Angelo Barile è nato ad Albisola Marina nel 1888 ed è morto a Savona nel 1967. Le sue opere poetiche sono: Primasera (Edizioni Circoli, 1933), Quasi sereno (Neri Pozza, 1957), Poesie (Scheiwiller, 1965), Primasera  (con uno scritto di Raffaello Ramat, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2003). È anche autore di una raccolta di prose: Al paese dei vasai (Sabatelli, 1970). Fu collaboratore di “Solaria” e uno dei fondatori della rivista genovese “Circoli”, alla quale collaborò assiduamente anche con note critiche, raccolte poi nell’opera Risonanze (1967).

https://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Barile

https://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-barile/

POESIE

Nel bosco
In compagnia di un bel verso
ora cammino solo e leggero,
forse ho strappato un ramo sincero
nel bosco dell’universo.

Insonnia
I cigolanti carretti
che frangono l’estiva notte
carichi solo di fresco;
e dietro lasciano argento,
primizia d’alba, rimprovero
d’alba che mi cerca il petto;
da spigoli d’insonnia
un dopo l’altro li sento
passarmi a filo del letto:
sporgo una mano che li tocca,
porto un’erba alla bocca
ancora peccaminosa.

Estiva
In quest’ora di nude
forme, di lingue di fiamma, noi siamo
le tristi salme che bruciano in riva
a un mare fermo come una palude.
Dal nostro rogo
guardiamo a te ventilata fanciulla!

Nel mezzogiorno vitreo di luglio
sulla spiaggia che brulica t’apparti
innamorata.
Ti stendi nella vampa
come nel letto giovanile, ancora
fresco di sogni;
e il capo che hai liberato, la guancia
che sa di mare,
posi nel taglio d’ombra d’una chiglia.

Sui margini di fuoco
ad ora ad ora
chiudi improvviso
apri netto il respiro delle ciglia.
Ed ogni volta, a quel battito senti
un àsolo che viene
da refrigeri d’anima, ti tocca
in viso
la brezza intermittente dei pensieri
che ti stormiscon nei verdi recinti:

giuocano all’angolo della tua bocca.

Lamento per la figlia del pescatore
Nel fresco giorno ha calcato
sì poca terra il tuo piede scalzo!
Hai fatto questi due passi
fra l’orlo del mare e la piana
soglia iridata di salso
della tua casa a terreno.

Eri sul lembo del suolo
che il grande azzurro frantuma.
Da questa ruga di spuma
vacillavi già in braccio al sereno
come sull’uscio del mondo.

Oh, sulla nostra marina
il tuo soggiorno fu mite
e sottovoce, fanciulla
ammainata come una vela
nel bianco dei tuoi pensieri.
Ora canti sull’altra tua riva.
Noi tristi che non ti vedremo
più cucire le bionde reti,
riempir di guizzo i panieri,
i suoi occhi di calmo celeste.
Ora tuo padre ha dipinto
le sue barche di un filo di lutto,
gli tremi viva nel flutto
battuto dal lacrimante remo.

Fuori tempo
In questi giorni di chiaro gennaio
che si disfanno i presepi, s’affioca
la pastorale
anche quest’anno nell’ansa del colle
il mio albero schiude le corolle
inaspettate.

Nella tepida tregua
uno spolvero fai di primavera,
albero illuso. Presto
sopravverra’ un altro chiaro, di gelo,
ti spegnera’ la frettolosa luce:
si prende il vento il tuo fiore gia’ morto.

A giusto sole, insieme,
i tuoi compagni accenderanno la festa,
tu senza voce nel giulivo coro.
Oh, diverso. Ti preme
a una vigilia acerba
il canto fuori tempo del tuo ramo.

Precocita’ fa triste
il tuo fiore, pericolante riso.
Per cio’ mi piaci, animoso cielo.
Cielo tu stesso, baleno al mio inverno:
attimo della grazia. Nel sereno
sei cosi’ breve e fai con la tua fronda
un orizzonte.

A tarda sera
A tarda sera quando
prego pace ai miei morti,
ad una ad una vi chiamo per nome,
mie sensibili anime. In un lampo
a ciascun nome mi risponde il viso
desiderato,
e il sangue vi ripalpita vi segna
i suoi segreti.

Odono il mio susurro anche gli anziani
che in grembo alla memoria
già posano quieti
e forse ancora anelano in cammino
per i valichi estremi al loro Cielo.
Un poco, andando, si volgono e alcuno
lontanamente sorride…

Ma questi,
al mio cuore i più mesti,
che ieri appena spezzavano il pane
con noi sotto la lampada e nell’ombra
son passati tenendosi per mano,
lo sguardo al focolare:
questi quando la sera
chiamo per nome i miei morti, li vedo
ancora fermi, ancora
trepidi e tesi di là della porta
non richiusa, che geme.

Ecco mi fate cenno, anime care,
d’incamminarci insieme.

Uscire dalla vita come quando
Uscire dalla vita come quando
s’esce di chiesa
in un finale d’organo: s’avventa
l’anima a scale prodigiose, trova
il piede sulla soglia
un bianco che vi palpita: e la luce
è nuova.

Ma uscire non è dato in rapimento.
Ch’io possa almeno
lasciarmi dietro la mia stanza, un poco
volgendo il capo a riguardarla, alfine
pulita, sgombra
d’ogni discordia, in ordine sereno
come la chiesa ora vuota: le croci
fanno una chiara ombra
sul pavimento.

Voci parole
Voci parole son tutte di piombo,
cadono morte nel grembo alla sera
come in un mare.

O desiderî, cavalli leggeri!
Ora sul prato pascolate avare
erbe, mordete l’aria che s’annera.

Sentirvi,
o desiderî, o miei pegasi stanchi,
battere ancora uno scalpito! e fosse
l’ultimo, quello che rapisce: il grido
sullo strapiombo.