Alberto Bertoni è nato a Modena, dove vive, nel 1955. Insegna Letteratura italiana contemporanea nell’Università di Bologna, come critico ha curato l’edizione dei Taccuini 1915-21 di Filippo Tommaso Marinetti (il Mulino, 1987) e, oltre a numerosi altri saggi di argomento novecentesco, ha pubblicato i volumi Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano (il Mulino, 1995) e Una geografia letteraria tra Emilia e Romagna (CLUEB, 1997, insieme con Gian Mario Anselmi). Sul versante poetico, a partire dal 1986, ha svolto una costante attività di performance in collaborazione con il poeta modenese Enrico Trebbi e con il saxofonista jazz Ivan Valentini, realizzando con loro, nel 1997, il libro+CD La casa azzurra (Mobydick). In proprio ha pubblicato i volumi Lettere stagionali (Book, 1996, Premio Caput Gauri 1996 e Premio Dario Bellezza 1998); Tatì (Book, 1999); Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (Il cavaliere azzurro, 2000); Le cose dopo (Aragno, 2003); Ho visto perdere Varenne (Book, 2006) e Ricordi di Alzheimer (Book, 2008); Il letto vuoto (Aragno, 2012). Ha partecipato alle antologie Quaderno bolognese (Printer, 1992, con introduzione di Roberto Roversi), Fuoricasa (Book, 1994, con un saggio di Andrea Battistini) e L’Europa dei poeti (CLUEB, 1999). Sempre per Book dirige dal 1996 la collana di poesia contemporanea “Fuoricasa”. E’ tra i fondatori e redattori delle riviste “Gli immediati dintorni” e “Frontiera”. Suoi testi sono presenti in diverse riviste e antologie italiane e statunitensi, tra le quali “Discorso diretto”, “L’ozio letterario”, “Omero”, “Steve”, “il belpaese”, “Origini”, “L’anello che non tiene” e “YIP”. Alcune poesie di Tatì sono state tradotte e recitate in inglese dal critico Anthony Oldcorn e altre sono uscite in russo sulla rivista pietroburghese “Zvezdà” (n. 9, 2000). Sulla sua poesia hanno scritto tra gli altri Giovanni Giudici, Raffaele Crovi, Niva Lorenzini, Gianni D’Elia, Elio Tavilla, Salvatore Jemma, Vitaniello Bonito.

albertobert1@libero.it

 

POESIE

da L’ESATTO TEMPO

Cartoline
Akab il cavallo
battuto anche oggi
proprio sul traguardo, quando
primo al sole d’Asti chiara
sfidava la città curiosa e pur
leggermente scabra di balocchi
furfanti, nell’ultimo giorno
di fiera: “Al… ber… to!
E tutto
intanto si allontana, tutto smarrisce
nel freddo teso che non fa più intuire
l’epoca bella di talismani
e smalti, quando
ho smesso perfino di ridere pensando
a un fatto tutto privato
in Ghetonovo dove la morte
era mattina, ora morta
di lirica stellina
a San Zanipòlo – mai più
come prima, squarcio, lampo,
dolore, forse una corsa liberata
e chi ricorda…
Verso Galliera, certo,
lì nell’inverno delle sue luci, tutto
di te lontano, l’angolo, il cuore diverso
da assassina, tutto o quasi il soggetto ridotto
a una balena bianca per te che la tua
l’hai già catturata da millennî
e ne vorresti un’altra, Anna
che vegeti e ridi
nel tuo azzurro di fumo.
Anche
per dirti qualcosa di questo
ho aspettato all’angolo dei Frari
o di Boulevard des Capucins,
per chiederti se quel
che non si scrive siamo
ancora noi gli stessi appena fuori
San Vitale, tutto il buio
scientifico di amanti?

A Silvia perché
le strade sono lucide di pioggia, qualche volta
e anche noi proviamo a sgomberarle
di questa lucidità da galera, specchio
o perversione ospedaliera. Scivolo
e non c’è vertigine nella mia
caduta, appena un figlio perso,
morto però due volte
della nostra pigrizia d’innocenti.
A ogni costo
rendiamo le dissonanze dialogiche, stasera
perché la coscienza infelice si tramuti in felice ma
mancano i referenti e cosa stai a fare, cosa
hai paura di dire, cosa… Spàccati in due, allora
se di mestizia puoi risolvere in extremis
questo ordine narrato di vuoti/pieni
narici intraviste da una gialla
finestra di primavera, nasi
così bene ordinati e prospettici.
Ci batte il sole, sono
pieni di muco: muco uterino? So solo
che neanche l’intestino, oggi,
produce autocoscienza!

da LETTERE STAGIONALI

M***, dicembre
Penso che forse sei
a parlare con la mia ombra
da un telefono muto in piena notte
o con il gatto anche lui dimenticato
per l’inverno in qualche angolo più caldo
Penso che strano
svegliarmi con una vera tua
telefonata, alle quattro o dopo
del mattino, non per dirmi
che con ottimo riso alla salsiccia
e Riesling d’Alsazia mi hai nutrito
ma che il tramonto novembrino
ha sciolto i vetri dello studio, per il nostro
sorpreso capolino o perché ghiaccio e fuoco
in te convivono (benché io, qui…)
Penso, infine, al ridicolo comfort
dell’alba che non dormi, al tuo ruolo
doppio di madre. E a come
il peso dei nostri corpi
anche oggi è vivo

M***, febbraio
Non ho insetti in cui rappresentarti
mio angelo con i capelli neri
tu che detesti tutti gli animali
e i soprammobili in genere.
Ma se sfioro dico sfioro un incidente
in nebbia periferica di ghiaccio
non posso fare a meno di pensarti
all’angolo bianco del divano
che al videogame preferito di tuo figlio
giochi la mia salvezza, e la vinci
con l’improbabile certezza
dei mille tuoi esami quotidiani
sui quali allora scommettevo baci:
oggi da un tempo smisurato di poesie
li osservo – conferenze
ippodromi o bridge da principiante.
Farfallina bianca e nera – unico insetto
e unici colori che almeno in paragone
puoi accettare – ti elettrizzano
lo stress, le vite diseguali
che fulmini in te quell’attimo solo
prima di sera

M***, febbraio
a Pier Vittorio Tondelli,
in memoria
Il freddo gradiva poco
quel tuo bisogno assoluto di pudore
mai pensare così alla morte – anche
il più ostinato chiacchierare
nasconde ogni tanto un proprio orrore
Raccontano che non parlavi quasi più
o appena a sguardo fondo, sussurrato
dentro le righe della Bibbia – dico
il fuoco che più di materia in azione
è stella acuminata nel granito o sul cruscotto
della mia macchina modesta, a Ravenna
commentando il caffè, l’assenza
subito totale dal proscenio
(Di Un weekend postmoderno si parlava
il tuo romanzo a grumi e strati
col rock in sottofondo
le compassioni di passaggio
dalle notti in Emilia ai maghrebini
abbagli meridiani)
Si parlava dell’amore che è ferita
ma in realtà di quella inclinazione
alla lontananza che amor platonico
si definisce – e se ogni esserci s’irradia
dal nome nel quale fiorisce
Ma che il momento era arrivato
di dirsi addio, che una fitta diversa
lambiva l’angolo di via San Martino
dovevo capirlo dal gesto di saluto vago
la sera tardi che valeva un cerino

M***, febbraio
Il tempo o forse
il suo battito dentro
il cuore, le vene
vedranno arrugginito
l’apriscatole sul tavolo
brivido aureo che t’imperla
e con te l’ironia dell’ora
in penombra, le feritoie
i tonfi del condominio intorno – fatica
o poco meno a cena, i ruoli
le valvole di sfogo…
Così l’assoluto pallore del volto
la raucedine e sul muro
solo un’astratta resistenza di rami
e persiane a metà, niente più che il fuoco
pallido di un poster, Matisse
a Zurigo, la sua stanza rossa
la neve sulle viole…

M***, marzo
Le cose dal vero mi fanno paura
mi stanano in crepe o appigli di memoria

Le cose che guardo
scoprendone i nervi
e quelle che sfioro coi denti
come case catturano la luce
per meglio scomporre la grana
perlacea, l’ordito di polvere e foglie

Così mi annienti, se provo
a deliziarti di cronache minute
a dirti come sei viva
in questa mezzanotte di vento
in cui non ammetti nemmeno
la mia ombra alla tua bocca
alle parole che assediano il respiro

Sì e no una voglia
domenicale accende il finale
forse una nuvola resiste
dei pollini allo spigolo del viso

Bologna, aprile
Tira una brutta aria
un pulviscolo di terra
mista a erba secca
se più di sempre perdo tutto
indirizzi, carte, forse un’occasione.

Tira un’aria da pioggia infernale
per trovarci a chiedere Dante
il giorno di pivetta e berluscone.

Tira un’aria che alla fine mi smarrisco
nelle tue treccette legate di giallo
per pigrizia o dolcezza
senza poterle accompagnare
fino quasi a zona stadio.

Proprio l’aria che appena un nevischio
di paglie e di fieni
dal TIR basco poco avanti
copre presto anche lo scuro
collinare d’aprile
o notte che non sono tornato.

S. Gimignano, maggio
Non molte prove di verde
nel tuffo al cuore di troppa
Toscana e riservatezza
il colpo secco dei silenzi
un dirci malati di noia e tenerezza
giù, dal buio devoto
d’occhi senza limite
o maestà di chiostri?

M***, giugno
In fondo a che velato
deserto dei tuoi occhi
qui dalla mia spalla
soffri la bella palla
di lanugine gialla
(e di fango)
che atterra a fine campo
nel rosso meno opaco

La goccia trema piano
senza coraggio né slancio
come il profilo che l’osserva
non ha luce abbastanza
si sfalda nel paesaggio
d’acacie, pioggia e rose

Ma il bianco più vivo
e studiato del bagno di oggi? Disperi
lasciando in disparte la brocca
sul trespolo alto
la piega amorevole del corpo

New Haven, ottobre
Cigni e gabbiani non sembrano decidersi
sui pochi pesci dello stagno presso il mare

Con virtù più agile
uno scoiattolo li guarda
si specchia, mordicchia, mi ricorda
che il tuo nome porta
lo stesso numero di sillabe del suo
ma che neanche svegliandomi alle cinque
sono stato capace di trovarti

Così ci provo, corteggio
la mia vicina di lettura
e tu, crudele, fai scattare la sirena
dell’allarme antincendio in biblioteca

Insomma, questo sole del Connecticut
prolungo alla tua notte
dico dormi, ti prego
coi miei mille baci nell’orecchio

da TATI’

Mia madre non è uno scoiattolo
né un topo, ergo
di lei non posso parlare
con leggerezza o schifo
Mia madre al massimo piange
quando sono lontano
e con gli anni, le ore, peggiora
pensa che io non vivo

Chiaro e scuro
ma tu ascolta la luce
chiamarti per nome
accenderti favole farfalle
quel rosso di tuono
– aspettami ancora un minuto

Sopravvive il tuo odore
una radice della voce
siamo qui, io e te
bello e brutto di oggi
pietre lisce del muro

Piccole magie di posacenere
ordine in giardino
l’allarme non concede resoconti
e la luce in cucina non dice
cos’eri stamattina
spettinata ai fornelli
gli zigomi alti, il taglio della bocca
Cardinale precisa di Visconti
Come angelo, lo so, valgo poco
incapace su una Punto di volare
più sicuro quello con cui dormi
da molti anni, telefono escluso
l’assurdo di questo minuto?
Riccio o porcospino
la tragedia a primavera del giardino
è come aggredire la spalliera
del glicine o del gelsomino, come
liquefare i nostri occhi
in una danza vegetale
quando il freddo è più atroce
perseguita il profilo
(La nuvola, non più
nero bastione ininterrotto
si gonfia e si sfalda
esplode all’agonia dei lampi)
Insieme la fiamma ci porta a peccare
ma siamo già noi la fiamma quando avvolge
e bagna la vita dei larghi divani, fiorame
di vero ornamento e passione, perché
l’immobilità sola è pandemonio
questa sera di marzo che si scioglie
e Bologna così scura dall’alto
nasconde a te la bocca
a me tutto un lungo
scolorare d’occidente in grigio chiaro, oggi
che la pioggia è quasi più difficile trovarla
nello scricchio sommesso della telefonata di lontano
dove sfamarci in pace e dove
gli occhi sono un vuoto cinerino
(E’ bastato un accendino
a immaginare la fine del temporale.
Sei, fra le mie carte, la sola
parola necessaria, il purissimo fuoco)

Quest’anno che va il nero
– Refosco, soprattutto, e Marzemino –
bevo a un tuo bacio piccolino
asciutto di polvere e di vento
Coda lucida, vetro
nel sabato di marzo
gioca tutto la mano
sul cruscotto e dopo
leggerissimo sbalzo

La nebbiolina di maggio
in turbamenti e lucentezze svaporando
dei capelli, lascerà ai miei artigli
la pena soltanto d’un tuo compleanno
domenicale, dei tuoi anelli
così veri da sembrare
echi d’anima
La macchiolina d’inchiostro
aggredirà l’infanzia
in esiti centesimi di grigi e azzurrini
ossi residui o metalli
che il mare scava
dall’affollata danza di viola
e turchini del bel silenzio di qui
dove la passione ha sciolto le parentesi, i suoni
gli esilî misurati del rapace
che campagne e Toscane travolge
da un punto all’altro, da un piumato
all’altro, fugando la minutaglia
degli animali boschivi e l’ossidiana
placata del vento
che per cena, Adriana
apparecchia le stanze, i vestiboli

Non un piccolo bar
aperto sul nostro
veloce appuntamento
ma un campari ci vuole, lo penso
anche da fermo, qui, nel silenzio

Davanti a tua sorella
ieri sera ti ho preso
gesto breve la mano
nel mio Natale ateo
acceso di nient’altro

Per un vero centimetro perdo
– naturalmente al fotofinish –
la cena di stasera e anche quelle dopo
champagne compreso
Colpa del fantino
o sottile sconforto
per un dolore così da poco
ma protratto mentre guido svelto
sotto la Défense, nella folla
che presto abbandoniamo
tagliando la Senna verso
il giro di boulevards più lontano
Incido così il mio silenzio
in questo vetro d’aria viola e fuoco
quando a tutti i bateaux-mouche
tagli la testa con un gesto

Il piccolo tesoro di
soldini, fiammiferi, amuleti
buttato in certi mari
con la poca speranza di rifarli
passi uguali, commenti, panorami
o potendo ancora più uguali
i pernod dei pomeriggi tardi
Il tesoro da venti
centesimi di franco
resiste un lampo solo e cerca fondo
al cuore desolato di uno sguardo
mai più così fondo il mio disagio
da faro estremo
Ma il record di ostriche in un giorno?
I dubbî sul traghetto?
Ex legionario, pugile da poco
in fila se telefoniamo

da IL CATALOGO È QUESTO

Bologna, Stalingrado
Quel quarto d’ora prima di te
o della lezione su Sereni
il quarto d’ora all’ingorgo rubato
che chiude in zona Fiera ogni spiraglio
e che dalla corsia di destra taglio
assieme a qualche altro
frettoloso, intemperante
neanche un minuto capace di civismo – questo
quarto d’ora lo trascrivo
dal nucleo senza sonno né parola
tranne un cenno viola
in corridoio – al bar perfino
col dollaro contato – io dal portico
muto di polvere e di buio
dico il tuo nome
al telefono per primo

Un addio
Oggi dal tuo nome mi ritiro
e dal tuo volto
Dalle città dove non siamo stati
mi ritiro, poi dall’afa di Parma,
da Mantova, da Asti…
Mi ritiro
anzi ti scappo dalle mani, uniche
parti del corpo in comunione
nel ladro lucore degli asfalti
quando è tardi
Mi ritiro perché non sono Dio
e il tuo tavolo, i cassetti
maniacalmente spolverati
non so come salvarli
dal cane, dalla fitta di un’estate
Dalle parole, invece
non posso ritirarmi e tu
neanche, dall’impeto
nel riso, dalla voglia
di mangiarti