Dario Bellezza è nato a Roma nel 1944. Scoperto e lanciato da Pier Paolo Pasolini, si è imposto all’attenzione del grande pubblico con l’Innocenza, romanzo breve presentato da Alberto Moravia. Ha pubblicato, di poesia: Invettive e licenze (Garzanti, 1971), Morte segreta (Garzanti, 1976, Premio Viareggio), Morte di Pasolini (Mondadori, 1981), Libro d’amore (Guanda, 1982), Io 1975-1982 (Mondadori, 1983), Serpenta (Mondadori, 1987), Libro di poesia (Garzanti, 1990), L’avversario (Mondadori, 1994), Proclama sul fascino (Mondadori, 1996), Poesie (1971-1996), Milano, Oscar Mondadori, 2002). Di narrativa: L’innocenza (De Donato, 1970), Lettere da Sodomia (Garzanti, 1972), Il carnefice (Garzanti, 1973), Angelo (Garzanti, 1979), Storia di Nino (Mondadori, 1982), Turbamento (Mondadori, 1984), L’amore felice (Rusconi, 1986), Nozze col diavolo(Marsilio, 1995). Di teatro: Salomè (Libria, 1991), Testamento di sangue (Garzanti, 1992). Di saggistica: Il poeta assassinato. Una riflessione, un’ipotesi, una sfida sulla morte di Pier Paolo Pasolini (Marsilio, 1996). Per Garzanti ha tradotto l’intera opera di Arthur Rimbaud, suo poeta di riferimento soprattutto negli anni della giovinezza. Malato di AIDS, è morto nel 1996 a Roma.

http://it.wikipedia.org/wiki/Dario_Bellezza

 

POESIE

Per sempre
Eri una emozione per vivere,
per stridere durante il pasto
serale. Era emozionante ricevere
posta. La mattina in fretta
le scale scendevo e lì
trovavo le ingiurie tue
alla mortale natalità.

Accuse per andare avanti.
Ma dopo ti rendevi inquieta
al delitto del non detto
se non rispondevo per le rime.
O rima che dirti non sapevo
senza la fuga in avanti
di terzine squilibrate
sul dolce stil vecchio della
Musa canterina a presiedere
gli ozi di Sodoma. Dirti
che ero pieno di sonno .
se l’immortalità era un pio
desiderio, lugubre sospiro
ti avrebbe annoiato.
Talvolta una stradina
mi risucchia indenne
dove non alberga strepito di auto;
allora sciolto dai tuoi lunghi
sensi camminare ti vedo per sempre.

Roma 1989
È avventizio il mio essere reale.
Sleale è insistere su chi sono io.
‘Il punto partenza e scontato
l’arrivo è certo nello stato
attuale: morte come sostanza
o strato finale di un cuore malato.
Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro
ma non posso. Troppo ho peccato
di peccati non miei, attribuiti
a posteri, mancati inganni.
Cerco amori nuovi, violente sere.
Perdono chiedo a chi non amai.
Forse verrò domani ad un prato
verde, e non sarò più solo.

In Calabria
Davanti immacolate montagne
nel sole meridiano indicano
al viandante la sosta e la calma.
Ma fino a quando? E io chi sono
se ancora ardo di voluttà segreta
nel giorno finito, anzi nei giorni
finiti del mondo caduto?

La casa è decrepita
come piace a me, ma troppo tardi,
mi dico, è arrivata, come tutto
ormai tardi è arrivato agli umani.
Panni stesi al balcone al vento
del Pollino, letti disfatti, aurore
così si placa nel risentimento
la vita che ci è data vivere.
Il mio io è distrutto, non esiste:
la realtà è un nome assiderato.

A Elsa Morante
I ragazzo drogati, guardie del corpo
dell’Assoluto, vanno per il mondo
mattutino fino alla sera della loro
sopravvivenza: come passerotti
mangiano distrattamente
tutti presi dai loro sogni d’avventura.

E la sciagura che li coglie per strada
e li fulmina pienamente stecchiti
li lascia preda delle iene umane
che scrivono i loro necrologi sui giornali.

Le loro dita sono piene di anelli,
la loro grazia bugiarda di mentire
sa che io non ho bisogno di droghe.

E mi guardano come un povero reietto,
un infelice, ma troppo non m’offendo.
So che vanno per le vie del mondo
con in bocca il sapore della polvere
e del tossico:
strepito vano è il loro baloccarsi
bambino, orgoglio luciferino
di chi si consuma, strugge come cera,
ma anche così la mia voce smorta
li vorrà sempre al mio capezzale.

Il mare di soggettività sto perlustrando
Il mare di soggettività sto perlustrando
immemore di ogni altra dimensione.
Quello che il critico vuole non so dare.
Solo oralità invettiva infedeltà  codarda petulanza.
Eppure oltre il mio io sbudellato
alquanto c’è già la resa incostante
alla quotidianità. Soffrire umanamente
la retorica di tutti i normali giorni delle
normali persone. Partire per un viaggio
consacrato a tutte le civili suggestioni:
pensione per il poeta maledetto dalle sue
oscure maledizioni.

Dio mi moriva sul mare
Dio mi moriva sul mare
azzurro, sul suo pattino dove
mi aveva invitato ad andare.

Ma fu la gelosia, la normalità
dei ragazzi a spingermi a rifiutare,
ad alzare le spalle alle battute salaci.

L’odore del mare riempiva
le navi e tu cantavi negli occhi
ridarella di vittoria.

Fuori di me
Alla follia, non badate, datemi retta!
Pensate piuttosto ai nuovi ritmi in cui
immergere la vostra vita perduta dietro
l’apparenza delle cose. Cercate l’immortalità,
l’eterna questione del mare splendente
dentro il sole di giugno che diventa nero
a notte e scompare nelle tenebre.
Io dimenticato relitto di una civiltà
passata sono il solo che piango i defunti
miraggi di un’età morta e ancora
coprendomi di ridicolo scrivo lettere
d’amore a traditi amori di un’epoca trascorsa,
la giovinezza, e ricordo lo studente
che piegava la sua retta immagine
a misurare l’angolo della sua carnale diversità,
a versare nel seno asciutto di una madre
occasionale la solitudine futura dei suoi
giorni tutti uguali. Lasciatevi andare
verso il mare della vita! Assaporatene
la musica sbiadita, e trionfatore sarà
solo il Tempo e il suo nero oltraggio, la Morte!
Mentre io ancora scriverò che il poeta
chiude in stremate parole il suo cervello
mirando il muro in alto della sua stanza
e le poesie scivoleranno via, senza pietà,
e nessun Dio le registra, incarnandosi per un attimo.
Il ritmo non sa di mirtillo acerbo
e piegarsi sulla bianca pagina di un diario
il meglio dell’ispirazione fa in un fiato dileguare.
Chiamatemi così: pazzo, deserto testimone
di un deserto da percorrere in una torrida
estate, senza acqua raccolta nella gobba
di un domestico dromedario, e la mia poesia
definitela con crudeltà e livore come lubrica,
oscena, interessata e manigolda consigliera
di sventura o furto di anime giovanili
in cerca di nuove reincarnazioni.
Sappiate però che brucio di gioia, di allegria
feroce dentro la mia casa buia, prigioniero
di calamitose idee, slabbrando la mia merda
in privata visione senza lo scempio
di immagini e talenti altrui. Sono un genio
geniale che la vita spassa da un dolore all’altro,
teatrale, senza ferite apparenti che non siano
d’amore, piaghe purulente lasciate da una donna
fatale che nessuno conosce.
Slabbro la mia merda in privata visione:
ghirigori collettivi e birbanti.
Muratemi in una galera con la bibbia e i santi.

Dopo un anno, feroce giorno
in cui un poeta è caduto
1976
Pasolini sparito, ucciso come un cane bastardo
in una sgomenta periferia di fango in un giomo di novembre
mai più ritornerai in questa Italia del miracolo
dove la tecnocrazia fra poco trionferà, il conformismo
dei nuovi padroni, laidi nazisti atei o cattolici di un dissenso
solo nominale che perseguita i diversi, distruggendo
ogni anarchia, ogni bellezza ideale;
vista mai dimenticata per te vivendoti accanto
per tanti anni ormai poeta dimenticato, incrostato
nelle tue menzogne radiose di poeta civile
sublime compagno di notti in terra ferma
parlando di libri e di amori.

Pasolini, ti hanno ucciso, non meritavi di morire
né di vedere lo scempio del tuo corpo sacro
mentre tutti i poeti ermetici neorealistici o avanguardisti
coprono con le loro poesie di fetore l’umile Italia
e il mondo, né sanno quando tutto prenderà la via dell’Eterno
e le morte stagioni sapranno l’odore della tua scomparsa
immedicabile ferita mi avanza per tutto il resto della vita
abbandono il sentimento e la fortuna vuole che io sappia
sopravvivere al lutto, ma è come fosse ancora il primo giorno
della tua partenza da questo unico consesso dei vivi.

A Pier Paolo Pasolini
Non mi rassegnerò mai alla tua morte.
Sei stato così indispensabile per me, così necessario
che a pensare che la terra più non ti prevede, e la
vita ti ha abbandonato urlo di un dolore
senza tregua o pace in qualche conforto. L’idea
che non avevi nessuna voglia di morire, pur
se come tutti i poeti la morte l’avevi tante volte
invocata, fino ad esorcizzarla, mi fa terrore.
Non volevi morire, lo so; non così almeno, ucciso,
dilaniato, calpestato, e questo limite assurdo
del destino mi colpisce come una violenza incredibile.
Vieni a dirmi perché sei morto, perché ci hai lasciato,
se esiste Dio in qualche parte del Creato!
Tu solo eri intelligente e padre tanto
da acquietare la mia fame e sete di pianto!

Vedi: ti rendo omaggio con qualche stenta rima;
tu mi hai voluto poeta, ed io mi sono reso
tuo schiavo, tu hai difeso in me la diversità
e io ho compensato il mio fare con la tua cortesia
di lettore attento e curioso. Com ‘eri intelligente,
caro Pier Paolo, com’eri strano e misterioso;
come ci hai lasciato qua tutti orfani di un padre
che non volle mai essere padre ma che lo era, negli atti,
e nelle parole, più padre di tutti., più maestro.
Ti ho tradito anch’io tante volte, ma eri così
presente, cosi sempre necessario da dover distinguere
con te ogni riga che scrivevi per non sentirmi soffocato;
ma tu amavi tanto la tua libertà da amare nella tua
quella altrui, e la mia consigliavi amorosamente
distratto e divino.
Non mi consolerò mai della tua scomparsa, e ti andrò
cercando ormai solo in quel pianto che è la memoria
dove non c’è spazio per la vita, o per l’ansia di incontrarti
ancora, a Sabaudia, al ristorante, a casa di Elsa o di Laura!

Vere lacrime mi bagnano le guance, ora, e scrivendo
questa mia testimonianza non mi vergogno di essere
sentimentale. Ci si accorge di tutto l’amore che si aveva
per qualcuno solo all’atto pratico della sua morte.
Non la volevo, né la prevedevo. E ora che è una realtà
che offende e brucia dentro senza tregua, scusa, caro
se ricordo al mondo quello che, morendo, ha perso.
Una luce, uno spazio infinito di poesia, un cuore
tormentato e quieto nella sua voglia di vivere.
I tuoi nemici avranno gongolato. Uno di meno, hanno
detto. Vergogna! Vergogna! Piangete, ragazzi, almeno
voi la morte di Pier Paolo; nessuno piu di voi può
essere lì dove Pier Paolo voleva vivere e operare.

L’avversario
Non furono immagini, raggianti e regali
immagini del reale salutare il mio forte:
il forte di ogni ora rimescolata, nella
siesta o controra della brame assolute.
E trascorsi i secoli in ghingheri
trasecolammo con scheletri tardivi di Musa
antiquata lungo le cime dei monti Tiburtini
invano cercati da mani infantili.
Non cercammo i cuori lacerati e indecisi
né il lieto sapore dei muscoli d’Acciaio.

Si, immagini, rumori: mai il mio forte,
il vero forte, o panforte della poesia.
Truccata idea dai sensi inquieti
o calpestati singhiozzi nel letto
ospite e ospitale, orinale mentre tendo
l’orecchio alla salita delle scale,
le mani collegiali chiuse e derise
dentro la palma umida, liquida,
vivendo al capestro le sensazioni virginali.
Stanze illuminate, poi. Garbate
ingiurie del vino, ma il giorno è
passato ormai, orfano innamorato
agitandomi in piedi, in ansia: apro
la finestra nel freddo lunare
spio la mortalità terrestre e serale:
tombale silenzio, e noia, noia
calamità naturale del poco amarsi
nel riaccendere la luce
perché svaniscano gli incerti fantasmi della notte.

Da Angelo, 1979
Non sono né invincibile ne Dio;
ma mortale assaporo i sapori più forti della vita
e vomito, considerandomi fallito
agli occhi di Dio.
E tu, donna, vienimi incontro.
Portami in salvo. Brucia le resistenze.
Satana mi vuole perduto e peccatore.
Io devo smettere l’orgoglio
di sapermi diverso, irreale
amante dei diversi.

Ho deciso di non più frequentare la tua perfidia
Immonda di terrestre consumato dall’invidia
Delle mie celesti opere che nel mondo illuminando
La verità del destino, il fato aguzzino dei soavi
Ragazzini incatturabili dai mostri osceni e turpi
Come te, lasciano l’irrealtà, per sprofondare
Nella mia straordinaria coscienza. Dilato
Il mio giudizio su di te, corruttore di bambini
E straripante lemure che la ristorante mi afferri
E con le tue stregate pargolette di scostumato
Poeta di periferia, m’infilzi, bivaccando
Presso i barbari drogati dell’Assoluto Relativo.
Non sei niente, ma vorrei assistere al tuo funerale.
Vederti mentre mi vedi
Venire al tuo funerale senza poter obiettare
A questa assente presenza che sarei io, a lutto
Vestita, in attesa di parlare di te
Al ristorante con i miei cortigiani.

Andiamo a rubare
Andiamo a rubare: il furto si addice a un poeta!
Nessuno veramente sa che cosa sia, intero,
un poeta! Un grande sapiente o veggente?
Magari! O soltanto un criminale! Un ladro
di lumi, di vite clandestine vissute
nel silenzio dei giorni tutti uguali.

Ma non saprai giammai perchè sorrido
Ma non saprai giammai perché sorrido.
Perché fui il pedante Amleto
della più consolatrice borghesia.
Perché non ho combattuto il Leviatano
Stato che vuole tutto inghiottire
nella macchinosa congerie
della sua burocrazia inesorabile.
Ora mi nascono le unghie come ai morti.

Nella luce fioca mi lecco
Nella luce fioca mi lecco
le ferite mortali e la mia
anima foglia leggera va
in cerca del Padrone
Chi è nell’ombra solo sa
quanto il giorno è mortale
Bianca statua solare
che non incanta più la mia
morta anima.

*
Forse mi prende malinconia  a letto
se ripenso alla mia vita tempesta e di
mattina alzandomi s’involano i vani
sogni e davanti alla zuppa di latte
annego i miei casi disperati.

Gli orli senza miele della tazza
screpolata ai quali mi attacco a bere
e nella gola scivola piano il mio
dolore che s’abbandona alle
immagini di ieri, quando tu c’ eri.

Che peccato questa solitudine, questo
scrivere versi ascoltando il peccatore
cuore sempre nella stessa stanza

con due grandi finestre, un tavolo
e un lettino di scapolo in miseria.

E se l’orecchio poso al rumore solo
delle scale battute dal rimorso
sento la tua discesa corrosa
dalla speranza.

*
Se un poeta, io, regalo al cupo silenzio
della notte metà del tempo che m’ incalza
ostinato inquisitore di un corpo
sbalordito dall’abitudine, decomposto,
in ansia perpetua di non lasciare traccia
di sé nei corpi altrui o stampo caldo
nelle fresche leggere menti adolescenti

né la Storia, l’ordalia infernale
dei tiranni assetati di sangue e morte
non considero, ne viene anzi, rabbia,
sgomento, urlo lontano nella gola secca,
pianto sommesso o gridato, abbiate pietà!,
vi scongiuro, trattenete l’angoscia che sale
alle mie stanze, feritela, fate qualcosa!
grida la mia voce isterica e arrotata
dallo snobismo clientelare con il Diavolo;
ne viene tutto come meta finale un nulla,
un ghiacciato nulla senza escrementi
o virtù viziosa di drogato. Talché scrivo
in privato, di nascosto, che nessuno sappia,
per carità, madre di un attimo, amante
passeggero dentro un treno o una fratta,
scrivo un testamento o calendario, a seconda
dei temi giornalieri destinati dal Caso,
non umili o meschini o facili o malati
ma sempre datati come ogni cosa deriva
dall’anno il suo profumo e la menzogna,
spera di trovare l’occaso salutare
fuori di qui, terra bruciata, di nessuno
di là dal mondo certo e pellegrino.

*
Racconto l’affamato scontro di due vite
per impietrare nella vita idiota
la promessa felice della vittoria
sul ricordo del lupo e del pugnale
e voi assonnati adolescenti odorosi
di fumo presto sfiancati dalla maturità
rispettate il codice cupo di chi vi volle
strumento assurdo dell’eternità.

Il pane muffo e le patate bollite che mangiai
con uno di voi sonnolento buffone meritano
la muffa eterna della vigliaccheria o
la forza della misericordia che s’elimina
crescendo verso la dolcezza estrema
del suicidio più lento: vivere.

*
Come le stelle da secoli spente
ancora inviano lor luce splendente
ai nostri casti occhi che guardano
la luna e le stelle e tutto
il firmamento remoto,
amore solitario
il tuo pallido ricordo
arriva in ritardo all’appuntamento
sperduto nella vastità
della mia solitudine.
Arriverà la notte suicidale
a ricoverarci lo spremuto
cervello che s’accende ancora
di questo deserto e spaventoso
“A presto!”

*
Amato o no il mondo era vero
vero simulacro del fabbisogno di Dio
sembrava un sogno ad occhi aperti
occhi aperti sugli abissi e i confini del sonno
Sogno o son desto era il mio motto
le parole del cuore consolavano i pianti smisurati
gli assalti del cuore raggelavano i pieni
del cinema – la voluttà di baciare
Liside era spenta nelle braccia della fortuna.
Chiamate il bisogno – amaro o dolce –
della carne più sincero di ogni strazio
e ogni pentimento della ragione silenzio accorato.

*

LA PATRIA E’ LA LINGUA
Per una mattina il male e il vero si confondono;
nessuna bestemmia per l’opera esaurita
da chi, come me, non spazia più nei sentieri
della poesia. Forse sbagliai arte, la sovrumana
fine non cercai con accanimento; non avevo
mestiere; così passai ad invidiare i pittori.
Ma quali? I mentali, tutti figurativi
e anormali, astratti e immaginosi vigliacchi
nel rifiuto dell’Antico e della Tradizione,
ma virili nell’accettazione del Caos
del mondo moderno. Creatori d’immagini, sì,
beati, mentre il poeta s’arrangia anche
in estreme parole, afferrando, magra
consolazione, che la sua patria è la lingua!

Assassino, scuoti il poeta, discreto infantile
tessitore d’inganni, scuotilo, con la tua magia:
fallo fuori con gli occhi della mente bruta;
calpesta l’orgoglio di chi rimane attaccato
alla Realtà! La Realtà non esiste, ma esiste
un mattino in cui ci si sveglierà perfetti
e ciechi nella ridondanza dei corpi,
o della loro fresca resurrezione. E noi saremo
là, angeli di fiamma e ghiaccio, a cantare
la gloria del Signore per aver saputo
registrare l’orrore del mondo mendico
in Marocco o a New York, non ha importanza.

*
La sedia di paglia si è rotta,
ne conservo solo lo schienale.
Fu regalo di un amico defunto
ormai sparito, suicida, arrivato
nel buio calmo degli Inferi.
A presto mi dice nel sogno
a presto dentro la stufa aspettando
l’Inverno dove butterai lo schienale
e della vecchia sedia non resterà
traccia, come noi mortali.
Diventerà fuoco, poi brace
piena di tizzoni ardenti
sfrigolando nel pianto sommesso
della cenere.
Tu, tu,
sempre tu
calzando mattutine babbucce
ti riscalderai al fiato
solenne di una statua
bottiglia di Centerbe.