Antonella Rizzo è nata a Roma nel 1967 da genitori calabresi di origine arbëreshe e vive ad Aprilia in provincia di Latina. È laureata in Scienze Pedagogiche. Poeta, performer, giornalista, docente, attiva nella promozione dell’intercultura e della letteratura di genere ha pubblicato: Il sonno di Salomè (Tracce, 2012), Confessioni di una giovane eretica (Lepisma, 2013, silloge vincitrice del Premio 13, prefazione di Rocco Paternostro), Cleopatra. Divina Donna d’Inferno (Fusibilia Libri, 2014, prefazione di Claudio Giovanardi e postfazione di Luca Attenni), Iratae (Fusibilia Libri, 2015, con Maria Carla Trapani, poema poetico teatrale), Plethora (Nuove Edizioni Aldine, 2016, prefazione di Antonio Veneziani), Lettera di Ipazia a Teone (Fusibilia Libri, 2017),  A dimora le rose. Storie di donne infedeli al destino (Edizioni Croce, 2018), A quelli che non sanno che esiste il vortice (Lavinia Dickinson, 2019). Ha curato il volume di haiku Come fiori di ciliegio (Fusibilia Libri, 2014, nato da un laboratorio scolastico da lei condotto con bambini e ragazzi di età dai 5 ai 13 anni),  Il morso verde. Racconti sull’invidia (Fusibilia Libri, 2016), Caro maschio che mi uccidi (Fusibilia Libri, 2019). Sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie: Sono bella ma non è colpa mia. L’inconvenienza dell’avvenenza (Fusibilia Libri, 2013), Tra meridiani e paralleli (Fusibilia Libri, 2013), Pierpaolo Pasolini, il poeta civile delle borgate (Poetikanten, 2016), Signor nò, (Pellicano libri, 2016, prefazione di Margherita Hack), Sorridi, siamo a Roma (Castelvecchi, 2016, prefazione di Antonio Veneziani), Liberazione poetica (Pellicano libri, 2016, prefazione di Jack Hirschmann), Sorridi, siamo a Nettuno (Fusibilia Libri, 2018). Scrive di letteratura e cultura su diverse testate tra le quali “CulturaMente” e “Art a part of culture”.

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POESIE

da A QUELLI CHE NON SANNO CHE ESISTE IL VORTICE

*
La guerra è gestazione malata
qualche ovulo stanco
si volta incapace
sul fianco fiaccato
a cercare conforto.

Si alimenta di buio
di amianto, rovista
nei grandi laghi di ottanio
fingendo, a ferirmi,
un pretesto di lotta.
Una marcia stanca
di Cristi e ladroni
programmati al gelo notturno
disertano anima e sangue
lasciando letti, pane e stoviglie.

Ho ricordi di etiopi
tatuate sui busti dei vecchi
mutilate nei sogni
stese coi panni
crepe di sole narrate
con fetido orgoglio.

Dico no ai vostri giacigli
alle trombe di Dio
alle figlie perdute
che sanno di moglie
di sordidi orgasmi
alle voci di satiri
organi a peso
ai corpi attaccati a croci di legno.
Dico no
con la forza
dell’ultimo giorno.

*
Ascoltavo Evtusenko con Anju a fianco
sulla possibilità remota di un amore
inossidabile nel tempo di un respiro
lei sfiorava un libro con le dita.
Recitava un attore, anch’egli prigioniero
di quel languore privo di significato.

Ho pensato ai peccati accumulati
alla deportazione forzata della coscienza
di chi non ha più orecchie per sentire
il grido del cuore cavato dal petto
e gettato ai lupi siberiani.

Si parlava del freddo e i colli lunghi
le teste piccole e le lunghe mani
-ricordi di viaggio- così lontani
dall’esperienza del Male quotidiano
affliggevano il dolore dei pensieri.

Se esiste questo mondo di Ninfe, di Marie
sentiranno il gelo della prigionia
degli uomini ombra che raspano il metallo
esattamente il mio stato di coscienza
quando il bolo diventa pietra e la gola brucia.

Anju, fedele ai miei terrori
mi ha versato tè dal samovar, è giovane
ma sa aspettare che passi la tempesta
cento fuochi di fila e il coprifuoco
saprebbe dove nascondere un fantasma.

*
L’ultima reliquia è un cartoncino bianco
custodiva lo scontrino del bistrot
circondato da vetri, vicino San Giovanni.
L’ultimo caffè, quello che sapeva di ricordo
la storiografia del momento lieve
di un posto illuminato, un giardino d’inverno
un prezzo esibito con eleganza.

Non rimane che un cordolo a rinforzare la gabbia
tanto più che da essere umano
seppure incapace di una buona condotta
seppure diversa, indolente ai richiami
mi sono scoperta dis-graziata, incivile.

Neanche più donna.
Un corpo pesante, in apnea, quattro dita
di grasso intorno al torace, e l’alito greve
dai siluri di litio, benzodiazepine,
aloperidolo, la razione serale
paliperidone effetto depot

Quello che mi ha ucciso non è stata l’assenza
la rabbia di trovarmi a razzolare nel vuoto
ma la freddezza del tradimento
da parte di Dio, quando mia madre diceva:
C’è un Dio e se la vedranno con lui
la ruota gira, bisogna avere pazienza.
La stessa di Giobbe, ma il male devasta
irrompe nel corpo e rovina lo sguardo.
Niente di vero, soltanto menzogne.
Ho provato a parlare, a mettere il punto
stavolta è diverso e mi ascolteranno.
Ho il cuore di burro.
Ma non è stato tempo, quel giorno.

Nella Latomia, la caverna spettrale
producono lacci, non sanno volare
un diligente servizio alla specie.
Se il mio confessore mi avesse compreso,
il mio cane, il mio uomo, almeno il mio santo.

*
Come un meccanismo infallibile
di cambi d’abito e parole
ancora mi diverto a dondolare
sopra i tacchi immaginando
un copione a Earl’s Court, la mia vecchia isola.

Ho dato il mio frutto al mondo
non è stato facile
la notte vigilo ed il giorno
è una pena insopportabile.
Non posso legarmi più di un mese
senza avvertire la morsa della solitudine
prima di uscire penso mille volte
al cielo fuori dalla mia casa
e ho paura di ascendere, di non reggere.

So che se avrò fortuna perderò il treno
o farò tardi all’appuntamento
e avrò un motivo per non sopportarmi.
Ho sempre abortito ogni grumo di vita
i miei sono embrioni non esseri
atomi di folla, persone in vitro
niente di compiuto da dichiarare.

Solo la tensione dell’attesa, il contatto
quello fatale che incatena l’anima
poi la fuga dolorosa e scalza
come nei sogni ad occhi aperti
la cura apparente della persona
il culto raffinato dell’incerto e del vago
sforzarsi di non provare nausea
ricambiare sorrisi con suppliche
tentativi disperati di apparire candida.

In realtà sono troppi gli spiriti che mi circondano
ed a ognuno mi sono promessa
a quelli che non sanno che esiste il vortice
a quelli malati che vorrebbero una scala
per essere inseriti nella corte di Lucifero
figure esili in cerca di un dramma solido

Una specie di Santeria governata da draghi e vergini
ma sono sola a domare il circo tragico
del senso di colpa atavico, stretto come una dote
e le figurazioni che crollano dall’alto
come pezzi di vetro che si schiantano e feriscono
un corpo che si immagina immortale
rimane incagliato al largo del mare gelido
con i cristalli tra le ciglia, sui polsi, le natiche
cammina e sanguina, come la sirena di Andersen.

*
Invoco il vuoto, il danno ai ricordi
lo stimma dei vecchi e il loro silenzio.
La memoria che usura, ammala, che sfianca
riduce i limiti  e quindi col tempo
racconta la morte degli eroi, amatissimi figli
fertile e rustica come gramigna.

Voglio le sacche svuotate dai mali.
Avaria della Storia, diserzione e vergogna
sento l’anima dopo l’inverno
quando il vento vendemmia il mio tronco
il profumo di Dio allarga le braccia
ricopre muri e avvolge garitte.

Il glicine mio, abbracciato all’assenza.

Fuga dal vero, ritorno all’infanzia
limite umano, incoscienza, i vili alla gogna,
un esercito inutile di figli di cagna
il disarmo assassino di gente allo sbando.

Così chiameranno chi rifiuta l’inganno.
A pensare che ogni Uomo ha un diavolo accanto
che raccoglie i liquidi scuri dell’ultimo giorno.
I rumori del corpo, il puzzo di morte
una discarica al sole e senza controllo
io penso al mio glicine che sboccia ogni anno
è vivo e nasconde l’odore del pianto.