Bruna Dell’Agnese è originaria di Borgomanero in Piemonte, ma viveva a Milano, è scomparsa nel 2017. Le sue raccolte di poesia: Stanza Occidentale (presentazione di Attilio Bertolucci, 1985), Bassa marea, Correndo l’anno, Nel fruscio del quotidiano, Gli improbabili confini (2004), ricapitolate nel volume Sul confine del tempo-Poesie 1985-2009 (Moretti & Vitali, 2011). È stata anche traduttrice di poeti: accanto alle poetesse del romanticismo inglese (Bronte, Barrett Browning, Dickinson), Poe e poeti contemporanei come Charles Tomlinson o Miklos Radnoti). Ha pubblicato anche una raccolta di saggi dal titolo Il teatro dell’assenza (Moretti & Vitali, 2007), la raccolta di racconti Il messaggero del Prado (Greco & Greco, 2009) e un saggio sul Lago d’Orta: Lago d’Orta, scrigno di luci (Alberti, 2006), illustrato dal pittore Carlo Rapp.

POESIE

da STANZA OCCIDENTALE

Il Cerchio
E proprio dell’amore essere centro
e insieme circonferenza. Lei, perno
fisso girando solamente su se stessa
e più dentro affondando le radici nel

suolo. Lui, l’asta che camminando in
tondo (e in fondo senza troppo scostarsi)
traccia la sua tersa circonferenza. E
sono due in uno.

Ma io da sola sono perno e asta
e roteando su me come il pupazzo nella
Giostra del Saraceno traccio col braccio
teso nell’aria un vuoto cerchio. (E mi

deriva solo dall’urto il moto).
Roteando veloce allora scopro che il giuoco
è proprio questo, questo colpirmi
mentre sto infissa a terra. E mi rigiro nel mio
cerchio vuoto.

Stevenson
Dietro le spalle chilometri di onde
rotte sbagliate scie illuminate ma
ingannevoli, traversate a fari spenti
tra muri di ombre continuamente
moltiplicate.
Davanti le isole, così simili le une
alle altre; pió gradevoli alcune per
uccelli e palmizi, altre più severe ma
attraenti nei profili corrosi dalle
nuvole.
Sbarcare era adesso la questione, non
sbagliare, non confondere senza sapere
come, sassi con ghinee. Cercare, scavare.
Ma c’era poco tempo per pensare per
ricordare
la mappa barattata giù al porto con
troppa leggerezza per qualche carezza
per un bacio.

Le quattro porte
Così abbatterono le quattro porte:
la prima fu la porta antica quella
rivolta a sud che si chiudeva ombrosa
sull’arsura di luglio.
Poi demolirono, insieme con le mura,
la scolorita porta orientale che
ogni giorno aveva roso i cardini
per far entrare l’alba.
La porta occidentale che accostava
i suoi battenti al cielo fu devastata
dalle sentinelle che si erano stancate
di vegliare.
E la porta del nord, barriera alle correnti
che spossavano chiunque osasse fermarsi
a un crocevia, crollò da sola. Allora
i venti irruppero
nella città indifesa. Si spensero le
lampade presso le lapidi e le piogge
battenti sopra i contrafforti, cancellarono
rapide
anche il nome dei morti.

Gli occhi della civetta
Nel buio fari abbaglianti attenti
captanti ogni ombra nell’ombra delle
piante ogni stelo che minimo si chini
sopra ogni altro stelo, che disegni
una foglia che si incrini per un
istante.

Occhi attenti ad ogni indizio ogni
trasalimento
ogni incontro attutito sul pavimento
del bosco
ogni fruscio sospiro mutamento forse
dovuto a un sogno impreciso di lotta
ieri avvenuta o solo temuta, domani.
Ogni respiro nell’erba.
Gli occhi della civetta. Gli attenti
occhi di Minerva privi di lacrime
turbamenti brame, spalancati sulla
notte
sulle ore interrotte della paura dove
stanno insicure e tiepide, le tane.

Nel Finale del Tempo
Discendendo dal nord il viaggio
ci era stato facilitato
da un rondone incontrato sulla
pianura, da un’insicura carovana
di girovaghi provenienti dal sud
e da altre minime indicazioni di
bel tempo.

L’Appennino ci confuse con nevi
primaverili che si mischiavano alle
foglie come lacrime sopra un volto
acerbo.
Ma poi che ci allontanavamo
dall’inverno, le ginestre – dentro
valli più chiare – accennavano con
ammiccamenti
come di luci accese, a finestre già
aperte
a barche protese verso il mare.

Ma il porto era deserto
nel finale del tempo della partita
e, respinti dalle onde che rotolavano
sul molo, noi aprimmo a stento
sopra un interno d’ombre, una porta
incerta e un po’ sbiadita e come
intimidita
dal vento.

Oggi, probabilmente
Se voi non foste morti banalmente
– così come si muore –
inchiodati all’ipodermoclisi e con
gli occhi rivolti alla finestra dove
si scorgono fiori e sono solamente gocce
di umidità
o se, giunti sulla soglia della casa
in attesa, con quella lampadina che era
rimasta accesa, non l’aveste scambiata
con l’inesausta luce
dell’eternità,
se voi non foste morti tanto rapidamente
oggi, con la sonorità di un clacson giù
al cancello, mescolando il mio nome
con il canto dell’uccello che abita il viale
probabilmente voi mi avreste chiamata
perchè io scendessi in giardino
tra il pericolante rosa del pesco
e l’assolata giunchiglia, e così invitata
alla festa di aprile
oggi probabilmente sarei scesa.

Insieme avremmo preso il tè seduti sulle
seggioline bianche parlando del più
e del meno, così come si usa un poco
banalmente, facendo sempre una certa confusione
con il latte e il limone. Probabilmente
avreste ripetuto che io piango e rido
di nulla che sulla terra l’inquinamento cresce
che a stento si riesce a parcheggiare
che bisogna darsi da fare per non restare
indietro.
Sapientemente avreste anche divinato il
mio futuro ‘Ogni domani affonda nel passato
le sue radici, negli amici l’amore’.
E sull’illuminato verde del giardino
– dimenticando l’ombra – il cuore giustamente
interpellato avrebbe sentito farsi
più vicino : il tempo delle rose e del vino,
che stoltamente la morte ha dissipato.

da VUOTO IN GIARDINO

Il bosco in prigionia
Al bosco hanno applicato dei cancelli
ma gli alberi – disarmato stuolo –
si staccano dal suolo
dove sono confitti e salgono
diritti verso il cielo
stormendo in alto con un principio
irresistibile di volo.
Ciò disorienta gli uccelli
che se ne vanno altrove, ma qualcuno,
restando, crede di capire in quel loro
stormire, in quel tendere d’ogni foglia
o ramo al più lontano cielo, oltre
il consueto velo della nebbia, oltre,
l’audacia di certe nubi o pioggia,
che giù fin dalla roggia scura
dove la radice affonda
si nasconda questo sogno d’aria,
questa sete di altezza
che la brezza alimenta come un segno
ben chiaro, un preciso progetto
attuato di gradino in gradino,
di ramo in ramo, pió in alto
e sempre più leggero,
per cui l’antico tronco si diffonde
in rivoli traccianti una vaga orma
nell’aria; come un’arte nuova,
una storia inedita, o come
un pensiero
che si muti lentamente in forma.

Fine dell’inverno
Sosta sul tetto pallido dell’est
il giorno,
come un ricordo intorpidito indugia
a volte tra le pieghe del cuore.
A sera, un ingrigito stupore
si attarda fra attorti rami e ferri
aggrovigliati, dove accigliati lumi
si impigliano, quasi uccelli
che abbiano perduto la memoria
del volo.
Nel deserto che invade la piazza
un riferimento certo: la tua infelicità
che si fa adulta negli anni e cresce
calando l’ovest, e dura
nel mattino diverso.
Perdura, oltre le canne di bambù
e il loro fragile tetto – cui a due a due
vennero le tortore come a un richiamo –
un cielo vasto.
Che apparve un giorno a chi moriva
troppo alto e perfetto
troppo lontano.

Venditrici di miele
Noi vivevamo a mezza costa,
non lontano dalle vette dei monti
e dal fondo ombroso delle vallate,
non negletti quindi dagli dei
e non eccelsi.
Ai cancelli, dopo il viale di gelsi,
si affacciavano donne con le gerle
colme di vasi di miele e di favi
fragranti, che, nell’inverno,
ci avrebbero curato le afflizioni
del gelo.
Come scendono dal cielo le piogge
rinfrescanti, scendevano dalle capanne
lontane con il passo leggero, stretto
nelle lane che loro stesse avevano
filato.
Ci chiamavano dal prato, offrendoci
dolcezze sulla soglia di casa.
Ci invitavano festanti,
come fanno i sogni, dalla soglia
dell’alba.
Noi sostammo, esitanti; lasciammo
che le venditrici se ne andassero
in altre case, piu avanti, più lontano.
Erano senza ritorno. Noi
non lo sapevamo.

Segnale notturno
Come se le stelle fossero state sciami
di fredde biglie oscillanti
sul piano inclinato del cielo, pronte
a piombare in vitrea grandine sul tetto.
Dentro al netto confine
vigilato da cipressi, vegliavano ombre più nere,
ritte, austere sentinelle sigillate dentro
il loro mantello notturno.

Sul crinale nitido dei colli, la luna
era l’atteso, taciturno segnale. Poi
un cancello stridette. E tra le case
perdute sulle vie maestre
passò il volo delle civette e il loro
grido,
quasi un sasso, scagliato contro il caldo
torpore
delle finestre.

Case d’ombra
Le nostre; e chiusi dentro noi
mentre di là dalle finestre naviga
l’estate con tutte le sue flotte.
Le soglie, sbarrate da un’ombra
che indugia su di noi
come sopra un esitante stormo
la notte.
Quali porte apriremo ora sull’estate
eterna con api e fiori,
quali porte, se non riconosciamo più
forme e colori?
Quali danze faremo, se non abbiamo
piedi per ballare e dita
che inseminino i cieli con il volo
di teneri soffioni?
Noi, che non abbiamo sogni e stiamo
chiusi dentro case d’ombra
che non hanno porte, nè stanze dove
si ascolti un canto. O dove
suoni il suo cembalo d’aria
il folle, il santo.

L’ospite
A un tratto entrerà nella mia casa
come un estraneo, no, come un padrone;
varcherà cancelli smuoverà serrature
chiavistelli, e, fra le ombre immobili
del tempo, sarà una luce nuova che io
non conosco, che seguirà i suoi anni
distanziati dai miei, come i cicli
anulari dai pianeti.
Un futuro che ignoro non avrà segreti
per chi penserà ai miei giorni come
ai ricordi di una sfocata infanzia, e
– guardandosi attorno nella mia stanza –
dirà: “Occorre darle aria”. E lo farà,
senza che io, ormai alleata del gelo,
dal mio letto gli dica, un poco autoritaria:
“Chiudi, che sento freddo”.

da BASSA MAREA

Nella Serra
Come se all’improvviso altro tempo
fosse ritornato e la memoria
sollecitata da immotivata ilarità
fuori dal buio liberasse i ricordi,
come fanno i soffioni coi loro semi
alati. I vestiti, gonfi di un vento quasi
primaverile, tramutati in vele navigavano
verso l’aprile e le sue verdi feste.
Senza proteste accettavamo anche
le dita moleste del gelo.
Alti, con ampie gonne colorate,
dalla serra i tulipani chiamavano
con vocine leggere.
Il luminoso intervallo allentava
l’assedio, ma sugli archi le frecce
brillavano severe.

Good day sunshine
Com’è chiaro il dicembre, qui da noi;
con la sua lama precipitante verso
il solstizio ultimo e primo
per separare la fine dal principio.
E luci, luci rimbalzanti dai quattro
punti cardinali, quasi segnali
festosi; e stelle stelle la sera
ansiose d’essere puntuali,
– non così quelle estive, più
indolenti -.
L’alba a lungo indugia, più pietosa,
e chiede tregua al giorno,
prima degli avvenimenti.

Passaggio segreto
Parole d’amore e di preghiera,
come inutili monete fuori corso,
giacciono nel giardino sfiorito
dove le abbiamo abbandonate.
Ma quel luogo dimenticato, aperto
al vento; quel luogo inspiegato
e il momento che sussiste inalterato
al di là di macerie di memorie,
dischiusero per noi, smarriti eredi
del quotidiano, un passaggio segreto,
imprevedibile, insperato.

Ultimo mattino
Venne avanti su per la collina
col suo volto di adolescente pronto
a mentire; e nella gola canti
che gli uccelli provarono a ridire
modulando note e note.
Del ragazzo aveva le gote piene,
gambe scattanti, le vene giovani
e denti balenanti.
Coi suoi passi di primo ballerino
che sopra il palcoscenico del cuore
sappia scandire ritmi entusiasmanti,
venne avanti, – e nessuno di noi potè
fermarlo, – il nostro ultimo
giovane mattino.

Bassa marea
Si ritirava davanti a me e rifuggiva
dalle mie braccia nude il nostro mare.
Irraggiungibile per una marea lunare
che l’attraeva a sé su un’altra riva.

Non potendo affondare riemergere
o nuotare, io non giungevo più ad alcuna
sponda. Fuggendo così lontana da noi
la nostra onda, la grande strada d’acqua
diventava palude.

da CORRENDO L’ANNO

La gioia degli uccelli
Ci è caduta addosso all’improvviso
la gioia degli uccelli:
scoperte amori e la quiete dopo
sotto la gronda. E canti lunghi
che vincono il chiasso dei motori.

Geometrie di luce con le remiganti
ricolme d’aria fanno lievitare
le opache forme di pietra dove
viviamo.
Quasi che la città, sciolti i suoi
nodi, si alzasse in piedi per spiccare
il volo.

Il cielo
Trascolorando in aria e nuvole
o in sciami di stelle forse
già naufragate e tuttavia
isole di luce;
fiume di gloria, vasto sterminato,
il cielo riceve ogni nostra
preghiera, ogni sconfitta e anche
ogni vittoria.
Il cielo tutto accoglie, muto,
e non ne trabocca. Le sue ardenti
sfere non si sciolgono dagli
antichi abbracci;
troppo esile, il nostro triste
infinito non lo tocca. Indifferenti,
gli astri incandescenti non vanno
alla deriva:
greggi silenti sfilano, ordinati,
arcani armenti che vincastri di luce
guidino nel buio. Assente ogni
clamore o affanno
vanno, e si raccoglie nella loro scia
scrutato e incompreso l’universo.
Vanno nel buio, portando come lucciole
la propria luce.
Ma forse, anche meno delle lucciole,
lo sanno.

Quando venne l’estate
Per un cancello piccolo, quasi
una fessura intagliata in un tronco,
passò l’estate.
Nessuna, fra le molte persone
assiepate ai lati della strada,
fu ben certa di averla veduta
benchè ognuno fosse da mesi all’erta.
Fino a che, sparpagliando verde su verde
fra foglia e foglia,
e immettendo in ciascun ramo
una gran voglia di mutarsi
in flautato strumento, fu dappertutto,
come un ragazzo felice e disordinato
che fischiettasse nel vento.

Giugno di mattina
Quando ho toccato con mano l’eternità,
e le sue porte si sono spalancate
sopra foreste chiare abitate da
divinità vestite da bambina, io mi ricordo
fu una mattina di giugno.
Non c’era nessuno all’incrocio della
strada di collina con la pianura
solcata da ruscelli che, tra le dita,
formavano mulinelli di seta pura.

Nessun mistero nel cielo bianco: solo
la luce come una vela che salisse
da oriente. E niente impediva di pensare
la vita come un gioco fra una bambina
e gli dei. Un gioco allegro, festoso
che non conoscesse sosta né riposo.

Racconto d’estate
Andavo da un giardino all’altro
come il vento senza confini,
o l’ape, che nessuna siepe arresta
se un profumo l’attragga a sé
su un’altra sponda. ( In basso
il mare era, come nelle favole,
un’onda di pura luce).

Così accade nei miti:
passavo da un giardino all’altro
per cancelli un poco arrugginiti
sui cardini; e, come l’aria, invisibile,
sostavo con gli amici seduti
a chiacchierare e a bere vino.

Col suo battito d’ala la vita,
(o era la morte?) passava in silenzio
lì vicino.

Nel segno della bilancia
Disfiorandosi la siepe settembrina
con i suoi occhi dalle ciglia stanche,
nell’avviarmi al triste appuntamento
coi miei morti ravvolti nella brina,
là, alla svolta di novembre, così amara,
io tenni fra le mani la bilancia
ottobrina.
Di qua gli anni le lacrime le attese;
di lì l’attimo il brivido la gioia,
mio trascurato amante. Volevo misurare
la felicità, e la trovai mancante.

Sbagliai così
Storditamente andavo raccogliendo
da paradisi alati piume variopinte
per farmene un uccello. Ma quando
al davanzale, al mio trastullo esotico
dissi: vola! già nel cortile cadde
senza un grido.
Umilmente ora, io mi inginocchio
ai passeri, i sopravissuti dell’inverno.
E nel prodigio di quelle ali vive
mi inizio
ai segreti del volo.

POESIE INEDITE

I duellanti
Ci fossimo mai sfiorati, noi
duellanti senza misericordia,
che mangiavamo ogni giorno
il pane della discordia
e bevevamo veleno.

Noi, corazzati dietro le porte chiuse,
assediati dagli anni dalle cose che
ci guardavano senza intervenire,
le cose mute, pazienti, che ci vedevano
morire.

Avessimo, mentre oltre le sbarre
il sole scoloriva, deposta la spada,
le visiera, l’abito di ferro, e piano,
ci fossimo almeno sfiorati con la mano
sulla pelle nuda.

Cattedrali del duemila
Splendidi gusci ma di conchiglie
morte, adagiate su torbidi fondali.

E noi, giunti per disuguali percorsi,
accampati come soldati ubriachi

dentro sacri recinti che videro
– oltre notturne porte dischiuse

per preghiere oggi dimenticate –

sorgere dei e dee dispensanti
grazie doni e, forse, felicità.

Incapaci oramai di decifrare
i nostri e gli altrui sogni,

noi, tra stipiti violati, scorgiamo
solamente l’oscurità che preme.

Cielo inquinato
Ma, quando l’ultima auto scompare
dietro la tenda della notte
e il metronotte ha finito il suo giro.

Quanda l’ultimo urlo di sirena tace
e il primo è ancora nel futuro.
Quando la strada finalmente sgombra
ridona libertà alla prostituta,

e quando infine il sonno vince anche
la sentinella sulle mura.
Quando nell’ombra i delitti son compiuti
e l’assassino già si lava le mani,

quando dalla sua antenna il cantore
del giorno sta per togliere la benda
dagli occhi del mattino, allora
come un soffio leggero dentro il cielo
inquinato, passa l’angelo dimenticato
della speranza.