Una poesia che accetta di misurarsi con la Storia è la nuova raccolta di Lilia Slomp Ferrari Nel lampo di Hiroshima (Raffaelli Editore), in una chiave personalissima che, pur scegliendo un inevitabile tracciato drammatico imposto dalle vicende da cui si muove, tuttavia nelle soluzioni verbali trova la sua levigatezza e una cadenza musicale inseguita e realizzata attraverso un intreccio sapiente di assonanze e di rime. È una poesia, questa, capace di consegnarsi al rigore di un discorso lucido e perfino impietoso, senza rinunciare alle pieghe e ai salti del sentimento e dell’emozione, affidando la sua cantabilità a una trasposizione ritmica dirottata, franta o come bloccata sotto vetro. E lo si capisce fin dalle prime pagine, dietro ai versi che sciolgono sapientemente le aporie del mondo, nella consapevolezza della difficoltà che ha la scrittura a misurarsi con un simile estremo argomento: “Su quel giorno azzurro cancellato / si spuntano i pennini, è stridore / raschio, pena su carta pergamena / archetto strabiliato sul violino / posato nel cantuccio più remoto / dell’angolo segreto del giardino”. Al centro del libro, naturalmente, sono l’evento terribile che dà il titolo alla raccolta e il suo ancora più terribile lampo di luce evocato: “Sovrano di rapine l’orizzonte / Hiroshima la bella, l’immortale / miraggio ora, solo buco nero / scavato da un piccone senza nome”. E, dopo il lampo di quella luce esplosa dentro se stessa, ecco chiamato in scena “il silenzio” che ne consegue e che, ossimoro portante, “è così parlante” da risultare assordante. In successione poi, intorno e dentro il fantasma di Hiroshima, compare per strappi e per scorci tutto il resto. Padri e madri “in cerca disperata / dei figli in ospedali di fortuna”, “la pelle ciondolante nei brandelli” di chi fugge, una cancellazione a macchia d’olio “senza più viso, occhi, naso, bocca / in pelle che si mescola alla pelle / senza lasciare traccia di qualcuno”, “sgretolati i muri delle case” in una generale arsura, i tronchi morti con i “rami come braccia verso il cielo”. I personali itinerari e labirinti mentali, dentro le terribili vicende della Storia che si intrecciano alle esistenze dei singoli, sono pieni insieme dei ragguagli minimi di una realtà quotidiana di contatti e di rapporti e dei riferimenti privilegiati ai pensieri, ai sogni, alle ipotesi, alle idee, ai desideri, ai ricordi (considerazioni e riflessioni che continuamente rispuntano nelle pagine del libro in particolare attraverso l’uso del corsivo), nell’impulso alla ricerca attraverso la scrittura, come più in generale in quell’investigazione esistenziale che passa per luoghi e situazioni (amicizie, affetti, persone) dietro agli indizi che possano portare alla scoperta piena della propria identità in riferimento a ciò di più vasto che è accaduto e ci sottende magari in modo inconsapevole ma decisivo. È in questo intreccio di dati, nella ricchissima sostanza di una complessa personalità, che si configura l’aspetto più originale della poesia di Lilia Slomp Ferrari che, oltre la propria introspezione e attraverso di essa, s’interroga intanto quasi inavvertitamente anche sul presente e sul futuro dell’uomo (“non posso non pensare a Hiroshima / a Nagasaki, strette nel destino / dentro lo squarcio immane del futuro / a quanto siamo appesi per un fiato / all’agonia dell’ultima galassia / a quell’umanità alla deriva / di un fiume dentro onde di follia”). Si riconferma qui per l’autrice, anche nelle delusioni e nelle insofferenze che venano tutta la raccolta, la cifra del suo scrivere in versi, nella caratteristica verificabile in tutti i suoi libri della convivenza del forte peso specifico delle cose che sempre trova pronuncia dentro la leggerezza del suo linguaggio iridescente e mutevole. È una leggerezza che passa attraverso la scelta di una misura prosodica interna, una naturale cantabilità, l’essenza affabile della sua poesia rivelatrice che trascina il lettore nel cuore delle cose coinvolgendolo nel più profondo.
Paolo Ruffilli
Prefazione

