SERGIO CORAZZINI

SERGIO CORAZZINI

In aperto contrasto con il dannunzianesimo che imperversava all’epoca, Sergio Corazzini si fece portavoce in poesia di un linguaggio semplice e dimesso, velato da un alone malinconico riconducibile alla tubercolosi che lo consumava e tuttavia qua e là mosso da scarti improvvisi che, adottando passaggi polisemici, si fa meno nostalgico e più simbolico.
È in “Desolazione del povero poeta sentimentale” che si esprime la poetica di Corazzini dove, non senza qualche palpitante tocco ironico, il “piccolo fanciullo che piange” proclama “l’impossibilità di essere chiamato poeta”, quasi negando il valore di poesia alla sua “povera scrittura dell’anima” e facendo di questa sua situazione una vera e propria “proposta esistenziale”.
Proprio in virtù della riduzione di tono di queste sue idee, nell’ottica di un modo diverso di fare poesia, Corazzini divenne a Roma un riferimento per molti giovani che lo raggiungevano quotidianamente al Caffè Sartoris, accanto alla tabaccheria gestita da suo padre, per discuterne con lui, come Fausto Maria Martini, Tito Marrone, Luciano Folgore, Umberto Fracchia, Corrado Govoni. E in quel cenacolo si andò formando, perfino su basi teoriche condivise, la concezione della poetica crepuscolare e del ripiegamento in se stessi rispetto al vuoto che circonda l’esistenza umana.
Rispetto alla teorizzazione del così detto crepuscolarismo, la critica tuttavia insiste sul dato biografico personale dell’aggravarsi progressivo della tubercolosi nella vita di Lucini, insistendo in una forma perfino troppo deterministica nel valutarne l’origine, legata al fatto che “i suoi versi esprimono da un lato il malinconico desiderio per quella vita che la malattia gli negava, dall’altro un nostalgico ritrarsi dall’esistenza presente perché avara di prospettive future”.

Paolo Ruffilli

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