Fabio Scotto è nato a La Spezia nel 1959 e vive a Varese. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Il grido viola (Edizioni del Leone, 1988, Premio Ungaretti), Il bosco di Velate (Edizioni del Leone, 1991), La dolce ferita (Caramanica, 1999), Genetliaco (Passigli, 2000), L’intoccabile (Passigli, 2004, trad. slovena Nedotakljivo, a cura di N. Dobnik, Poetikonove Lire, 2010), Bocca segreta (Passigli, 2008, trad. francese Bouche secrète, a cura di F. Catalano, Les Écrits des Forges, 2013), La Grecia è morta e altre poesie (Passigli, 2013), In amore (Passigli, 2016); e le prose di A riva (Nuova Editrice Magenta 2009, trad. francese Sur cette rive, a cura di P. Dyerval Angelini, pref. di Y.Bonnefoy, éditions L’Amourier, 2011), La nudità del vestito (Nuova Editrice Magenta, 2016). Ha pubblicato per la saggistica: Bernard Noël: le corps du verbe (ENS Éditions, 2008), La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese (Donzelli, 2012), Il senso del suono. Traduzione poetica e ritmo (Donzelli, 2013), le curatele e traduzioni dei volumi Rimbaud. Speranza e lucidità (Donzelli, 2010), del Meridiano L’opera poetica (Mondadori, 2010) di Yves Bonnefoy e l’antologia Nuovi poeti francesi (Einaudi, 2011). Ha curato e tradotto opere di Alfred de Vigny, Victor Hugo, Villiers de l’Isle-Adam, Bernard Noël, Patrice Dyerval, Hélène Dorion, Vénus Khoury-Ghata, Pierre Autin-Grenier. Ha ricevuto nel 1998 il Premio “Civitanova Poesia” sezione Annibal Caro e, nel 2004, il Premio “Achille Marazza” per la traduzione poetica. È professore associato di Letteratura Francese all’Università degli Studi di Bergamo.

http://www.griseldaonline.it/atlante-poeti/poeti/nordovest/fabio-scotto-92.html

www.unibg.it/pers/?fabio.scotto

https://www.donzelli.it/catalogo/autore/1112

TRANSLATIONS

POESIE

da IL GRIDO VIOLA

L’ULISSE SIVIGLIANO
Risalgo
con le foglie
per i rami
in testa un cappellaccio sivigliano
Del giorno che si scorcia non mi curo
amo le geografie della tua mano
Esci
dinamitarda tenerezza
corruccio degli amanti aggrovigliati
Scommetto che sei figlia della brezza
per questo più ti odio e più mi piaci
Oltre le porte strette
oltre il mare
avvolti da una fresca chiara d’uovo
Son nuovo
nella chiglia
Ulisse vedi
Immobile sul letto
Eppur mi muovo

DELOS
Je ne veux pas

d’autre secours que
celui-là: vous
parler. –
Gide,
L’immoraliste.
Sorge dal mare
nel suo antico dono
di marmi a sorreggere la sabbia
Onde la scuotono
in una quiete bianca
che è sale sul sogno di Cleopatra
Sali verso il sole
sospinto da Dioniso
sul monte Cinzio
imprendibile
come il mio cuore
Lontani i mulini di Myconos
a inventare il vento
che ci toglie gli occhi
In questo nulla
respiro il tempo
schernito dai gabbiani
Vorrei parlarti
senza parlare
come fa il vento
da sempre
su queste mani
Myconos, 22.8.1986

(chiedi un succo d’arancia
e ti portano un’aranciata…)

PAROS
Luce ci acceca gli occhi
sibilando
su rocce aspre in fila
senza fine
La senti mugolare
sgomitando
nell’urlo del meltèmi a Parikìa
Sospesa tra due sogni Paros canta
nel bianco scintillante delle case
Leggera come cuore di farfalla
sorpresa di vederci ritornare
Cammino sui miei passi
galleggiando
ferito di ogni guerra
sfido il mare
Nausicaa tu sei qui
di questa terra…
nel tempo dell’ibisco incantatore
La notte cade a pezzi
veneziana
Naoussa è un altro sogno
un’altra tana

ANTIPAROS
Il sole dritto sul capo era una spada
nel mezzogiorno pigro di ouzo e sonno
Carugi impolverati
bimbi scalzi
dagli occhi vispi
forse la Bolivia
Antìparos seduta sopra il mare
di zaffiri
giù in fondo
prigioniera
si crogiolava al caldo
come un cuore
di bianco gesso altera
nella luce
Più in là le chiglie ruvide
di marmo
cercano il vento
dell’Africa
le gemme
È religiosa quiete tutt’attorno
Ma presto latreranno i cani
per la sete

NAXOS
All’ombra degli ulivi
come un fiore
di terra rossa il ventre
da Bisanzio
Respiro sorseggiando
senza amore
del sidro
non mi piace più di tanto
Mi pesa addosso il giorno
la mia croce
La porto come un vecchio il suo ventaglio
Ti ho conosciuto a Naxos
dolce amore
E più ti cerco
più mi sei lontano

LA CLESSIDRA DI RODI
Nell’Ade
da ieri
con trasporto
a Rodi
Sogno di Nembo Kid mangiato dai ladroni
carezze e suoni uniti in un tuo schiaffo
Solo
e non soltanto uomo d’oggi
Saffo dai piedi piccoli
di geisha
Le luci le nascondo agli occhi
le lune me le mangio a morsi
principe del cosmo su poltrona
senza più velluto
in punta al mondo
Baciami senza bocca
ti udirò senza orecchie
senza corpo ferire
Guardami dagli occhi
con un sorriso azzurro
Sono del sogno il sogno
la tua clessidra anemica
sabbiando

da IL BOSCO DI VELATE

LA PALUDE
Un bien-être si actif qu’il était presque une joie emplissait le

marcheur…
… Une totale liberté naissait du départ
Marguerite
Yourcenar, L’Oeuvre au Noir.
I
Si andava in quattro
o cinque
in fila indiana
l’estate
coi ginocchi già sbucciàti
La strada a un certo punto
a
c
bifor
v
a
non mi ricordo
da che parte andammo

II
Davanti i temerari
dietro gli altri
le scarpe da ginnastica
le biglie
Qualcuno ritornava indietro prima
e sui ginocchi già le cicatrici

III
D’un tratto quel sentiero restringeva
fino ad un ponticello malridotto;
oltre, frasche più fitte
un’ombra
un fosso
il piede cigolava al primo passo
la paura
in quel batticuore
da non dire
da dimenticare
sotto la maglietta

IV
Una palude bianca
in una c a l m a
senza vento
o forse gialla, grigia
mutevole a guardarla
come il tempo
Nessun marziano vi era
o mostro
o tigre del Bengala
né l’uomo nero
(viveva in fondo al sottoscala)

V
Eppure si muoveva
come polenta
chimica laguna
«Non ci andare,
che se ci cadi dentro…»
pareva di sentirsi richiamare
da
g i ù
nel fondo
da una testa bruna

VI
I giochi più incoscienti
a pelo d’acqua
qualcuno già ostentava sigarette
tra tremolanti denti
e latta e muschio
e dio e demonio
in bilico
nel limbo dei litigi

VII
Hai pianto
non so quanto
che le lentiggini
sembravano più scure
della palude stessa
della nube
Sul capo minacciava un temporale
Angera era alle spalle
un minareto
la valle cieca del segreto
principe delle genziane

VIII
Ne ritornammo
forse
che il naso s’era fatto freddo
alle sei le prime gocce addosso
che le sberle comunque
le avremmo prese lo stesso
Tanto valeva bagnarsi
fino al midollo
del segreto
nelle tasche figurine
e una lumaca scura
grossa così
per far paura
alle bambine

IL MAESTRO E UNA MARGHERITA
a Elisabetta P.

Chi è
fondamentalmente
un maestro prende
ogni cosa sul serio
soltanto in
relazione ai suoi
scolari – perfino se
stesso.
Friedrich Nietzsche
Di quale stella è dimmi quel sorriso
che ti attraversa sorridendo il viso?
Quando dal più profondo sento amore
E tu mi chiami ancòra “Professore”
Gli occhi belli di pianto mi hai guardato
Ed ho tremato
Vorrei che fosse vera questa gioia
Per ogni volta che la notte se l’ingoia
Quando ti vedo timida guardarmi
E per difendersi non ci sono armi
Se ti avvicini un poco
mi assorbe il gioco
della tua bocca ciclamino
———Avremo un bambino?
Elisabetta abbraccia le compagne
Un cigno viola
nel corridoio della scuola
Soltanto il tempo di spiegarti
——senza parole
le carezze verdi
Ti porterei, sole
nei prati
margherita che li hai spettinati
Altéra tra i compagni
a Parigi
quella sera
La luna tra i capelli
e una maglia nera
Se tuo è quel viso che mi percorre il sonno
voglio dormire ancòra
fino a mezzogiorno
Un giorno ci sarà con te l’amore
Lo invidio già nei battiti quel cuore
Come mi pensi,
se mi pensi,
fogliolina?
Un gioco?
Un principe?
Un idiota?
Una storiellina?
Mi porgi le sopracciglia perché
le baci
Anche all’aria piaci

I PASSI LENTAMENTE DALLA SCALA
I passi lentamente dalla scala
l’odore chiuso della geriatria
La stanza silenziosa
letti paralleli
la flebo in gola
il sole
fuori
ora che non c’è più lotteria
«Ti ha scritto la Alda,
dice che sta bene…»
– e l’infermiera giovane arrossiva
cercando la febbre sotto le lenzuola.
È qui che adesso vivi
se è la vita
dopo quel brusco salto
forse candeggina
e il grido spaventato dei vicini
(Avevo cinque anni
mi guardavi
giocare tra le ombre dei giardini).
Ora c’è solo un rantolo di mani
e occhi chiusi
disperatamente azzurri
Restiamo
luglio conta i tuoi respiri
E più non parli
più non chiami
La morte morirà ma tu rimani.

QUANDO L’ORECCHIO SUL TUO SESSO
A V.
Quando, l’orecchio sul tuo sesso,
mi giungono navicelle i suoni
Da dove? forse da un atollo,
da un prato giovane forse da
sotto i pantaloni blu di genova
gettàti lì col golf sulla sedia
di paglia, e gli occhi chiusi, le tende
un brivido di stelle che ti scalda,
mia farfalla. Ti bacio coi capelli
fonte d’erba fiato e d’aria
per pochi istanti interminabili
sulla moquette rossa che ci
sostiene il cuore accelerato
ai fianchi uniti innanzi alla veranda
come se sapessi
come se non fosse stato
mai, neppure nel pensiero,
un fremito sussurro d’alga.
Eccomi ancòra fuori dal tuo nome
Con tutta la morte che mi resta.

da LA DOCE FERITA

LEGGI RILKE
Il viso incollato al vetro del treno
lui lo tieni negli occhi
finché l’inghiotte la calura dei binari
a Firenze Santa Maria Novella
Ora siedi
abbracciandoti i fianchi
in un lutto d’arti
istantaneo
eterno
L’umido d’occhi
medicato dal kleenex
sulle ciglia lunghe
quella lacrima bambina
già scesa e inafferrata
che ancòra non scorre
sul velo delle gote
sole
di taglio sui sandali
occhi immensi grigi
avidi d’aria
Leggi Rilke
nel pomeriggio che rimane
la mano nervosamente affondata
nel sacchetto delle patatine
Mangi in fretta
ferite
Mordicchi sulle dita affusolate
pellicine di dolore
Mostri i denti bianchi
dopo un sorso d’acqua
lo sguardo accarezza i fogli
annotati in tedesco
s’espande
s’arresta sospeso nel vuoto
L’aria non si muove
Domani l’esame
– «Chiamerà dopo le nove?»
Non sentire la voce
Misuro annullata
la distanza delle labbra
Vorrei baciarti i piedi
con moltiplicate bocche
esserti seta fresca
farfalla sul pube
Già Milano Centrale
Il corpo stancamente verso l’uscita
da dietro
rallentando
poi più nulla
Nel metrò Annie Lennox canta
«How many times do I have to try to tell you…»
e “Why” è una corolla d’ombra
Ma scioperano le api
tutto scioglie il vento
come d’ali senza volo
ignote
Solo sapessi il nome
morirei peggio questa nuova morte
E ancelle nella saliva
di ghiaccio
devote

CHRISTIAN BOLTANSKI, Saynètes comiques
Il compleanno è dietro
disegnato
oltre è la smorfia clownesca
del narrato
fluire di pala
polittica quotidiana
umana
come candele
prima o poi da spegnere
per la festa del morto
se la lingua a penzoloni
commossa attende
la Prima Comunione
e la macchia rimane
Prove ai sali d’argento
e inchiostro bianco su cartone

VIA PARINI
I
La calce sugli scalini
Via Parini, 3
Io bambino
fra muratori bestemmiatori
nella pausa di mezzogiorno
Mortadella e vino
in canottiera
Mosche sulle mani
mosche e tafàni
il sole dritto
come un coltello
Croci pendenti tra peli sul petto
e scarponi nicotina
unghie nere
a graffiare l’aria
Le bocche aperte
se solo appariva
dalla finestra socchiusa della toilette
il bel seno della signora francese
Si pettinava nuda allo specchio
Altra vita
Altro pane

IV
La mamma mi ha portato da Maria Grazia
una sera fresca di fiori
La casa è pulita
ne rivedo gli odori
la foto sul comodino
lenzuola medicine
Le mani dentro il silenzio
La bara al centro
aperta sul tavolo
la camicetta bianca
«Fabio, dalle un bacino…»
Sembrava viva
Dormiva

VIII
Le righe disegnate in terra col bastoncino
confini di polvere
tra il cancello e i garages
davanti a casa
Arrivavano dalle vie vicine
altri bambini
gladiatori in maniche corte
sul terreno di gioco
Palla avvelenata
dopocena
destrezza e mira
nella frescura
Papà e mamma al balcone
ridere
Lontana
una televisione accesa
Colpiti si moriva
Liberàti s’usciva
dalla gabbia di cartone
Dolce sera
Soffice palla-luna prigioniera

VIA LUGANO
III
Piove forte stanotte in via Lugano
Dalla fessura tra le persiane
la luce scioglie diafana
la sua carne goccia a goccia
La strada ormai è un fiume
che dilaga rotti gli argini
come un film dietro il vetro
Qualche macchina arranca
verso il confine l’orecchio teso
a inseguire il suo rombo
inghiottito dai tuoni oltre
il curvone verso Agra
L’ora è estrema
Nè vivere né morire
Più non basta dire
A ognuno la sua pena
Stai con altri
Ed è per sempre
Sto col mio niente
nel freddo del letto
il sangue s’è gelato sulla strada
Chiudo gli occhi e sei morta
T’aspetto

V
Ho nutrito il mio amore col digiuno
la voce dentro un miele d’api
nel corpo della sabbia
Sei della notte come la farfalla
che tace e s’addormenta sulla foglia
Al centro della luce era qualcuno
invisibile bruno
Tu cieca lo uccidevi
lui rinasceva in sogno
Rapace sveglio per sempre
nei tuoi occhi morti
ovunque e febbrilmente
piagava la tua mano
Dormi
Dormivi verso il confine
volando senz’ali nel buio non un suono
L’amore è una canzone per nessuno
Il resto è cenere
che su cenere spegni
Fumo

VI
Nella casa gialla al 19
ormai non abita nessuno
Il cancelletto verde è arrugginito
L’aiuola nel giardino una sterpaglia
Il terrazzo ha il muro sbrecciato
Marce le persiane
cadenti come i denti d’un soldato
di ritorno dalla prigionia
Ma è stata casa mia
mia ogni piastrella
ogni porta ogni scalino
La casa
per un bambino
è sempre quella
coi sogni i nascondigli
l’odore dei fratelli
Si è inaridita
per il troppo vento
per il poco sole
Come la rosa ferita
del mio amore

IL RUMORE DEGLI OCCHI
La schiena
arcuata pace vertebrale
dai glutei alle spalle
affluenti del mare
dorsale mosso dai singulti
più non vedo il volto
affonda nel cuscino
sono lontano vicino
e tenera percorre la scialuppa
il fianco
Sono stanco
rido e piango
vivo del tuo rapido voltarti
in cerca del tuo naso siamese
sul mio e tutta si confonde
l’azzurra cecità del corpo
Sei Brasile, Eurasia
pioggia di grande nube
monsonica abissale
e lieve ragno tenace
crudele alla posta
in attesa della mosca
bianca
Mi ascolti il cuore
esce dal costato
andato anche lui
tra i morti
a valle del poema

da L’INTOCCABILE

SEGOVIA
Plaza Mayor
Beviamo un’ horchata
seduti al “Negresco”
mentre bambini giocano
sul Palco della musica
Nulla
se non questo ricamo
che fa nell’aria
il tuo ventaglio
alla notte che viene
Non sono più parole
forse è dell’eco
d’un sogno che prosegue
oltre te
oltre me
nel dire delle dita
in questa fresca ferita
che l’ombra non chiude
che il vento dissigilla
Poi d’improvviso planano
sulle guglie della Cattedrale
cicogne equilibriste
tra arabeschi di pietra
Guardi lontano
tra te e la tua mano
il blu versato in cielo
dagli occhi lacrimosi
fa la notte più chiara
più muto il cuore
E pulsa dalla gola
un sangue che non giunge
Persa la voce
persa ogni memoria
Tempo ignoto
sospeso tra Segovia e La Granja
Tutto ho di te
Tutto mi manca

da BOCCA SEGRETA

NOTE DALMATE
Ha stanato il granchio
dopo ostinata caccia
La preda è nel secchiello
La osserva
la sevizia
Via una chela
poi l’altra
« Papà, perché non cammina? »
(così piccolo
e il cervello già in rovina…)
Poi d’accordo
i due compagnucci
tirano ciascuno dalla propria parte
finché la povera bestia non s’apre in due
Osservare il cuore senza corpo
palpitare nella mano
Primi rudimenti di crudeltà infantile
Il padre applaude alla bella prova virile
Seminiamo, seminiamo…