Emanuele Giudice è nato nel 1932 a Vittoria, dove è morto nel 2014. Ha pubblicato per la poesia: Dialogo per una scommessa (1991, teatro-poesia, Premio Città di Montecatini), Una stagione di rabbie (1993), Ora che il sogno è pietra (1997), Un uomo chiamato Gesù (1999, teatro poesia), Monologo sulla pietà (2000), Oratorio per un bambino (2001, teatro-poesia), Finale d’avventura (2006), Il dolore e la luce – via crucis dei perdenti (2008), Il tempo adunco che ci artiglia (2009), Come noi (2010), Il tarlo di Caino (2011), Silenzi ombre e domande (2011), I colori del buio (2012), Il sole provvisorio (2013); per la narrativa: La politica e così via (1984), Il viaggio la memoria il sogno (1989), La morte dell’agave (2001), Il poeta e il diavolo (2003), Il sapore dell’aria (2007), Lo scirocco nel sangue (2012); per la saggistica: Mafia come solitudine e rifiuto (1984), La scommessa democristiana (1984), Il tempo della politica (1986), L’utopia possibile – Leoluca Orlando e il caso Palermo (1990), Dinosauri e cani fedeli (1995), Senza siepe (1997), Liberi come Dio (2002), “…e venne il tempo dei gabbiani stanchi…” (2004), Prima che arrivi la notte (2005), Il silenzio del vento (2007), Tempo delle spine (2007), Walter Veltroni, lo scompiglio tra scommessa ed azzardo (2008), A sinistra perché credo (2009), Il clamore, il silenzio, il dubbio, – cristiani davanti alla morte di Eluana (2009). Ha collaborato a giornali e riviste su temi di cultura, commento politico e costume. Sue opere sono in diverse antologie e hanno vinto numerosi premi letterari di rilevanza nazionale e internazionale.

http://www.literary.it/ali/dati/autori/giudice_emanuele.html

 

POESIE

Io non ho patria
Io non ho patria
sono un uccello
che dissolve muri e confini
per rapire le distese
di luce.
Io non ho patria
Sono un atomo di cuore
che accende sogni
oltre l’assurda siepe.

Io non ho patria
non so imbrigliare l’universo
e chiudere il mare in una valle
erigendo muraglie d’odio.

Assurda come il sangue
sulle trincee,
ambigua come le ortiche
la mia patria
si dissolve
oltre l’immenso cielo.

Finale d’avventura
Sempre più incerto si è fatto
il mio cammino
dolente il mio sentiero
lastricato di morti,
ossa le basole
su cui premo il mio piede
aspro all’assalto di memorie
impervio
al mio claudicare.
E l’assedio d’ombre ostinate
gremisce i giorni,
bianche rende
le notti senza luna.
Ora aspetto
Che tu mi tolga la parola
mi zittisca
e sottragga
a questa impudica logorrea,
a questa cascata
pretenziosa e vana
di parole già dette,
fradice di senso
avare di pretese e di passioni.

E ogni incerto fonema,
ogni mio balbettare
lo sento già
rotolare nell’eterno,
farsi ricordo e pianto,
nostalgia di ritorni impossibili
di cose fatte
malfatte
omesse.
E il silenzio
m’appare già
signore assoluto
dell’eterno,
generoso nel dono
di ardenti suggestioni,
della terra
del cielo
della luce.
Ti sento ora
senza filtri di carne
e diaframmi di lacrime e di brume.
Sei vagito che annunzia
l’altra nascita,
presagio d’altro sole,
annuncio di chiarori intuiti,
mai goduti.
E il diverso
il cangiante
sarà timbro e suggello
del nuovo sogno,
d’altro rimpianto
del tempo andato
stampo e figura.
Perché tutto ora
si fa nuovo e diverso,
s’aggancia ad altro senso
mentre muore il passato
nelle brume.
C’è la percezione
del nascosto
ora
a tenermi compagnia
e il mai provato
sarà volo felice,
solcherà gli orizzonti
del Tutto,
del suo apparire e sciogliersi,
del suo aspettarmi
paziente sul limite del tempo.

da COME NOI, ORATORIO PER I MIGRANTI

Yassef
Noi poveri
sappiamo solo alzare
le mani vuote al cielo
sperando che un Dio muto
rompa il suo silenzio
e incroci il suo sguardo col nostro.
Sappiamo
che il Dio dei poveri
è fedele
e coltiva
tempi insaputi
all’uomo
per vincere il silenzio.
Sperare
è il verbo dei poveri,
disperare è la loro cifra,
unico verbo
che sappiamo declinare
accarezzando
il domani
con mani nude
e perse nella notte.
Sentiamo
morire la speranza
agli snodi
di sentieri pietrosi
dove l’umano
parla lingue
avare di parole e lenimenti
(…)

Yassef
Su traballanti catorci
d’anime perse
strapieni
di donne esauste
e bambini
dai grandi occhi
dove non c’è traccia
di pianto e di futuri,
siamo sballottati
come rifiuti
in mesta attesa di discarica
(pausa)
Non ha strade il deserto,
né bussole o cartelli,
è chiuso
ai quattro lati d’orizzonti
in attese d’aurore che non sai.

Haddish
Tutto abbiamo investito
in questo miraggio
d’incerti paradisi,
la capanna svenduta,
i risparmi solerti di decenni
consegnati
in avide mani senza scrupoli,
ora a guidarci
è la sfida della vita,
l’urgenza di trovare un cantuccio
di sorrisi.

da IL SOLE PROVVISORIO

Altrove
Non ci sarà più lo spazio
né ci sarà il tempo per raccattare i residui
e rivestirli della loro esile presunzione
a farli germogliare su umori dissimili
rispetto a quelli della terra.
Altra sarà la dimensione,
altra l’essenza,
diverso il sentire e lo scambiarsi messaggi
sul computer dell’eterno.

Soli saremo
a conteggiare la vita che ci manca
confrontandola col sempre
e strizzando l’occhio alla terra.

La distanza
Non sei se ciò che divide due punti
Ma ciò che li convoca e riduce.

Suono
Che rincorre tutte le voci
e le riepiloga nell’universo,
accogli la separazione e il distacco
per farne un dialogo capace di vincerti.
Non hai numeri compatibili con l’umano,
ma il respiro aperto del tutto
e l’ansia del non trovato
dove muoiono i semi
e si piegano le pietre.

Sei rapporto e sentiero
obbligato a perdersi
nei vicoli impervi della ragione
dove si struggono visioni
al desiderio di germogli
come figli mai nati.

Sei una misura senza misura
in cui s’adagia il tempo
smarrito nei conteggi
al dileguarsi di albe e nuvole.

Non sai l’angoscia della lontananza,
né il nulla e il perso.
Hai l’ardimento della tappa
e il grido trionfale dell’arrivo.

Nel tuo spazio si separano e incontrano
il dolore e la gioia
e l’eco riconduce la parola al suo genio
discoprendola alle sue radici.

MA DOVE VAI?
Ma dove vai
con queste povere gocce tra le mani
come rugiade traslucide di verde,
avide di parola?
Sei solo nella sfida,
audace
nell’accanito travaglio di progetti..,

Sul tuo viso
ora
a dirotto cade e si spande
il lavacro di una pioggia
densa di boschi e terra nei profumi
e tu l’accogli
come un dono che non sai donde viene
né perché…

Aspetta,
t’accompagno
lungo questi sentieri
nudi di pietre e segni,
proni alla notte che li cinge.
Anch’io
soffro le vertigini della solitudine
e cerco l’altro
dove non lo trovo.

E gli occhi vanno al pozzo senza fondo
dove il sole non arriva
e tutto sembra subire l’artiglio
di angosce risapute.
Scrutavo il pozzo da bambino
e coltivavo incubi e paure
del nero
del profondo.

Ora non più, forse…

Vinciamo assieme
questo muto guardarci
ed assentire alla paura
finché una mano si muova
alla ricerca dell’altra
per l’esiguo calore in disuso
da scambiare…