Andrea Zanzotto è nato a Pieve di Soligo (Treviso) nel 1921 ed è morto a Conegliano Veneto nel 2011. Le sue opere di poesia sono: Dietro il paesaggio (1951), Elegia e altri versi (1954), Vocativo (1957, 2a ed. ampliata 1981), IX Ecloghe (1962), La Beltà (1968), Gli sguardi, i fatti e senhal (1969, poi 1990), A che valse? Versi 1938-1942 (1970), Pasque (1973), Filò (1976, poi 1988 e 2013), II Galateo in bosco (prefazione di G. Contini,1978), Fosfeni (1983), Idioma (1986), Meteo (1996), Ligonàs (1998), Poesie e prose scelte (Meridiani Mondadori, 1999), Sovrimpressioni (2001), Conglomerati (2009), Tutte le poesie (2011). La sua prosa narrativa e critica è raccolta in Racconti e prose (introduzione di C. Segre, 1990, poi 1995), Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta (1991), Aure e disincanti del Novecento letterario (1994), Europa melograno di lingue (1995), Scritti sulla letteratura (2 voll., 2001).

https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Zanzotto

http://www.treccani.it/enciclopedia/andrea-zanzotto/

 

POESIE

da DIETRO IL PAESAGGIO

Elegia Pasquale
Pasqua ventosa che sali ai crocifissi
con tutto il tuo pallore disperato,
dov’è il crudo preludio del sole?
e la rosa la vaga profezia?
Dagli orti di marmo
ecco l’agnello flagellato
a brucare scarsa primavera
e illumina i mali dei morti
pasqua ventosa che i mali fa più acuti

E se è vero che oppresso mi composero
a questo tempo vuoto
per l’esaltazione del domani,
ho tanto desiderato
questa ghirlanda di vento e di sale
queste pendici che lenirono
il mio corpo ferita di cristallo;
ho consumato purissimo pane

Discrete febbri screpolano la luce
di tutte le pendici della pasqua,
svenano il vino gelido dell’odio;
è mia questa inquieta
gerusalemme di residue nevi,
il belletto s’accumula nelle
stanze nelle gabbie spalancate
dove grandi uccelli covarono
colori d’uova e di rosei regali,
e il cielo e il mondo è l’indegno sacrario
dei propri lievi silenzi.

Crocifissa ai raggi ultimi è l’ombra
le bocche non sono che sangue
i cuori non sono che neve
le mani sono immagini
inferme della sera
che miti vittime cela nel seno.

da VOCATIVO

Esistere psichicamente
Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
– soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli –
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch’io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d’inferno
degli atomi e il conato
torbido d’alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.

da IX ECLOGHE

Così siamo
Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l’ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s’affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza

E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

L’attimo fuggente
Ancora qui. Lo riconosco. In orbite
di coazione. Gli altri nell’incorposa
increante libertà. Dal monte
che con troppo alte selve m’affronta
tento vedere e vedermi,
mentre allegria irrita di lumi
san Silvestro, sparge laggiù la notte
di ghiotti muschi, di ghiotte correntie.
E. E, puro vento, sola neve, ch’io toccherò tra poco.
Ditemi che ci siete, tendetevi a sorreggermi.
In voi fui, sono, mi avete atteso,
non mai dubbio v’ha offesi.
Sarai, anima e neve,
tu: colei che non sa
oltre l’immacolato tacere.
Ravvia la mia dispersa fronte. Sollevami. E.
È questo il sospiro che discrimina
che culmina, “l’attimo fuggente”.
È questo il crisma nel cui odore io dico:
sì, mi hai raccolto
su da me stesso e con te entro
nella fonte dell’anno.

Notificazione di presenza sui Colli Euganei
Se la fede, la calma d’uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,

se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,

i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sí gran parte specchi a me conformi.

Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.

da LA BELTÀ

Al mondo
Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso.

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire

il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu «santo» e «santificato»
un po’ più in là, da lato, da lato.

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.
Su, munchhausen.

da GALATEO IN BOSCO

Sonetto di sterpi e limiti
Sguiscio gentil che fra mezzo erbe serpi,
difficil guizzo che enigma orienta
che nulla enigma orienta, e pur spaventa
il cor che in serpi vede, mutar sterpi;

nausea, che da una debil quiete scerpi
me nel vacuo onde ogni erba qui s’imprenta,
però che in vie e vie di serpi annienta
luci ed arbusti, in sfrigolio di serpi;

e tu mia mente, o permanere, al limite
del furbo orrido incavo incastro rischio,
o tu che a rischi e a limiti ti limi:

e non posso mai far che non m’immischio,
nervi occhi orecchi al soprassalto primi
se da ombre e agguati vien di serpe il fischio.

da SOVRIMPRESSIONI

Postremi luoghi del Galateo in bosco
Quanta altezza ha raggiunto il silenzio
come per torridi fiati posati lungo ere
sui vaneggiamenti semivisibili di dossi e brughiere
in cui vaneggiai le storie infinite dei sangui
che di là stillarono fino ai rivi
più infimi delle mie menti dolenti
in un qui, futile-orrido qui
Quanto colmo è stato quell’indietreggiare nell’eterno
dopo vacue vittorie/sconfitte
quanto il deprivarsi l’addensarsi
d’una sorda sostanza tra crude fitte

nei qua-o-là percepiti da un’alba
chimicamente incerta, forse fatta di soda da lisciva,
sciva diluente
eppure abbagliante per un suo proprio fuori-occhio-lente

Silenzio a strati e strami
sul bosco lontano, ahi lontano in ogni direzione
via via vaporato da particolarità
uniche di abbandoni, di persistenze, umili –
non quiete, non-stasi, non-necessità, non nimbo
trash di presenza e d’immanenza
Non emanar più silenzio a tratti a scatti acceso
acceso malvolentieri al sublime
talvolta nauseasimile per colaticci di rime
non emanare, voce, non intimare sparendo
non dislocarti entro un proibito essere non proibirmi di essere

BOSCO MONTELLO FICTIO

mentre si mutano segnaletiche
ed etiche di operazioni e disperazioni
ormai fuori portata di furti umani
succhiate in altre risacche, in altri cloni

Luna Starter di feste bimillenarie –
21- 22 dicembre 1999 –
Fotomodella d’altissimo rango
in piena forma sembri questa sera,
pur sempre amica Luna,
non si direbbe granché dilatata
dentro il gran sottozero
che rende ogni belletto menzonegro.
Ma di certo un lievissimo cachino
ti sfugge mentre adocchi sulla Terra
formicolar la gente assatanata:
perché ben sai
che gran parte del senno umano ormai
nel tuo mirabil tondo è congelata.
Invano striglia Astolfo l’ippogrifo
ed il carro d’Elia s’appresta invano.
Al mondo per le sue presenti mete,
non serve il senno, basterà la rete.