Clemente Rebora è nato a Milano nel 1885 ed è scomparso a Stresa nel 1957. Collaboratore della Voce, di Riviera ligure e di altri periodici, le sue raccolte di poesia sono Frammenti lirici (1913), Canti anonimi (1922), Via Crucis (1955), Curriculum vitae (1955), Gesù il Fedele (1956), Canti dell’infermità (1956, ed. accr. 1957), Iconografia (postuma, 1959), Ecco dal ciel più grande (postuma, 1965). La produzione poetica è stata poi raccolta in Le poesie.1913-1957 (a cura di V. Scheiwiller, 1961, 1982, 1988); l’opera omnia è stata raccolta nel volume Poesie, prose e letterature (Mondadori, a cura di A. Dei, 2015). Ritiratosi (1931) in un convento rosminiano di Domodossola, nel 1936 fu ordinato sacerdote.

https://it.wikipedia.org/wiki/Clemente_Rebora

http://www.treccani.it/enciclopedia/clemente-rebora/

 

POESIE

Dall’imagine tesa
Dall’imagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Tempo
Apro finestre e porte –
ma nulla non esce,
non entra nessuno:
Inerte dentro,
fuori l’aria è la pioggia.
Gocciole da un filo teso
cadono tutte, a una scossa.

Apro l’anima e gli occhi –
ma sguardo non esce,
non entra pensiero:
inerte dentro,
fuori la vita è la morte.
Lacrime da un nervo teso
cadono tutte, a una scossa.

Quello che fu non è più,
ciò che verrà se n’andrà,
ma non esce non entra
sempre teso il presente –
gocciole lacrime
a una scossa del tempo.

La speranza
Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.
Speravo nel tempo, ma passa, trapassa;
in cosa creata: non basta, e ci lascia.
Speravo nel ben che verrà, sulla terra:
ma tutto finisce, travolto, in ambascia.

Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato
la Voce d’Amore che chiama e non langue:
ed ecco la certa speranza: la Croce.
Ho trovato Chi prima mi ha amato
e mi ama e  mi lava, nel Sangue che è fuoco,
Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,
l’Amore che dona l’Amore,
l’Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già qui nel mondo
comincia ed insegna il viver più buono:
felice amore di Spirito Santo
che trasfigura in grazia e morte e pianto,
d’anima e corpo la miseria buia:
eterna Trinità, dove alfin belli
– finendo il mondo – saran corpi e cuori
in seno al Padre con la dolce Madre
per sempre in Cristo amandosi fratelli.
Alleluia.

Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
con crespe di faccia, affiorante
sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
tu uomo, di guerra
a chi ignora non dire;
non dire la cosa, ove l’uomo
e la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
una notte, dopo un gorgo di baci,
se tornare potrai;
sòffiale che nulla del mondo
redimerà ciò ch’è perso
di noi, i putrefatti di qui;
stringile il cuore a strozzarla:
e se t’ama, lo capirai nella vita
più tardi, o giammai.

O pioggia feroce
O pioggia feroce che lavi ai selciati
lordure e menzogne
nell’anime impure,
scarnifichi ad essi le rughe
e ai morti viventi, le rogne!
Quando è sole, il pattume
e le pietre dei corsi
gemme sembrano e piume,
e fra genti e lavoro
scintilla il similoro
di tutti, e s’empiono i vuoti rimorsi;
ma in oscura meraviglia
fra un terror di profezia
tu, per la tenebra nuda
della cruda grondante tua striglia,
rodi chi visse di baratto e scoria:
annaspa egli nella memoria,
o si rimescola agli altri rifiuti,
o va stordito ai rìvoli di spurghi
che tu gli spazzi via.
Ma per noi, fredda amazzone implacata,
o pioggia di scuri e di frecce
tu sei redentrice adorata
del rinnegato bene;
per noi, che sentiamo insolubil mistero
quando la vita si sdraia alle cose,
mentre l’eterno in martirio di prove
ci sembra spontanea purezza del vero,
tu sùsciti come il silenzio
dove natura è più forte,
operi come la morte
dove immortale è il pensiero.
Oh, lava e scarnifica e spazza
chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:
sgrumando la lugubre scoria
che c’inviliva alla gente,
snuderai l’oro e la gloria
che non si vendon né recan piacere,
ma splendono d’un balenìo
che irraggia invisibile sugli altri con Dio.

Viatico
O ferito laggiù nel valloncello,
tanto invocasti
se tre compagni interi
cadder per te che quasi più non eri.
Tra melma e sangue
tronco senza gambe
e il tuo lamento ancora,
pietà di noi rimasti
a rantolarci e non ha fine l’ora,
affretta l’agonia,
tu puoi finire,
e conforto ti sia
nella demenza che non sa impazzire,
mentre sosta il momento
il sonno sul cervello,
lasciaci in silenzio –
grazie, fratello.