Carlo Betocchi è nato a Torino nel 1899 ed è vissuto, con alcune parentesi di lavoro a Trieste Bologna e Roma, prevalentemente a Firenze. È morto nel 1986 a Bordighera. Con Piero Bargellini, Nicola Lisi e l’incisore Pietro Parigi, nel 1929 aveva fondato “Il Frontespizio”, la rivista d’ispirazione cattolica più nota negli anni del fascismo, per le cui edizioni venne pubblicata la sua prima raccolta di liriche: Realtà vince il sogno (1932). Seguono nel tempo Altre poesie (1939), Notizie di prosa e poesia (1947), L’estate di San Martino (1961), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980) e Tutte le poesie (Mondadori, 1984). Era responsabile di redazione della trasmissione radiofonica RAI L’Approdo e collaborava a varie riviste, tra cui “La Chimera”, “La Fiera letteraria” e “L’Approdo letterario”. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti: il Premio Feltrinelli per la poesia assegnatogli dall’Accademia dei Lincei, il Premio Viareggio (1955) e il Premio E. Montale» – Librex (1984).

http://www.centrocarlobetocchi.com/Homepage.htm

https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Betocchi

 

POESIE

Dell’ombra
Un giorno di primavera
vidi l’ombra di un’albatrella
addormentata sulla brughiera
come una timida agnella.

Era lontano il suo cuore
e stava sospeso nel cielo;
nel mezzo del raggiante sole
bruno, dentro un bruno velo.

Ella si godeva il vento;
solitaria si rimuoveva
per far quell’albero contento
di fiammelle, qua e là, ardeva.

Non aveva fretta o pena;
altro che di sentir mattino,
poi il suo meriggio, poi la sera
con il suo fioco camino.

Fra tante ombre che vanno
continuamente, all’ombra eterna,
e copron la terra d’inganno
adoravo quest’ombra ferma.

Cosí, talvolta, tra noi
scende questa mite apparenza,
che giace, e sembra che si annoi
nell’erba e nella pazienza.

Il dormiente
Io mi destai con un profondo
ricordo del mio sonno.
Dalla mia veglia guardavo
il mio corpo dormiente,
era giorno, era un chiaro
giorno silente.

Quando le sere d’estate
esalan profumate
tenebre sul fiume, un uomo
giace sopra la riva
addormentato dal suono
dell’onda viva.

Passano sopra il suo viso
l’ombre del paradiso
lunare, tra i flessuosi
salici e il lieve vento;
celano gridi amorosi
l’erbe d’argento.

Vento e prati fluttuando
muoiono con un blando
fiotto e là, presso il suo corpo,
come a un’isola viva
da un mare languido e smorto
il flutto arriva.

Presso il suo corpo si rompe
quell’ineffabil fonte;
e il suo respiro leggero
di creatura che dorme
scioglie nell’etereo cielo
azzurre forme.

Un dolce pomeriggio d’inverno
Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce
perché la luce non era piú che una cosa
immutabile, non alba né tramonto,
i miei pensieri svanirono come molte
farfalle, nei giardini pieni di rose
che vivono di là, fuori del mondo.

Come povere farfalle, come quelle
semplici di primavera che sugli orti
volano innumerevoli gialle e bianche,
ecco se ne andavan via leggiere e belle,
ecco inseguivano i miei occhi assorti,
sempre piú in alto volavano mai stanche.

Tutte le forme diventavan farfalle
intanto, non c’era piú una cosa ferma
intorno a me, una tremolante luce
d’un altro mondo invadeva quella valle
dove io fuggivo, e con la sua voce eterna
cantava l’angelo che a Te mi conduce.

Ora ad altre speranze
Ora ad altre speranze ecco si leva
non veduta la luna
e il cieco sguardo mio di cruna in cruna
delle finestre mena

come a spente farfalle,
ed alle assurde mura
trasumanate come aperta valle
da un riflesso di luna.

E le attese e gli eventi
nell’alzato mio volto errano un poco
sostando e dubitando eguali al fioco
sospirare dei venti,

e in me è tutt’uno
l’animo e questo moto, incerto e bruno.

Rovine
Non è vero che hanno distrutto
le case, non è vero:
solo è vero in quel muro diruto
l’avanzarsi del cielo

a piene mani, a pieno petto,
dove ignoti sognarono,
o vivendo sognare credettero,
quelli che son spariti…

Ora spetta all’ombra spezzata
il gioco d’altri tempi,
sopra i muri, nell’alba assolata,
imitarne gli incerti…

e nel vuoto alla rondine che passa.

L’ultimo carro
Prima che l’alba sfarfalli,
dentro un suono di sonagliere
l’ultimo carro a cavalli
passa, al grido del carrettiere.

Terribilmente giocondo
è questo suon di sonagliere
squillante nel buio mondo
al grido aiuh! del carrettiere.

Sveglia chi deve svegliare,
il can del giardino di rose,
il gallo che sa cantare,
le lavandaie, belle spose.

Entrando nella farina
sveglia il pane, fin dentro il forno,
squillasse in campi di brina,
di pane riempirebbe il mondo.

Passando a una casa gialla
che l’uomo dice inabitata
turba un’occulta farfalla
dentro un solaio addormentata.

Va il suo cavallo mancino
con una zampa chiotta chiotta:
sovra il lastrico, argentino
il cavallo manritto schiocca.

L’ultimo carro a cavalli
passa al grido del carrettiere,
con strepitosi sonagli,
avanti l’alba, in strade nere.

Della solitudine
Io non ho bisogno
che di te, solitudine;
alta, solenne, immortale,
dove piú nulla è sogno.

In questo deserto
attendo l’implacabile
venuta d’un’acqua viva
perché mi faccia a me certo.

Se trionfa il sole
o la luna impassibile
il loro lume fluisce
come vuole nel mio cuore.

E godo la terra
bruna, e l’indistruttibile
certezza delle sue cose
già nel mio cuore si serra:

e intendo che vita
è questa, e profondissima
luce irraggio sotto i cieli
colmi di pietà infinita.

La Pasqua dei poveri
Forse per noi che non abbiam che pane,
forse più bella è la tua Santa Pasqua,
O Gesù nostro, e la tua mite frasca
si spande, oliva, nelle stanze quadre.

Povero il cielo e povere le stanze,
Sabato Santo, il tuo chiaror ci abbaglia,
e il nostro cuore fa una lenta maglia
col cielo, che ne abbraccia le speranze.

Semplice vita, alle nostre dimande
tu ci rispondi: Su coraggio andate!
Noi t’ubbidiamo; e questa povertà
non ha bisogno più d’altre vivande.

Noi siamo tanti quanti alla campagna
sono gli uccelli sulle mosse piante,
cui sembra ancor che le parole sante
giungan col vento e l’acqua che li bagna.

A noi, non visti, nelle grigie stanze,
miriadi in mezzo alla città che fuma,
Sabato Santo, la tua luce illumina
solo le mani, unica festa, stanche.

A noi la pace che verrà, operosa
già dentro il cuore e sulla mano sta,
che ti prepara, o Pasqua, e che non ha
che il solo pane per farti festosa.

Il cacciatore d’allodole
In una valle che matura al sole
mille diletti all’estuoso fiume
io andavo un giorno cacciando l’allodole.
A fior del greto, nascevano brune
a forza d’ali, e afferrate dall’aria
mi mostravan nel petto bianche piume.
Incerte, sopra il verde che le ammalia,
e non certe di me, parevan dirmi,
volando e rivolando: – Abbi pietà
di noi che andiamo cantando i nostr’inni:
ma più cercando, come alati arrnenti,
quiete pasture nei vostri confini.
Spesso, senza vederle, nei silenzi
del vento udivo i richiami improvvisi
che l’un l’altro facevano; ma uccelli
d’altra razza saetta vano decisi;
poi vedevo una coppia fremer alta
dall’ali aperte piovendo quei gridi.
La canna del fucile al sol rigava
d’un minuscolo lutto la campagna
che quei sottili canti nevicava.
– Poche allodole, in questa valle bagna,
a notte, la rugiada – e tra le stoppie
magre, guardavo, che il fiume guadagna.
Ecco, cosi pensando, e non a coppie,
dispari, a branchi, da liberi uccelli
come son questi, svolavano allodole.
Una, con volo incerto, come quegli
esseri in cui segreta si consuma
la morte ancora sui biondi capelli,
veniva quasi attratta dalla cruna
danzante della mira del fucile
sempre più tonda nella dolce piuma.
Le vidi a un tratto sull’ali fiorire
un bianco acuto come un fior di spina
poi nel mio cuore la sentii sparire;
precipitò, come fa la mattina
che rotea di tra i rami sopra il fiume,
e cadde tra le zolle a me vicina,
mescolando le dure ali e le piume.
La guardo ancora, che il vento le aduna
poco respiro sul petto, e l’assume.