POESIA D’ISLANDA
Jón Kalman Stefánsson è nato a Reykjavík nel 1963 e ha vissuto a lungo nell’Islanda occidentale, che con il paesaggio e le situazioni spesso estreme domina la sua scrittura. Si è dedicato alla poesia prima di passare alla narrativa, distinguendosi subito per una lingua di singolare ricchezza evocativa e diventando uno dei più amati scrittori nordici, come si vede anche nel volume di versi La prima volta che il dolore mi salvò la vita (Iperborea). Si è fatto conoscere fuori dal suo paese con il romanzo Luce d’estate ed è subito notte che ha ricevuto il Premio Islandese per la Letteratura. Attraverso potenti affreschi dell’Islanda di ieri e di oggi, i suoi libri affrontano le grandi domande dell’uomo, la vita, l’amore, il senso ultimo dell’esistenza, il potere dell’arte e della letteratura. In parallelo ai suoi romanzi, anche la poesia testimonia di un’esperienza profonda con una voce potente e coinvolgente. Sono testi, tra il 1988 e il 1994, che vivono in una intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la voce della morte, che non è qui tanto un’ossessione quanto invece una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con le ombre dentro l’alone di una musica particolarissima. La presenza dei morti è una costante, ma la meditazione sulla morte ha una sua attuazione altrettanto particolare: è sostanza stessa della visione, dell’invenzione fantastica che rappresenta il mistero, anche nella consapevolezza dei suoi aspetti più crudi e disincantati. Fa quasi da cerchio entro i cui limiti il poeta raccoglie e rappresenta, proprio allo specchio di quella realtà finale, il suo giudizio sulla vita e sul mondo. Quale enigma più grande del male che strazia l’uomo? Eppure ecco che arriva a trascinare in alto le situazioni un filo onirico con le sue immagini visionarie e con quella musicalità che è la scansione lieve dei versi, capace di prendere una coloritura più elegiaca nella vena esistenziale e che si manifesta tra salti visionari e ritorni di coscienza nella memoria. È il canto di un viandante che riconosce il suo viaggio attraverso la vita e, viaggiando, accetta di misurarsi con gli errori di percorso e con gli intoppi del caso, magari nell’improvviso smarrimento. E che, tuttavia, riapproda poi all’apertura improvvisa, favorita dal ritorno chiaro e netto della consapevolezza.