SULLA POESIA DI MAURIZIO CUCCHI

SULLA POESIA DI MAURIZIO CUCCHI

Ogni nuovo libro di Maurizio Cucchi sorprende il lettore perché, nella continuità del suo coerente percorso, apre sempre un ulteriore inedito capitolo, sperimentando altri sondaggi della sua ricerca in profondità. Così è stato anche per le ultime due raccolte, Sindrome del distacco e tregua (1919) e La scatola onirica (2024). In quest’ultima, in particolare l’autore muove da una prima sezione, “Quartiere di lignaggio”, in cui il poeta affronta la ricerca di un’identità personale che non è solo familiare ma che affonda in territori mai attraversati, “in mentale escursione nei tempi” con intrepida curiosità, “in cerca di tracce” e in virtù di “remotissime radici,” nell’istinto di saperne di più.

Vale per Cucchi quello che diceva Rilke a proposito dello “stato di attenzione, di abbandono fantastico e di interrogazione davanti al mondo” che spinge il poeta a guardare a sé e agli altri attraverso le parole. Parole che, come corpo vivo, pensano e sognano e per questo ci fanno pensare e sognare dentro l’eco che risuona in noi. “Un’arte della parola”, come dice Cucchi, “che non si acquieta e parla.” Una ricerca che, “sempre inappagata e inquieta,” è spesso velata dall’ombra del timore ricorrente dell’afasia, in La scatola onirica incarnato dal personaggio di Sabatino e, in termini di resistenza, affrontato negli aspetti più filosofici nella sezione “L’immagine, la parola” in riferimento ad alcuni grandi artisti dell’arte contemporanea.

Proprio in questi aspetti si evidenzia nella produzione di Cucchi la persistenza, nella continua variazione, di quella sua voce che insegue, mentre la vive con intensità, una definizione della vita. Vita che in mille rivoli e frammenti continuamente scivola via, scorre, inafferrabile eppure tenuta, provata, goduta per qualche attimo. E Cucchi ricompone, nelle sue poesie, la storia di quegli attimi, riconsiderati a metà tra la memoria e la loro consistenza di realtà: “la dolce memoria turbata” che attraversa tutti i suoi libri. È qualcosa di molto particolare e originale: l’oggetto che, nel flusso mentale, vive anche per una sua interna solidità, per una sua materica fisicità che vince il tempo e la sua deriva.

A proposito della produzione di Cucchi, mi pare opportuno parlare dell’ingresso del fisiologico sulla scena della sua poesia. Quel fisiologico che si fa ossatura del filo onirico, riconquistando il simbolo alla sua consistenza fisica, materica, attraverso la “formidabile macchina” del sogno che ci restituisce addirittura un passato di cui non si ha memoria. E il poeta si dichiara dedito appunto alla sua “più nobile, vocazionale occupazione”, il sonno, a cui si consegna “nei suoi vagabondi e arbitrari intrecci onirici” prima di ridisporsi alla veglia e riorientarsi nel quotidiano. In una sorta di inevitabile resa-presa onirica: “E dunque mi abbandono infine / a questo impasto informe / di passaggi insensati / che sempre più somiglia / alla trama sconnessa, / al cumulo dei ricordi / che a volte vorrei, magari, / tranquillo ricomporre” (in “Macchina onirica”).

Il modo di Cucchi resta quello, unico e personalissimo, di un passo felpato, un procedere smorzato che, proprio per le sue caratteristiche attenuate, consente di correre a una velocità sorprendente e di avere, per reazione uguale e contraria, un effetto di potenza. E la poesia quanto più si è fatta limpida e ferma in queste pagine, tanto più palpita di un’ansia della vita a cui non tentano più di opporre come in passato margini di distacco e di presa di distanze i fatti, i luoghi, le figure, consegnati ora in piena adesione dal poeta alla parola profondamente coinvolgente. D’altra parte, a ben guardare, è la cifra stessa del suo scrivere in versi, nella caratteristica verificabile in tutti i suoi libri della convivenza del forte peso specifico delle cose che pronuncia dentro la leggerezza del suo linguaggio iridescente e mutevole. Circostanza che appare ancora più evidente nei passi in prosa che occupano in parte Sindrome del distacco e tregua, in particolare nelle sezioni “Felicità frugale” e “La chiave di volta”; una prosa che, d’altra parte, ha sempre una sua misura prosodica interna, una sua naturale “cantabilità”.

Paolo Ruffilli

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