Ennio Cavalli è nato a Forlì nel 1947 e vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di versi: L’infinito quotidiano (Forum, 1973), Naja tripudians (Marsilio, 1976), Trent’anni (L’Airone, 1978), Carta intestata (Spirali, 1981), Po e Sia (Sansoni, 1991), Libro di storia e di grilli (Campanotto, 1996), Libro di scienza e di nani (Empiria, 1999), Bambini e clandestini (Donzelli, 2002), Cose proprie (Spirali, 2003), L’imperfetto del lutto (Aragno, 2008), Libro grosso (Aragno, 2009, Premio Viareggio), Poesie incivili (Aragno, 2010), Minime e massime (La Vita Felice, 2011), Poesie con qualcuno dentro (Aragno, 2012), La cosa poetica (Archinto, 2014) e il quaderno di traduzioni Dal canto mio (Il Cristallo, 1988). In prosa, fra incontri e dialoghi: Dei paesi tuoi (Maggioli, 1984), 10 Fellini ½ (Guaraldi, 1994), Due ruote fa (La Vita Felice, 1997) e i saggi Il poeta è un camionista (Archinto, 2003), Il divano del Nord (Feltrinelli, 2005). Il divertissement, La Bibbia in lattina – Versetti a strappo (Sansoni, 1992). Poi i racconti La donna che affittava un dito (Mobydick, 1996), Fiabe storte (Donzelli, 2003); i romanzi: L’amore in cuffia (La Vita Felice, 1997) e Quattro errori di Dio (Aragno, 2005); i romanzi per ragazzi: La gallina dalle grida d’oro (Laterza, 2000), Se nascevo gabbiano… era peggio (Feltrinelli, 2001), I gemelli giornalisti sono io! (Piemme, 2007), I gemelli giornalisti sempre in viaggio (Piemme, 2016). È presente nelle antologie Poesia italiana oggi (Newton Compton, 1981), Poesia italiana del Novecento (Newton Compton, 1990) e, tradotto in spagnolo, Poesia italiana de hoy (Olifante, 1984).

ennio.cavalli@hotmail.com

http://it.wikipedia.org/wiki/Ennio_Cavalli

POESIE

da L’INFINITO QUOTIDIANO

ERANO PARETI DELL’INFANZIA
Trottola di martellate
contro la vecchia casa,
esito di bufera sui muri aggrediti
dal bulldozer:
erano pareti dell’infanzia
i gusci d’intonaco infranto
sotto i piedi.
Vicino al pozzo dissanguato
i kaki hanno chiuso gli ombrelli,
ragnatele di fumo avvolgono scatole
di giocattoli perduti,
intorno all’aiuola si direbbe
ancora segnato
il faticoso percorso
di una mia Indianapolis a pedali.

DOPOGUERRA
A mia madre
Portava fanciulla zagare e viole
a San Ravaldino
e andava al mercato per mezz’etti di cose
sognando la posta del biondo guerriero
in Sicilia.
Lunghe le trecce di dolore e pazienza,
come Penelope faceva ricami, coperte
di lana.
Quando scese la notte e la radio
parlò di Messina, udì rompere
a vento di mitraglie le finestre di casa,
come fosse in trincea a sgranare
le avemarie.
Un giorno, fra grida e stendardi,
il suo Ulisse tornò: l’azzurro pioveva
di gioia dentro i tetti scoperti.
Lo portò a casa sua, lo lavò e mangiarono
arance.
Il pomeriggio di quel dopoguerra
usciti a radure di foglie,
su per i colli fermarono le biciclette.

L’INFINITO QUOTIDIANO
davanti al mausoleo di Aefonius Rufus

Quattordici metri e quindici
– “edicola sul fondo della sala, sfingi affiancate
alla piramide” – letto a tre piazze verticali
per il lungo corpo di Rufus
(impresario teatrale, produttore di formaggi?).

Strati volanti di pelle appesi
alla maniglia che lo incluse nell’avara necropoli.
Sulla guida è scritto “assenza di dinamismo,
capitelli e fregi di repertorio”:
grandiosa la fortezza su commissione,
non c’era tempo Rufus di sorvegliare i lavori.

“Restauro ripreso dall’Arias per quanto riguarda
la cuspide”, ultimi centimetri d’onore.
L’infinito quotidiano prima e dopo il recupero
è rimasto concetto pagano,
fuga esistenziale di colonne corinzie,

piramide testamentaria: il tuo pregio a Sarsina
è di essere un leggendario faraone-pastore.

da NAJA TRIPUDIANS

CONFESSIONE (PASQUALE) RESA AL CAPUFFICIO ASSISTENZA SPIRITUALE
In nome del Padre-generale, del Figlio-capitano e dello
Spirito di corpo. Confesso di avere slacciato una volta
l’ultimo bottone del cappotto
mia colpa mia grandissima colpa
e di avere occultato all’interno la pattina della tasca sinistra.
Diedi scandalo a buoni commilitoni
infilando calzini di servizio in libera uscita
di libera uscita in servizio.
Non ho riverito un Superiore scambiandolo per lombrico.
A migliori lucidature sottrassi le mie scarpe di lumaca
e non sempre nei giorni comandati santificai il Reggimento.
Confesso di avere concepito vasti piani per il tempo libero
e letto libri socialisti.
Invidio i lunghi capelli dell’obiezione.
Rido talvolta – superbia pacifista – della corta gittata
del Winchester (fuciletto dal tiro perfetto) di Leopard
obici e missili stellari.
Non pratico il passo misterico del gatto, né quello impavido
del leopardo o sinuoso del fantasma,
a misura di attacchi e spiate: frequento le piste
dei buoni propositi.
Cresimato soldato da vescovo e commissario di leva,
nutro dubbi sulla prossima guerra
esiterei ad affondare baionette
nel burro corporeo del nemico.
Ho preteso di giudicare agonizzanti mentali,
generali a riposo, il Potentato dell’Eccellenza.
Ma ora mi pento e mi dolgo, mi castro, prolungo la ferma.

MILES GLORIOSUS
Batte i tacchi un esercito di Patate
al sommo del rispetto per pochi Radicchi selezionati.
Batte i tacchi in Brasile Spagna Cile
e nei limiti di un’adeguata nostalgia
insomma nel solito linguaggio del coscritto
(piedi puzzolenti rintanati sopra i tacchi)
li batte quaggiù, al nostro reparto.
Il cameriere il maestro
l’architetto il firmaiolo
battono i tacchi a greche ed alamari
nastrini colorati spade aguzze
alla statua di Diaz a guidoncini duro-blu
su Giulia-super generalizia.

Batti i tacchi, fratello, hip urrà,
putiferio ossequioso
fanciullesca polluzione del calcagno
brivido acustico per i grandi saggi.
Batti batti fai contento il Superiore
dirotta la fregola del golpe
confondilo col piacere immediato
da aggiungere agli scatti pensionabili.
Prova allo specchio al mangianastri
regola i tempi
dagli secco quel toc che aggancia riti carolingi.

Batti i tacchi, scagnozzo, segui la crème
alla Parata Generale: la gioventù ha molti nemici.

da TRENT’ANNI

TRENT’ANNI
Sono padre del bimbo che a dieci anni
su questi muscoli trottava incontro
a un’abitudine già adulta
e con la stessa lingua moltiplicava feste e avvilimenti
i crucci perentori, indelebili obiezioni.
Un uomo tra germoglio e ramo,
vocale liquida nel doppiosenso.

Sono padre del bimbo che odiava l’aritmetica
e adesso suddivide estri per variabili future.
Gli ho insegnato a non piangere,
che la solitudine teme chi ha in casa un giradischi,
per amico un gatto o un’idea.
Si paracadutava nell’istinto e gli ho mostrato ortica e miele
la pesca col suo baco.

I miei occhi con lui hanno mangiato primavere
(profumate vivande)
e magnolie gonfie come colombe sui rami.
Abbiamo passato stagioni nel cappottino più corto,
oppure spavaldi in qualche capitale europea.
Le sue scarpe mi starebbero strette,
nelle mie immagina ancora
una meta importante, appuntamenti a Milano.

Tentava l’O di Giotto,
l’inconfutabile circoscrizione del talento.
Docile avversario, il muro trasformava palloni
in prodezze al volo (a quale finestra una bambina?).
Tra i suoi bottini, uova di lucertola
un otto a scuola, la Bianchi col cambio
per quella tappa in falsopiano.

Dovrei avere il triplo di saggezza.
Mi appello invece a sue nozioni elementari,
il cuore sempre a due spanne dalla testa.
Dov’è a quest’ora? Ucciso dal chiodo della cresima
soffocato di sangue adolescente
da padre tartaro squartato col coltello,
mi lasciò le sue ossa e il profilo.
Dorme in un cimiterino di paese
dopo la polvere e dopo le magnolie.
Questi trent’anni sgocciolati e in bilico
sono il segreto, l’esile zavorra messa in salvo.

O forse vive un poco in me, chimicamente esausto,
un poco per il mondo,
nelle notizie edificanti dei giornali
nelle paure come foglie accatastate
e mai un falò, un argomento a incenerirle.
Resterà per capire, ad annusare.
Sarà un’idea nel quaderno delle imprecisioni
la sorpresa riletta in una foto.

da CARTA INTESTATA

CARTA INTESTATA
1
Pettini setole stoffe
qualcosa ci sfiorò ripetutamente.
Ruoli, sconfinamenti, segreti:
percentuale che rese praticabile
lo smercio.
Apparenze novità sobbalzi
e fummo subito distanti.
La mano percorse i luoghi
della crescita e della stanchezza.
La lingua promulgò chiacchiere
e sillogismi.
Morbide attinenze sui prati
nei letti, in fondo a uno sguardo.

Macchia viola e cuore sincrono
luci accese e degeneri
sottratte le chiavi di casa.
Chi mimetizza il visibile,
l’attimo che non si può rivivere,
che tutti sanno?
Cosa frantuma strade, volti
e sesto senso?

Quello che non finì sottopelle
si annida tra le cime degli alberi
è quanto si vorrebbe arguire.

2
Dato diametro stagionatura e ciocco,
ripopolare il bosco
saldare trillo e boato
il tronco con l’orizzonte
fare del puzzle quercia.
Alle inconcluse ipotesi
connettere sistemi, politiche, teorie
la coscienza di aver galleggiato
altre ventiquattr’ore
fra Aristotele e il vuoto
che imbianca le galassie.
Dalla gamma dei maldigola
dei malintesi, dei mali altrui
redigere quadro clinico.
Destino di bimbo o civiltà
nell’a. nel boh del primo capoverso.
Naso, profumo:
identikit della bellissima, dell’infedele
della tenera cui consegnare per avere.
Dietro sorpasso e occhiataccia
la furia che ci aspetta all’angolo
o al confine,
sul ciglio delle distonie.
Mostrare i pugni: identico conteggio
in megatoni.

Tutto riflesso dall’acquario
a turno sul fondo
predisposti a boccheggiare.
Quasi mancassero motivi
per farci compagnia.
Vivi per droga, per ossigeno.

3
Fiumi rossi e chiari
da lingua e palato alla caverna gastrica
contro l’arcata-scogliera.
I denti picchettano sapori
l’insolubile amaro.
Mangiamo rimangiamo polvere e polenta
quello che passano languori e latitudini.

Contatto al minimo pertinente
giusta mercede, forma e cognizione
a spanne misurando attrito, nebbia
muri di buio e del pianto,
il dito voltapagina, serralabbra, affibbiacolpe.

Squali contro pareti di medusa
fossili covati da saline-femmine.
Specchio della prima pantera
l’estensibile misura carnale.

Si può ripeterla una mezza cosa, si può una volta
quando sarà finita?

4
L’infinito stelo trafigge
e ricuce
come ago e come filo
campi di brughiere aiuole
minime parvenze sui balconi.
Per grano mammole prezzemolo
inimitabili sigilli.
La spiga s’impiglia al velluto,
macinato profumo di verde.

Nomi composti
nel bacio più lungo
da bocche che vedemmo arrivare
poi impallidire.
Cambiarono lingue e cuscini
non il motivo che rende la donna
necessaria e leggera
più dei suoi calchi pazienti.

Miniera d’oro e di pietre preziose:
propaggini dentro casa
negli scrigni di anniversari
su mani che sfiorarono promesse.

L’usato dei salotti
teiere, meraviglie dell’antiquario:
secoli figli di gesti indispensabili.

Per sortilegio eretti e superiori.
Occhio da cui piovvero tempeste.
Strapiombo del mondo abitato.
Ferite che la conoscenza non rimargina.
Debiti saldati da uno sguardo.

In grotta o soppalco
qualcuno nascose la materia prima,
filato di occasioni e fratellanze.
Resta l’incognita grazia
dei pensieri meno ripetuti.

da PO E SIA

MATTIA
1
Si fece bella la gioventù,
il polline volò con le sue ali.
Per la festa dell’ultimo nato,
rose, farina e polvere:
ciambelle grandi una bocca
di forno,
quella danza all’aperto
che rende cavalieri i contadini.

Il fiore più rosso finì,
allarmata esclamazione, sul petto della ragazza
a margine della scena,
troppo giovane per non impaurirsi.

2
Benvenuto, parente del grillo
e dell’ippocastano,
anello mancante,
attesa fioritura.

Figlio mio e dell’ossigeno,
preso per i capelli dal colore previsto,
fluido amalgama
tra le molle della continua nascita.

Sei l’inspiegabile bimbo
di prima del diluvio,
fosti già in testa
e dietro l’ombelico
di altre madri,
visiterai grattacieli e cantine
di un mondo che non c’era.

3
Sei nato al giallo dei limoni
e della trottola
al rosso esclamativo che insanguina
l’albero di ciliegie
al verde ventre delle stagioni.

Sei nato da pomodori spezie
bistecchine
da nove liquide lune.
Congedato dal primo alibi,
metà del tuo doppio,
ugualmente irripetibile,
cruna per il cammello d’ogni ora.

Fra senso e direzione
sceglierai la via comune,
strada di ortiche
e gambe per schivarle,
strada di fragole
e occhi per mangiarle.

GITANO ALTROVE
Lascio segni impercettibili,
briciole del mio pane:
qualche bottone perso per il mondo,
un foglio sotto la zampa del tavolo
che dondolava,
dei graffi sul tronco dell’eucalyptus,
coriandoli agli incroci che inghiottirono
donne fatali,
un verso per il pomodoro
ai profumi del Messico.

Sono un padre gitano,
torno con dei segreti
da un nuovo oceano, con altri orari.

Sentirai motivi familiari
da qui ai musicanti di Brema,
toccherai l’asino portafortuna
all’angolo col Municipio.
Vedrai New York lucente
e grattacieli l’uno nell’altro,
specchiato amore.
Dormirai su una nave
nella riga di mare senza ghiaccio
verso Helsinki.

A Parigi la meccanica dei tacchi a spillo.
A Leningrado una bambina,
figlia del custode del Museo,
educata alle meraviglie.
Il parco del barone d’Assia
con gli uri già scomparsi, pallidi,
d’argento e polvere.

In qualche libro incontrerai
parole lievi sottolineate:
estratto di tante letture,
premio della lotteria.

Sei invitato a Natale
su nevi distanti,
coscia di renna l’amica svedese.
Solo, in quella trattoria
nella nebbia fuori Cremona:
la polenta nel piatto, maschera senza sugo.

Ti ho pensato nei sopralluoghi,
ho lasciato dei segni.
Troviamoci nel mezzo del tuo viaggio.
Anche se sarò assente,
gitano altrove.

da LIBRO DI STORIA E DI GRILLI

CARTOGRAFIA DELL’UNIVERSO PRIMITIVO
1
Le galassie, mandorle sbiancate,
conservano l’intonaco di un paese fantasma,
orti luminosi, radici del cortocircuito.

Ci fu un inizio per gli odori, le cellule,
l’infelicità e il ragionamento.
Il primo istante divampò
in continenti di scintille
e ancora si allarga, scandalo sidereo.

Da quale davanzale segreto
partì il colpo di doppietta,
la corsa parallela del tempo e della luce?
Da quale piano inclinato
rotolarono le perle celesti
imbevute di vuoto, indirizzo la fuga?

Il cielo è ovunque,
la luce è un fossile.
Silenzio, patria dell’esplosione.
Un parlottìo di onde
fora le reti del disordine laconico.

Un filo, un’ostia, quest’asse di equilibrio:
la terra su orizzonti senza peso.
Il lungo esofago dell’universo
finisce nello stomaco che trita
mondi accesi
e presunzioni chiamate calcoli.

Il respiro di un mostro esotico
confonde i modi di comunicare,
soffoca le nostre antenne.
Forse non sa di esserci sotto il pelo.

Tutto partì da una bolla d’inchiostro,
da briciole di polvere.
Finirà in un risucchio di colori
tra sipari d’atmosfera.
Miliardi di soli e di nane,
il gran circo degli ospiti.
Di nuovo scintille di freddo
e suoni sragionati.

Ci basta capire il cielo,
il fondo del lago riflesso,
dalle sue cicatrici, le stelle.

2
Dietro la luce
non c’è più una stella
ma il suo calco refrattario,
nenia ossessiva,
ampolla di olio rappreso.

Le stelle smesse finiscono
alle pareti dell’alba
coperte da un panno,
specchi negati dal lutto.

3
Gli astri migrano
per stagioni loro,
rondini senza famiglia.

Lo spazio, ventaglio
da flamenco,
ruota al battere di un tacco.

Un canto gregoriano,
l’urlo dei manicomi
sono frutto degli atomi in gioco.

IL PADRE
Portò a casa un sigillo
del grande rogo,
un tizzone alla faccia della paura,
fodera di calore.

Lo conservò come un alimento,
di ramo in ramo
per ogni figlio.

Coniugò voci calde come il pane,
scaricò ombre negli occhi dei lupi,
alzò più farfalle di un pesco in fiore.

Passò sulla fiamma un morso di carne
e l’offrì con del sale
al ragazzo
che non mangiava più niente.

L’INVENZIONE DELLA NOSTALGIA
Due parole imbiancate nel 1688
strinsero il cuore al pomeriggio:
nòstos, àlgos, ritorno e dolore.

Johannes Hofer, medico alsaziano,
riunì le mancanze di patria note alla scienza
alcuni paesaggi del Nord Westfalia
i ricordi di un ex generale
l’eco di una valle svizzera
una ballata della sua giovinezza
le favole degli ugonotti.

Scese una lacrima dall’alambicco.

DOPOGUERRA
Si accendono gonne rosse, sigarette.
Si gonfiano fisarmoniche e frittelle.
Si aprono formaggi, trattative.
Teste spavalde e rincuorate sbucano
dai quadri di Covili, di Guttuso.

Nelle stazioni di Rimini e Ferrara
ragazzi in attesa di un treno,
di un lancio di dadi:
chi uscirà comiziante, chi regista
o boy nelle riviste di Tognazzi.

Nella pancia avvilita da un urlo
passano notizie neonate.
Gocce di latte, prima abbondanza.

La Repubblica promulga la primavera
con francobolli più colorati.
La luna non rastrella incursioni,
esploso il cielo delle bombe.

da LIBRO DI SCIENZA E DI NANI

LA STELLA PRENATALE
1
Prima galassia, bosco di atomi.
Aghi di sole punsero la pianta verde,
un soffio di carbonio seguì la vena.
In cima ai fiori giostre di nettare,
dall’ape funambola trasporto e attrazione,
miele per i bambini.
Così la prima galassia è ancora
una scuola materna.

2
Formichina ardente, la stella prenatale
fissò nel sangue i suoi depositi.
Ferro, calcio, potassio
ci saltellano dentro, pulci minerali.
Ferro nella ghisa e nella pera,
nei muscoli, nei colpi di pugnale.
Calcio nelle ossa degli atolli.
Potassio alla radice dell’edera, del cuore.
Da un meteorite spento, carne e crosta.
Caricati a polvere per attentati a distanza,
noi terrestri, stelle redditizie.

OSSIGENO
In principio l’atmosfera era un orcio
sigillato, regno dell’asfissia.
Sole e clorofilla aprirono un varco,
da allora l’ossigeno sfida gli abissi
con le sue bombole.
Che bruci un copertone o Roma antica
lui di sicuro è il mantice,
ventola di penne di cappone.
E’ lo schiaffo che ravviva il neonato,
la raffica di scuro sulla mela.
Argonauti e palombari
gli devono un rispetto sindacale,
oblò sulle correnti.
Al laccio di un fulmine diventa ozono,
scheggia di temporale.

UCCELLI
Il rettile, un mattino di mele lucide
sentì la voglia goffa di cantare.
Tanto soffiò che nel suo corpo
si incendiò un fringuello,
dalla pietra focaia delle squame
si alzò un falò di penne.
Staccandosi dalla specie
spiegò le ali con la morte in gola
e un debito di uova.
Un flauto d’aria lo traghettò
oltre se stesso e il fiume,
piuma geometrica.

TEOREMA
Nessuno va più in là
del tratto fra testa e piedi.
Impronte del teorema
nei cimiteri musulmani:
un turbante di pietra dove comincia il corpo,
ormeggio per i piedi un cippo scalzo.
Poi sulle tombe dell’isola lapidata dai fiordi,
sottovoce la scritta: “Grazie di tutto”.