Alda Merini è nata nel 1931 a Milano, dove è morta nel 2009. Il suo primo volume di versi intitolato La presenza di Orfeo esce nel 1953. Due anni dopo pubblica Nozze Romane e Paura di Dio. Del 1961 è la raccolta Tu sei Pietro. Poi segue un periodo di silenzio e di isolamento, internata in un manicomio fino al 1972. Dopo alterni periodi di salute e malattia, che durano fino al 1979, torna a scrivere, con una serie di testi drammatici raccolti in La Terra Santa, pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1984. Dopo la morte del marito, si trasferisce a Taranto dove rimane tre anni e scrive le venti poesie-ritratti di La gazza ladra (1985). A Taranto porta a termine anche L’altra verità. Diario di una diversa, suo primo libro in prosa. Dopo aver nuovamente sperimentato gli orrori del manicomio, questa volta a Taranto, torna a Milano nel 1986, riprendendo a scrivere con continuità. Presso Crocetti esce Testamento (1988), una selezione della sua produzione dal ’47 in poi curata da Giovanni Raboni, e Vuoto d’amore da Einaudi nel 1991. Nel 1993 riceve il Premio Librex-Guggenheim” per la Poesia. Il suo cammino poetico prosegue con le raccolte Ballate non pagate (1995), La vita facile (1996, Premio Viareggio), La volpe e il sipario (1997), Superba è la notte (2000), Folle, folle, folle d’amore per te (Saslani, 2002), Più bella della poesia è stata la mia vita (cofanetto con videocassetta e testo, Einaudi, 2003), La nera novella (Rizzoli, 2006).

http://www.aldamerini.it/

http://it.wikipedia.org/wiki/Alda_Merini

 

POESIE

A mio figlio
Ti ho generato col solo pensiero figlio
e non sei mai sceso nel mio corpo
come una buona rugiada.
Però sei diventato un’ape laboriosa,
hai fecondato tutto il mio corpo
e a mia volta son diventato tuo figlio,
figlio del tuo pensiero.
Forse, quando morirò, partorirò tutta la dolcezza
che mi hai messo nel primo sguardo
perché figlio, ti ho guardato a lungo,
ma non ti ho mai conosciuto.
Figlio figlio mio sognato, figlio ti ho solo pensato
non sei mai sceso nel corpo come una buona rugiada
ti ho guardato a lungo, ma non ti ho conosciuto mai.

Pensiero, io non ho più
Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce…
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei cosi ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e cosi possa perderti
nell’antro della follia.

La città nuova
Ecco un bianco scenario
per tratteggiarvi l’accompagnamento
degli oggetti di sfondo che pur vivono.
Non ne sarò l’artefice impaziente.
Berrò alle coppe della nostalgia,
avrò preteso d’ozio nelle lacrime…
perché non mi ribello alla natura:
la mia lentezza li esaspera…
La mia lentezza? No, la mia fiducia.
Per adesso è deserto.
Il mondo può rifarsi senza me,
E intanto gli altri mi denigreranno.

La pace
La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo
è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.
Ma tu maestro che ascolti
i palpiti di tanti soldati,
sai che le bocche della morte
sono di cartapesta,
più sinuosi dei dolci
le labbra intoccabili
della donna che t’ama.

O labbra, labbra disunite e bianche
O labbra, labbra disunite e bianche
nel valore del pianto penitente,
labbra disunite dentro il bacio
in tenera protesta di follia,
o labbra senza tempo
che avete amato un uomo,
labbra senza perdono
ponete la protesta fuori da una finestra.
O labbra della Vergine divina
che cantan l’Angelo che ormai si avvicina,
è pronto il gran segreto,
vengo meno a un divieto.

Veleggio come un’ombra
Veleggio come un’ombra
nel sonno del giorno
e senza sapere
mi riconosco come tanti
schierata su un altare
per essere mangiata da chissà chi.
Io penso che l’inferno
sia illuminato di queste stesse
strane lampadine.
Vogliono cibarsi della mia pena
perché la loro forse
non s’addormenta mai.

Ieri ho sofferto il dolore
Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perché l’immobilità mi fa terrore?

I poeti lavorano di notte

I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.

I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.

Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Laggiù dove morivano i dannati
Laggiù dove morivano i dannati
nell’inferno decadente e folle
nel manicomio infinito
dove le membra intorpidite
si avvoltolavano nei lini
come in un sudario semita
laggiù dove le ombre del trapasso
ti lambivano i piedi nudi
usciti di sotto le lenzuola
e le fascette torride
ti solcavano i polsi e anche le mani,
e odoravi di feci
laggiù, nel manicomio
facile era traslare
toccare il paradiso.
Lo facevi con la mente affocata
con le mani molli di sudore
col pene alzato nell’aria
come una sconcezza per Dio.
Laggiù nel manicomio
dove le urla venivano attutite
da sanguinari cuscini
laggiù tu vedevi Iddio
non so, tra le traslucide idee
della tua grande follia.
Iddio ti compariva
e il tuo corpo andava in briciole,
delle briciole bionde e odorose
che scendevano a devastare
sciami di rondini improvvise.

Un’armonia mi suona nelle vene
Un’armonia mi suona nelle vene,
allora simile a Dafne
mi trasmuto in un albero alto,
Apollo, perché tu non mi fermi.
Ma sono una Dafne
accecata dal fumo della follia,
non ho foglie né fiori,
eppure mentre mi trasmigro
nasce profonda la luce
e nella solitudine arborea
volgo una triade di Dei

Lirica
Oh, dove prima al limite del giorno
s’appiattava una forza ordinatrice,
quale scoscendimento pauroso
che mi rimonta sulla stessa ruota,
sulla ruota del giorno e del tormento?
E dove il digiuno di un incontro
rovesciare codeste verità?
Ah, fantasmi di te, mille fantasmi
arsi di sete, tutti, alla mia fonte!
Una forza stranissima si insinua
nelle mie labbra docili e le incurva,
io ruoto, sento, sul mio desiderio
schiava di un magnetismo che mi ha vinta.
La corsa dopo invaderà il mio corpo
che la esercita in sé, nel suo tormento,
per superare ciecamente il solco
dove tu, assente, non puoi più fiorire.
Ardo di mille musiche diverse,
ma dove è tempo di un incontro nuovo,
resiste il “poter essere” di te.

Maledizione d’amore
Maledetto te
che hai preso il fiore delle mie labbra
e senza baciarlo l’hai buttato per terra
e poi l’hai mostrato a una fanciulla inerte.
O te maledetto
che hai cambiato i miei giorni
in un orrendo frastuono
e non sento più angeli
ma vipere intorno.