Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione, in provincia di Terni, dove vive. Le sue raccolte di versi: I Semi del Poeta (prefazione di Patrizia Fazzi, Polistampa, 2013), Morfologia del Dolore (prefazione di Carlo Fini, Interlinea, 2015, Premio Confindustria Rovigo), Inquietudine da Imperfezione (prefazione di Franco Manescalchi e Giuseppe Panella, Passigli, 2015, Premio Mario Luzi), Paradigma di Esse (prefazione di Franco Manescalchi e Carlo Fini, Passigli, 2017, Premio Certamen Apollinaris Poeticum Università Pontificia), In tono minore (Passigli, 2020), Il geranio sopra la cantina (Puntoacapo Editrice, 2023). È presente in varie riviste e in antologie italiane e straniere.

www.evaristoseghetta.it

evaristo.seghetta@libero.it

 

POESIE

Io sono le mie parole,
sono la traduzione puntuale
del dolore ancestrale,
epifania affissa alla porta dell’esistenza
e l’inchiostro ne delinea lo spazio
tra  titolo e  prezzo.
La risposta cartesiana
al quesito originale
è solo il dolore,
frutto dell’esposizione
a prove, a prove, a prove.
Io sono in questa cantilena
che dà modo al mio udito
di passare il messaggio al cervello,
di rinchiudere nell’anello
del prima e del dopo
il ronzio dell’eternità.

da I SEMI DEL POETA

I
Cuneiforme
Indecifrabile del nostro amore
il racconto,
in ordinati simboli grafici
fissato,
ma criptato il senso
in cuneiforme scrittura.
Traccia lieve resta
dei sorrisi
e il tuo viso,
tra i tanti si confonde
per me che le monotone stazioni
sferragliante attraverso.
Della tua camicia
rosso scuro,
vivo ricordo,
sui seni
bella.

II
Fedeltà
Nude spalle di donne
emerse dal bagno
in fresca roggia
belle,
di me prigioniero
la perdizione.
Rovina
tra profumato polline
la mia stentata
fedeltà.
Tu,
stilita serena,
dal crollo totale
immune,
osservi le rovine
bianca sulla colonna.
Ti salva
limpida fede.

III
In the  alleys
What I don’t have is your smile,
and your skin which smells of honey.
What I don’t have is the expression of your face
which disappears as ships in the wind.
But my own dreams full of thrills and sweet words
I leave in the narrow streets waiting for sun.

da INQUIETUDINE DA IMPERFEZIONE

I
Agosto
Avviluppa il pensiero
la ruota a spirale
dello sparviero
sopra il crinale giallo
di stoppie
bruciate dal sole.
Attrae
solo un fresco gorgogliare
di frizzante fontana,
giù nella forra
intatta di ombre e di grilli.
Sorride il leccio
possente
e attende dal fogliame sacro responso
di Sibilla agostana.

II
Dicembre
Quest’albero,
in cui vive la mia essenza,
è come ciliegio fiorito a dicembre: attrae il perplesso sguardo
di uomini e di uccelli che giustificano il tutto coi capricci del caso.
È illogico accettare
che un vecchio parli d’amore,
ormai che sono scorse
gran parte delle ore
da quell’aprile in cui fervida
è la danza della specie e Venere e le Grazie trastullano il cuore.

Io, solitario e tardivo, invece,
attendo che la voce,
che cova nella notte,
esploda in fioritura innaturale,
in questo corso strano
dell’esistenza, dov’è inaccettabile
lo sgarbo all’esperienza.
Io fiorisco a dicembre,
quando ormai le foglie sono cadute,
opponendomi
alla comune convinzione
che nel dicembre della vita
fioriscano soltanto
mute parole.

III
Una volta dicesti
Una volta dicesti,
dopo l’ennesimo pianto,
dopo che nulla cambiava,
dopo che per una volta ancora
avevamo trovato di fronte
un muro vero:
«vorrei dormire,
dormire profondo,
svegliarmi fra anni, in settembre,
tra i grappoli di un filare,
vedere se il sogno,
se questo sogno,
diventi reale,
e di colori svariati si rivesta
la vita che oggi
è assopita tra grigio e nero».
Puoi svegliarti ora:
è settembre.
Il tempo è trascorso,
il gallo già canta
le lodi al creato,
ma è tutto normale,
nessun sogno s’avvera.

IV
Naviganti dell’essere
È nel mare del vuoto che
affondiamo i remi, spinti
verso l’ignoto dalla forza
dell’esistere, dalla
consapevole limitatezza,
opposta alla grandezza
dell’essere ch’è in noi.
Su questo mare inesistente
galleggiamo incerti,
guidati da quel volere strano,
assurdo e irrazionale,
che seguiamo a capo chino:
caso o destino.
Andiamo per l’oceano del nulla
con il nostro barlume fioco
e senza meta navighiamo nell’oscuro,
tra sostanza e apparenza,
tra fantasia
e speranza.

V
Arbitrio
Ora più di prima,
siamo preda dei lupi
e dei venti,
che disperdono il gregge
tremante di nuvole.
su pile di cartone,
Disordinati vaghiamo
nel cielo del possibile,
confusi erriamo
al richiamo dell’arbitrio,
troppo libero
e inconcepibile.
Schiacciati
dal peso dell’anima,
dalla presenza dell’Io,
viviamo nell’andirivieni
della speranza.
E domani,
consunta maschera riavremo,
saltimbanchi della solitudine,
dimentichi di esempi e parole.
Sotto il peso del dubbio,
tra le porte dell’incognito,
ci trasciniamo lenti.
Busseremo di certo
a quella del peccato.

VI
Come il gatto
Fa’ come il gatto
che per guarire dorme,
sdraiato al sole dorme,
ininterrottamente.
Si perdono le ore
in questo sonno illimitato,
il corpo rannicchiato,
ossa e pelle accatastate,
staccionata di confine
a difesa dell’organo vitale,
il cuore
che batte impercettibile,
nel sonno risanatore.
Passa il calore
all’anima malata,
ripara falle e strappi,
con filo a colore,
ricuce le ferite aperte
del vecchio sognatore.
E passa alla sua mente
lo stuolo dei ricordi:
persone entrate, uscite,
chi per necessità, chi per amore,
chi lasciando il segno,
chi neanche un rumore.

VII
Gocce
Piovono rade
gocce bizzarre,
grigie sulla pietra grigia
e lasciano tracce,
lettere oscure
leggibili solo
alle rondini
che volano
basse.

VIII
Scintille
Cercare sempre il sole
dietro la collina
è la nostra forza sconosciuta,
impensata,
accresciuta dal buio.
Anche in questa mattina,
dove il nero miniera
vernicia il cielo
e affossa la vista,
noi perforiamo le nuvole.
Dalle pupille,
di speranza
scintille.

VIII
Alfa ed omega
È sfilata via anche questa
notte con l’effetto clessidra,
nello scorrere dei granelli
giù verso il basso,
lento come l’acqua del fosso,
dove la collina spiana,
dove si rispecchia la luna.
Eccomi qui, aggrappato
al vetro opaco di questa bottiglia,
spazio finito, lume di candela,
che imperterrito anela
a oltrepassare la sfera
del tempo,
sospeso tra
alfa ed omega.
Intanto, la notte
al giorno lega l’Io,
inquieto e imperfetto,
che magnifico
annega.

da MORFOLOGIA DEL DOLORE

I
Arriviamo qui,
in questo hotel
dove non ci chiedono più
i documenti;
ci conoscono ormai,
e per loro è normale,
conoscono  volti, anime e accenti,
ma giudicare no.
Tappezzeria e lenzuola
hanno il profumo di margherita,
tele incolori su cui stendiamo le ore
di questa nostra vita breve,
fugace e felice come il sabato,
di questa nostra vita
dal sapore d’amore
che ci affrettiamo a consumare
e  sappiamo solo di sale e piacere.
Appena scese le scale
torna il dolore
in quella sala di incontro e d’addio.
Soffriamo così amore mio,
per tutto ciò che cambia
e per ciò che non può cambiare.

II
Su questa spaccatura profonda
in cui fanno da sponda
le pareti dell’anima
e da dove rimbalza la luce
opaca della coscienza
che giudica e si giudica
mi affaccio.
E’ in questo crepaccio
che precipitano i sassi
del tempo fino a toccare
il fondo e lasciano
onde concentriche
dal suono oscuro
che vibrano di rimpianto.
Ma il mio gatto
fugge tra la legna e l’olivo,
odia i botti improvvisi,
i botti del cuore.

III
Quanto valgo? Quanto il nulla.
I cipressi già circondano la mia ombra.
E nel fumo che lento si espande,
s’ offusca la luce del sole.
Ma salgo sul sicomoro,
per vedere al di la dello scuro,
per sapere se colui che è lì
ci potrà salvare,
ci potrà portare sulle spalle,
al di la del mare.
Io che penso, che sono,
io che prego le dee della notte ,
e la mente che frulla canzoni bambine,
rime velate di metrica stanca,
ritmo affannato dal battito scuro.
Ma il sonno è sicuro
e il buio feroce
ingoia la luce:
Novembre di tristezza e di nebbia
si sazia.

IV
Non porti più anelli
e i capelli immutati brillano
sotto questo sole marino.
Tu che trascini il mio destino
tra la sabbia e le note
di questa estate afona,
di questa stagione goffa
che non lascia sperare
se non  negli abissi del mare
dove affoga il dolore.
Restano  quattro conchiglie,
pietre miliari di barche perdute,
a riferire alle stelle cadute
che tra le notti e gli abissi
vivi ancora di luce riflessa
e dai tuoi occhi
Afrodite spietata
si affaccia.

V
Insceniamo l’ennesimo atto
di questa farsa antica,
allestita al passaggio al livello
della vita, per riempire il vuoto
dell’attesa, nelle comparse a turno
del normale e dell’assurdo.
Scritturati dalla Sorte
recitiamo alla meglio la parte
assegnata, letta e provata
nel teatro della nausea,
temendo l’errore fatale,
il fallimento totale della strana
commedia imbrattata d’amore.
Accettiamo così ruoli esagerati,
ferrovieri e soldati,
ammucchiati i bagagli
in questa stazione isolata.
Prima o poi il treno passerà.

da PARADIGMA DI ESSE

I
Ho appena allacciato
il quinto bottone della camicia,
quando mi ricordo di esistere.
Ostinato mi fermo
a tastare le ossa del polso,
che conto una ad una,
nel loro ordine immutato,
prima che il lupo del Caos
nell’indistinto le disperda…
Tra i solchi del Tempo
e sulla barba cedua, le mie dita.
Attraverso il tatto passa la vita,
non l’esistenza.

II
Le mie parole seguono il vento
incostante del momento e ruotano,
banderuole arrugginite,
sul comignolo pericolante
del quotidiano.
È una necessità
nello stato di emergenza
trascinare le ore sul sentiero
variabile dell’incoscienza,
cantare i colori effimeri
della farfalla.

III
Chi sia il giardiniere
Chi sia il giardiniere
non l’ho mai saputo. Dicono
che lavori all’alba. Poi, mistero
sull’autore di tanta perfezione
nella geometria del terreno, orto di Baruch.
A me, bambino, vorrebbe dire come nulla
avvenga per caso e tutto sia conseguenza.
Ma il difetto sta nel non poterlo scoprire.
Dall’orto al fienile, le gambe rapide,
più basse dell’agrifoglio e dell’uva spina,
passano in rassegna il coro delle rane.
Il sole, raccolto tra le zucche, brilla
negli occhi e sulle tessere nuove
di papaveri e cerfogli.
Tra il verde trifoglio, spia
la maglietta bianca il volo delle api.
Poi giù, il mare di fieno: coraggio e veleno
il fruscìo delle bisce temuto nel folto.
Sono io parte del tutto, mai come adesso…
Deus sive Natura. E Lui si rivela.

IV
Il maggiolino
Lascio che ogni cosa
si distacchi e vada,
segua il suo corso,
ora che sul dorso della mano
si posa un maggiolino…
Sembra ancora quello
che da bambino non trattenni,
che lasciai, sperando
nel suo ritorno, un giorno…
un giorno come questo,
in cui ogni cosa
io lascio che vada…

V
Presso la fontana
Il colle non basta più: occorre lasciarlo,
di mattina, quando schiamazza,
dietro l’ultima curva, il clacson della corriera.
Non c’è tempo, adesso, per pensare
alla sera, al ritorno. Ora, tutto intorno,
ogni cosa si muove veloce e cambia, cancella…
Cerco nella piazza il coraggio
per gestire la mia difesa, lì,
presso la fontana, dove scroscia,
fluida e sincera, la Verità.

VI
Dietro l’angolo della notte
Se porti un cappello improbabile
e mi guardi obliquamente
da dietro l’angolo della notte,
io non posso che sorridere…
Ti ripari dalle paure antiche,
dai ricordi di luci basse,
in stanze senza finestre,
con mani piccole, ossute,
che gesticolano nel soliloquio,
dirigono l’orchestra della pioggia,
senza scomporsi, nel suono aritmico
della grondaia forata.

VII
Cirro
Lacci, guarnizioni di turchese e ossidiana
disposti a meridiana dalle dita alla caviglia,
meraviglia della flessuosa piega. Così,
sul tappeto di campanule e silene,
tu affondi, in primavera.
Si sfila la nuvola, che chiamano cirro,
raddoppio bizzarro di erre,
di lingue di cielo, le nostre…
Nel maggio, la vita ti slaccia la blusa:
mette a nudo le braccia, le dita
che scorrono il seno, tra fresie
e genziane, nel fieno…
La forza lontana non tarda:
più vivo il respiro che lega
le nuvole a noi.

VIII
Poi, sembrava che loro
fossero tutti lì, affacciati
da quella stella, l’ultima,
la più invernale, alta
sulla scala del cielo.
E sorridevano, pensando che
avremmo passato la frontiera,
forse in autunno.
Ma noi, resistenti, attendevamo
qui la primavera, ignari
della leggerezza del Nulla.

IX
Io fui con te
Bastava poco per renderci allegri,
seduti su quel muro di pietre lavate,
le ginocchia graffiate dal rovo,
rosse di mosto, del mattone
che sa il castigo e la preghiera.
Io fui con te, allora:
sembrava l’inizio del tempo,
quando la salamandra cercava
la pozza oltre l’erba medica,
oltre il tronco abbattuto,
nel putridume,
da cui nasce la vita.
Tra i fiori, la miniatura del tuo seno,
che profumava il maggio,
il mio stento coraggio
di un grido o sussurro
per chiedere amore.

X
Alberto
Alberto aveva due gelsi:
remote piante, radici medievali,
rinsecchite.
Sparuta ombra gettavano
sul lastricato dov’erano le oche.
Noi, di poche cose,
arrampicati lassù, guardavamo
il mondo tra i rami,
penombra di fogliame, dove
tutto sembrava diverso…
Poi, con un salto, giù a terra,
tra i normali, pronti
per la batracomiomachia…
Alberto aveva due gelsi
e aveva un fratello bambino,
che andò via,
in un mattino d’inverno…

XI
Siamo allo scoperto, prede facili
per i cecchini di turno.
Incerti se andare o tornare,
esponiamo il petto al colpo letale.
Che cosa fare di noi,
che avanziamo
sulle piattaforme instabili
delle più effimere certezze?
Lotta, scontro, sconfitta, vittoria
lasciano breve spazio alla storia
di ciascuno…
Che il perdono sia più facile
ci illudono le carezze.

XII
Esse
Fammi sognare, ti prego,
fammi sentire che essere
non è poi così difficile,
che sta qui, nel cuore, questo tamburo
che accompagna la sacerdotessa di Cibele,
e la nostra non è ordinaria processione
di ebbre baccanti assetate del miele dei sensi.
Dammi memoria, per sentire ancora
il profumo della prima sigaretta,
in quella cantina di gatti e di fumo,
tra i ritagli di una terzina
di questa commedia incipiente
e il rito d’amore consumato
al primo tepore dell’esistenza.

XIII
Ettore
Quando scommettesti su di me,
in quella sfida carica di tutto,
in quell’andirivieni di emozioni
alla celluloide, sapevi bene
che avrei perso senza attenuanti.
È la sorte che ci lega tutti quanti
su questo asteroide senza ellisse.
Mi chiedo se siamo attrezzati
per resistere al continuo avvitamento
nella spirale discendente,
se Ettore sia ancora perdente…
Sconfitto mai, nella dignità.

XIV
Tramonti
È per me un letto quell’amaca
pencolante nell’orto del Vasaio.
Ora ci trascorro ore ed ore e
non m’importa delle ire del tuono,
sull’arcata oculare abbasserò
la tesa del cappello. Trenta denari
il prezzo del contratto, trenta tramonti
colore viola.

da IN TONO MINORE

Il vecchio ciliegio
Sto aspettando il taglialegna: tra poco verrà,
per abbattere il vecchio ciliegio
– l’eutanasia per un albero malato –.
I rami rinsecchiti, il tronco ferito
meritano comunque una libagione
per l’ospitalità offerta agli storni.
Ma il tempo è poco, occorre fare in fretta,
e verso un po’ di vino nel fusto cavo.
Ecco l’accetta lucente che brilla
già in fondo alla strada.
Ho scelto febbraio per l’addio,
prima che le gemme illudano la primavera.
E quando a sera, la luna
non troverà più i rami da penetrare,
la sua luce glaciale striscerà
sui vetri del mio rimorso.

La Natura da me
Per fortuna esistono i boschi, la res nullius,
ciò che non appartiene a nessuno,
come il tasso, che da qualche sera
si affaccia alla ringhiera, o la volpe,
che viene a mangiare le crocchette dei gatti.
Per fortuna possiamo sentire la civetta:
nel verso si lamenta per l’eccessiva pioggia.
Meno male che resiste alla nostra era,
alla concezione antropocentrica.
Viviamo nella convinzione della supremazia.
Ma la mia è un’apostasia malinconica:
io guardo le creature negli occhi
e ascolto il respiro delle querce, qui,
dove l’uomo arretra e la Natura avanza.

Sirtaki
Una sera, tanti anni fa,
mio padre, ormai malato, e io
ci mettemmo a ballare il sirtaki.
Nell’abbandono della musica, sapevamo
che quella sarebbe stata l’ultima sera,
l’ultima, per stare vicini. Poi, il nulla. Divisi,
per l’eternità.
Noi ballavamo. Ballavamo e piangevamo.
Le braccia intrecciate, la mano,
l’uno all’altro, sulla spalla.
Stasera, da una finestra illuminata,
a sorpresa risuona il sirtaki. Le braccia
allargate nel vuoto, a una luna perplessa,
ballo da solo.