambini: arrembaggi e oceaniche versioni,
per sempre presso di voi mi coglierà
questa soggezione
questa folgore da bosco stremato
e inappetente.

da IL VIAGGIO

12.

Si avvertì chiaramente
che qualcosa mutava
spiare passi
rotolìo di gessi
il cuculo a far domande
valle e orecchi statici
noi a cercar risposte
ma un male improvviso
e urlare e spezzare rami
correre
con i segni nelle mani