SU PAOLO RUFFILLI PER ‘LE COSE DEL MONDO’ di Vincenzo Guarracino

SU PAOLO RUFFILLI PER ‘LE COSE DEL MONDO’

Un libro, questo di Paolo Ruffilli, che dichiaratamente viene da lontano, dal 1978, per arrivare quasi riassuntivamente a coprire un quarantennio di poesia e di vita con l’ambizione di rappresentare, giusto il titolo, Le cose del mondo: come una “costruzione poematica”, retta da un progetto, dal filo rosso di un’intenzione sottesa a tutto il resto e in grado di dare unitarietà a tutta l’esperienza di vita e di scrittura, attraverso sei tappe quante sono le sezioni del libro, intitolate rispettivamente Nell’atto di partire; Morale della favola; La notte bianca; Le cose del mondo; Atlante anatomico; Lingua di fuoco, prima di concludersi con una serie di nove Interrogativi. Un’idea insistita e risorgente, dunque, un punto di ripartenza, per legare insieme e rilanciare da essa il proprio percorso poetico, fatto di almeno nove tappe (da Piccola colazione del 1987, fino alle più recenti Variazioni sul tema del 2014), sotto il segno di un’urgenza, di una “sete” di verità, non soltanto metafisica: un assillo filosofico, in un certo senso parmenideo (e lucreziano), se è vero che è posto all’insegna del “viaggio” (“simbolo e certezza / di un cambiamento”, in “Carico di gente, di storie e luoghi”), non diversamente da quello inscenato proprio dal filosofo eleate Parmenide dal proemio del suo Poema sulla Natura, all’inizio della sua ascesa verso la Porta che “divide il Giorno dalla Notte”, come sfida del “Vuoto” e dell’ “Ignoto”, da cui può avvenire, come esito ultimo, perfino un fatale “rovesciamento di ogni prospettiva” (per paventato o auspicato che sia in limine all’opera già nel secondo testo), sulla scena di un “presente” popolato da una “schiera / di mostri e di fantasmi / dispersa e trascinata / dalle onde”, in cui approda tutta l’avventura di questo umano, troppo umano, “andare”, al termine della perlustrazione di esperienze, cose e sentimenti, in cui l’io poetante si mette impietosamente in gioco con un grumo di domande inesauribili, per inseguire attraverso la “parola” una “traccia” di sé, la “propria figura smarrita”, fiduciosi nella propria stella ma anche coscienti di doversi confrontare sempre con la montaliana “maglia che non tiene”, salvo accorgersi di ritrovarsi delusi “alla deriva”, sempre “un po’ più indietro” rispetto alla “vita”, “sogno” dentro un “altro sogno” o dentro un “tunnel” interminabile.

È proprio su questo asse concettuale del “viaggio” che concettualmente e stilisticamente si inscrive, secondo me, la peripezia dell’intero libro, forte di modelli e archetipi essenziali: nel senso che il viaggio, inteso nella sua accezione di cammino di vita, volto alla ricerca di un senso, per definizione, interminabile, per propria strutturale ambiguità comporta sì l’idea di un cambiamento ma anche il rischio di un’estraneità, di ritrovarsi “straniero tra la gente”,  nel momento in cui il suo è un porsi in direzione di un’invenzione e di un acquisto. Tra prospettiva di salvezza e rischio di perdizione, insomma, si svolge dantescamente “con lena affannata” un percorso che abbisogna del filo di un discorso il più possibile articolato tra pause e ce(n)sure, oltre che di una cifra stilistica cautamente sobria e asciutta, oggettiva, in cui chi cerca è, come l’Atteone di Giordano Bruno degli Eroici furori, “cacciatore” e “caccia” al tempo stesso.

È questo che è dato percepire da un testo della prima sezione in cui questi elementi trovano singolare evidenziazione e condensazione: “Di corsa, inseguendo se stessi, / la propria figura smarrita, / pensandosi in fondo lasciati / soltanto un poco più indietro. / E andando lanciati in avanti / metro su metro, in questo / spreco di sé nel mondo fuggendo, / intanto mutando in gara infinita /- intravista e perduta – la vita”. Un testo chiave ed essenziale dove il concetto di Vita è posto, su archetipici scenari etimologici, su un’idea di “forza” (fisica e morale), nonché di “respiro, aria”, quasi a voler lasciare intendere che Essa, la Vita, come un ludus, una “gara”, è un fatto più espressivo che reale, una sorta di Cosa di spessore lacaniano, cui votarsi senza riserve, ancorché con la coscienza di un credito incolmabile, con un carico non solo di ricordi, che trovano nel dire in una sorta di analisi interminabile la loro amplificazione e ragione di esistere, ma anche di “interrogativi” ineludibili. Come dire che si scrive per continuare a vivere scrivendo e che solo nell’uso della parola, poetica e visionaria, si consegue l’effetto di raccontarsi nella propria verità: scri/vi/vere, insomma, inseguendo “ciò che aspetta ancora nell’assenza” (“Emerge su dal fondo, esonda la parola”).

Letta in questi termini, è qui forse che agisce la suggestione lucreziana enunciata in apertura: al di là della analogia della scansione in sei parti di questo come del libro del poeta del De rerum natura, è nei gangli etimologici e concettuali della vita-invidia, intesa come odio-amore della vita, caratteristico del poeta latino, che si configura la similarità di comportamento tra i due poeti, divisi tra “voglia di fuggire” (“Ascolto inconsapevole nel sonno”) e nostalgia di “felicità” (“Nella felicità ci sfiora il tempo”), al punto da investire “in gara infinita”, in uno “spreco di sé” senza riserve, ingenium e ars, vita e risorse intellettuali, per sottrarre all’Ombra la parte di sé che “aspetta ancora nell’assenza” e produrre così in positivo quel “rovesciamento di ogni prospettiva” auspicato in apertura.

Vincenzo Guarracino

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