Ardengo Soffici nasce a Rignano sull’Arno (Firenze) nel 1879, muore a Forte dei Marmi (Lucca) nel 1964. I primi studi sono indirizzati verso l’arte, attraverso la pittura entrando in contatto con il mondo della cultura, e come autodidatta diventa scrittore. Si trasferisce a Parigi, dove vive tra il 1899 e il 1907 e dove conosce Apollinaire, Max Jacob, Picasso. In Italia partecipa al movimento della rivista “Leonardo” e collabora alla “Voce”, dove pubblica una monografia su Rimbaud e un violento attacco al Futurismo, diventando in seguito un seguace di Marinetti. Nel dopoguerra è uno dei più decisi fautori del ritorno all’ordine sia come pittore che come poeta. Le sue raccolte: Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici (1915), Elegia dell’Ambra (1927), Marsia e Apollo (1938),Thréne pour Guillame Apollinaire (1927). Tra i suoi numerosi libri di narrativa e prosa: Ignoto toscano (1909), Lemmonio Boreo (1912), Arlecchino (1914), La giostra dei sensi (1918), Rete mediterranea (1920), Taccuino di Arno Borghi (1933), Ritratto delle cose di Francia (1934), Itinerario inglese (1948), D’ogni erba un fascio. Racconti e fantasie (1958).

https://it.wikipedia.org/wiki/Ardengo_Soffici

http://www.treccani.it/enciclopedia/ardengo-soffici/

 

POESIE

Arcobaleno
Inzuppa 7 pennelli nel tuo cuore di 36 anni
finiti ieri 7 aprile
e rallumina il viso disfatto delle antiche stagioni.

Tu hai cavalcato la vita come le sirene nichelate
dei caroselli da fiera in giro,
da una città all’altra di filosofia in delirio,
d’amore in passione di regalità in miseria:
Non c’è chiesa, cinematografo, redazione o
taverna che tu non conosca;
tu hai dormito nel letto d’ogni famiglia.

Ci sarebbe da fare un carnevale
di tutti i dolori
dimenticati con l’ombrello nei caffè d’Europa,
partiti tra il fumo coi fazzoletti negli sleeping-cars
diretti al nord al sud
paesi ore.

Ci sono delle voci che accompagnan
dapertutto come la luna e i cani;
ma anche il fischio di una ciminiera
che rimescola i colori del mattino
e dei sogni
non si dimentica nè il profumo di certe notti
affogate nelle ascelle di topazio.

Queste fredde giunchiglie che ho sulla tavola
accanto all’inchiostro
eran dipinte sui muri della camera n.19 nell’Hotel
des Anglais a Rouen
un treno passeggiava sul quai notturno
sotto la nostra finestra
decapitando i riflessi delle lanterne versicolori
tra le botti del vino di Sicilia
e la Senna era un giardino di bandiere infiammate.

Non c’è più tempo:
lo spazio
è un verme crepuscolare che si raggricchia
in una goccia di fosforo
ogni cosa è presente:
come nel 1902 tu sei a Parigi in una soffitta,
coperto da 35 centimetri quadri di cielo
liquefatto nel vetro dell’abbaino;
la Ville t’offre ancora ogni mattina
il bouquet fiorito dello Square de Cluny;
dal boulevard Saint-Germain scoppiante
di trams e d’autobus,
arriva la sera a queste campagne
la voce briaca della giornalaia
di rue de la Harpe:
«Pari-curses», « l’Intransigeant» «La Presse».
Il negozio di Chaussures Raoul fa
sempre concorrenza alle stelle:
e mi accarezzo le mani
tutte intrise dei liquori del tramonto
come quando pensavo al suicidio
vicino alla casa di Rigoletto.

Sì caro!
L’uomo più fortunato è colui che sa vivere
nella contingenza al pari dei fiori.

Guarda il signore che passa
e accende il sigaro orgoglioso della sua forza virile
ricuperata nelle quarte pagine dei quotidiani,
o quel soldato di cavalleria galoppante
nell’indaco della caserma
con una ciocchetta di lillà fra i denti.

L’eternità splende in un volo di mosca.
Metti l’uno accanto all’altro i colori dei tuoi occhi;
disegna il tuo arco
la storia è fuggevole come un saluto alla stazione;
e l’automobile tricolore del sole batte sempre più invano
il suo record fra i vecchi macchinari del cosmo.

Tu ti ricordi insieme ad un bacio seminato nel buio,
una vetrina di libraio tedesco Avenue de l’Opéra,
e la capra che brucava le ginestre
sulle ruine della scala del palazzo di Dario a Persepoli.
Basta guardarsi intorno
e scriver come si sogna
per rianimare il volto della nostra gioia.

Ricordo tutti i climi che si sono carezzati
alla mia pelle d’amore,
tutti i paesi e civiltà
raggianti al mio desiderio:
nevi,
mari gialli,
gongs,
carovane;
il carminio di Bomay e l’oro bruciato dell’Iran
ne porto un geroglifico sull’ala nera.
Anima girasole il fenomeno converge
in questo centro di danza;
ma il canto più bello è ancora quello dei sensi nudi.

Silenzio musica meridiana,
qui e nel mondo poesia circolare
l’oggi si sposa col sempre
nel diadema dell’iride che s’alza.
Siedo alla mia tavola e fumo e guardo:
ecco una foglia giovane
che trilla nel verziere di faccia,
i bianchi colombi volteggiano per l’aria
come lettere d’amore buttate dalla finestra.

Conosco il simbolo la cifra il legame
elettrico,
la simpatia delle cose lontane;
ma ci vorrebbero della frutta
delle luci e delle moltitudini
per tendere il festone miracolo di questa pasqua.
Il giorno si sprofonda
nella conca scarlatta dell’estate;
e non ci son più parole
per il ponte di fuoco e di gemme.

Giovinezza tu passerai
come tutto finisce al teatro,
Tant pis! Mi farò allora un vestito
favoloso di vecchie affiches.

Aeroplano
Mulinello di luce nella sterminata freschezza
zona elastica della morte
Crivello d’oro girandola di vetri venti e colori
Si respira il peso grasso del sole
Con l’ala aperta W Spezia 37 sulla libertà
La terra ah!case parole città
Agricoltura e commercio amori lacrime suoni
Fiori bevande di fuoco e zucchero
Vita sparsa in giro come un bucato
Non c’è più che una sfera di cristallo carica di silenzio
esplosivo enfin
Oggi si vola!
C’è un allegria più forte del vino della Rufina
con l’etichetta del 1811
È il ricordo del nostro indirizzo
scritto sul tappeto del mondo
La cronaca dei giornali del mattino e della sera
Gli amici le amanti e perpetuità il pensiero
strascinato nei libri
e le mille promesse
Cambiali in giro laggiù nella polvere e gli sputi
Fino alla bancarotta fraudolenta fatale per tutti
Stringo il volante con mano d’aria
Premo la valvola con la scarpa di cielo
Frrrrrr frrrrrr affogo nel turchino ahimè
Mangio triangoli di turchino di mammola
Fette d’azzurro
Ingollo bocks di turchino cobalto
Celeste di lapislazzuli
Celeste blu celeste chiaro celestino
Blu di Prussia celeste cupo celeste lumiera
Mi sprofondo in un imbuto di paradiso
Cristo aviatore era fatto per questa ascensione
di gloria poetico-militare-sportiva
Sugli angoli rettangolari di tela e d’acciaio
Il cubo nero è il pensiero del ritorno che cancello con
la mia lingua accesa e lo sguardo di gioia
Dal bianco quadrante dell’altimetro rotativo
Impennamento erotico fra i pavoni reali delle nuvole
Capofitto nelle stelle più grandi color rosa
Vol planè nello spazio-nulla

Mattina
La luce non è che un mazzolino di fiori più sottili;
un ronzio di mosche d’oro e verdi il cielo.
Senza questo pardessus  parigino si potrebbe ballare;
a tutti i piani c’è la musica come in paradiso.
Una signora vestita del tricolor dell’Italia
nelle cromolitografie patriottiche
evade verso l’oriente:
Jamais je ne voudrais ètre son chien!
Piuttosto piangere di tenerezza
sul miracolo della gente che risuscita ogni giorno
in questo enimma universale, che piglia per un almanacco
e passa;
e passa con la tranquillità dei giovenchi.
Ah! noi moriremo per aver troppo amato le cose da nulla.
L’aria d’anilina mi bagna come una camicia tuffata
nel turchinetto.
Vedo tutto:
Il baccalà che sperimenta il Nirvana fiorito di pomodori
nelle zangole azzurre;
L’ombra delle grondaie abbassate sugli occhi glauchi
delle persiane;
Le ombre degli uomini che si sprofondano
nella terra trasparente.
E a un tratto capisco questo assioma: ogni nuova civiltà
nasce dal riso dei bambini.
Il timpano del sole batte sullo specchio del parrucchiere
per farmi sorridere;
ma non si può che seguire in silenzio la freschezza delle ore.

(I miei capelli sono sinistri!)

Poesia
Un solo squillo della tua voce senza epoca
e tutte le gioiellerie di questo crepuscolo
rassegnato in pantofole si mettono
a lampeggiare creando un gioco nuovo.
Un’ala inzuppata d’azzurro tacita gli spleens
il nerofumo di tante ritirate prima del corpo a corpo
fuori de’ geroglifici delle metafisiche acerbe.
Si direbbe che non siamo mai morti.
Questi pallidi vermi sarebbero dei capelli biondi
e le vecchie ironie una menzogna di rèclames
fiorite sui muri del sepolcro.
Un solo giro dei tuoi occhi d’oro
(non parlo a una donna) e addio dunque
l’aspettativa di riposo e il tramonto
metodico e la saggezza diplomatica
delle liquidazioni amorose
Di nuovo eccoci fra la gioventù
de’ verdi infranti de’ frascami stemperati
nelle nudità primitivismo abbrividito
lungo queste striature d’acque rosa e blu
rifluenti a un riflesso di mammelle e di sole
in un diluvio di violette gelate.
Le luci le sete l’elettricità degli antichi sguardi idilli
irreperibili dimenticati co’ vini e i paradossi.
Scienza laboriosa! Arcobaleno che rotea
e ronza con una diffusione di
prismi come nelle creazioni
Si ricomincia Città campagne e cuore. È la vita
davvero. A quando la fanfara idiota
delle fantasmagorie in maschera
nel trotto buio delle diligenze?
Addio mia bella addio
o non è ancora che una farsa povera
nello scenario a perpetuità delle stelle
oscillanti su questa casa d’illusioni
creduta chiusa e aperta forse a tutto?