Liliana
UGOLINI
Liliana Ugolini è nata nel 1934 a Firenze dove è scomparsa nel 2021. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di teatro: Il Punto, La baldanza scolorata (Gazebo), Flores (Gazebo), Bestiario (Gazebo), Fiapoebesie/vagazioni (Gazebo), Il corpo-Gli elementi (Massa delle Fate), Celluloide (Stelle cadenti), Una storia semplice (Morgana), L’ultima madre e gli aquiloni (Polistampa), Marionetteemiti (Esuvia), Pellegrinaggio con eco (Gazebo), Imperdonate (Morgana), Spettacolo e Palcoscenico (Campanotto), A. Nera dalle Voyelles di Rimbaud, Mito e Contagio (Morgana), Gioco d’ombre sul sipario (Gierre Grafica), La pasta con l’anima (Pianeta Poesia), Carnivore (Pianeta Poesia), Oltre Infinito 1 e 2.0 manifesto con Vincenzo Lauria (Autoedizione), In Boboli (Autoedizione), La Pissera (Ripostes), Delle Marionette, dei Burattini e del Burattinaio (Genesi), Des Marionnettes (The Book Edition) e Tuttoteatro (11 drammaturgie, Joker cura di Sandro Montalto) da cui sono stati prodotti 11 spettacoli andati ripetutamente in scena, un film Delle Marionette a cura di Andrea Baggio e 2 opere: Eros e Thanatos con musiche di Stefano Burbi e voci soprano e mezzosoprano e voce recitante, e Cus Cus concerto da camera con musiche di Tommaso Pedani e 3 voci recitanti. Sono inoltre in rete 4 e.book: Ironia dell’ombra (Antologia), Gli occhi di Prometeo con Roberto R. Corsi per la Biblioteca di Rebstein e Il Confessionale e l’Apostolato e Figurine per La Recherche. Cura, in “Pianeta Poesia” con Franco Manescalchi per il Comune di Firenze, la poesia performativa e la scrittura in scena. Per la poesia contemporanea ha curato con Franco Manescalchi l’antologia “Carteggio” (Polistampa), Pianeta Poesia Documenti 1 per il Comune di Firenze, Pianeta Poesia Documenti 2 (Polistampa), Pianeta Poesia Documenti 3 (Il Bandino Pianeta Poesia). Collabora con l’Associazione Multimedia91 all’Archivio Voce dei Poeti e fa parte del gruppo performativo “Cerimonie Crudeli”.
POESIE
da OLTRE INFINITO 1
La realtà del virtuale
Nel mio sangue sto interna
a mucchiar l’ossa e dei nervi
le cime. Intorno il Ciberspazio.
Di me s’intuban fughe di leggende
e m’avviluppo in mostre di parole.
I denti, immensi denti in sibili labiali
mostrano in schermi proiezioni e suoni.
Il canal ride addosso al virtuale.
Ora l’immagine fa sparire le zolle
ed i cervelli danzano già soli nella ridda
d’un fuori che poi diventa dentro.
Un video-casco, please, un Eye-Phone,
un Head-Mounted Screen, per non vedere
il muro delle pietre.
Di qui in aut-put si parte. Io sto
nelle geometriche alla distanza
degli occhi non più miei.
Decostruisco la vista che m’automa.
L’odor di terra porta un verme grasso
al succo d’illusione d’un sistema.
Dal trasduttore-casco
cado nel video e muovo parallele.
Se fossi fuori vedrei nuvole
a specchio in movimento d’acque
in antico splendore d’apparenze.
L’evocazione mi toglie al sasso.
La tattica m’inganna e tutto me
nel pixel non dà tocco e mi convince
oggetto della cosa. La visione
stereoscopica non basta al punto
dei due punti di vista sopra il mondo.
Esser studiati affinché l’effetto
mostri ( la realtà?) al cervello
ed il reale diventi un venticello
( fuori) un poggiapiedi in bilico
( la macchina) alla macchina.
Per un volant seduta
lenta al pasto, m’erutta
un video guasto di TiGi.
Così condisco un fiocco
d’insalata al Cernobyl
con la Percossa a morte
dentro un sacco. ( E’ martedì
d’un tre Novembre Novantotto).
Mi lancio per un film, certa che la finzione
m’allieti dal non vero. Quincy
si trova ad indagar sul nero (sacco)
d’una donna massacrata a botte
( il glotto sdoppia fiction nel reale).
Ho solo un tasto, immemso plateale.
Lo spingo nel futuro del suo tubo ( scuro)
in truce di canale.
E’ dato al percepire avere abbaglio
per convinzione d’altro che cova
nel possibile. Il brivido è dentro
nel credibile. Così si vola in cubi
d’astrazione, in teste artificiali
nello scarto millesimo d’un calcolo
che interattivo attende quello sgancio.
Era la spada di Damocle una punta
nel centro della svolta. Ora annuendo
pieghiamo sotto il collo la veduta
d’un pullular di salto fin dove
la certezza è immaginabile
nella telepresenza del suo via.
Sta nel suo fatto il tatto.
La perdita si trova nel contatto.
Allo studio un palesar
nel virus virtuale, un cuscinetto
elettrodo superbo al simular concreto.
Dove sta il volo è strano. Si poggia
sopra i piedi d’un divano e regge
su forchetta un monte di cuscini
per star comodo. L’essenza
è che si creda che nel cervello
è già disposto il bandolo a scontrollo.
Un pulsar dell’istinto
metabola il suo tempo dentro al pasto.
Così in foresta nell’acquitrino
chiaro di tempesta il coccodrillo
insanguina quel ciber
Il drillo cocca la preda
sia pesce o gazzella. Espone
come un tronco due nocchie
sotto il pelo. S’agguata bianco
dentro pala bocca, s’aguzza
della forza contenuta.
Com’antro sgola e aggozza
ed il dolor del tramite m’avvince.
Il perder forze in un baleno
è soffoco o squarcio alla laringe.
Dura quel fiato la liberazione
l’immobile che placa la sua tregua
ora che l’accaduto accade, fino alla fine.
E mi consolan l’acque ancora ferme
per un doler passato, per un’attesa
d’ altra morte in diretta
Dove si muta l’immutata
voce d’usignolo che nasce
martellante nel bambino
e ancora batte ornata d’usignolo
oltre le primavere?
Dove si muta l’immutabile
arrivo nonostante?
Scorso di nodi scorre
nell’identico moto la bellezza
e spazia seducendo i grembi già maturi
d’offerta. Inebria la salita
avviluppata a speranza noncurante.
E’ della natura la disuguaglianza
e nessuno saprà dal balbettio
la sua incapacità. Un bandolo
scientifico si sa ma non lo stillicidio.
L’altro è il mio fuori e dentro di noi due
due filastrocche tonde un uroboro.
La luce è dentro al foro dell’occhio quasi cieco per un tentar col morso
della coda la chiusura del cerchio al volo sempre aperto.
da IMPERDONATE
EVA
Avverto la trasformazione
metafora d’ un sogno. Fammi
inconsapevole d’ un dolore-risveglio
in brividi di pelle al Settimo Cielo
Quando le mie parole confondevi
col tatto della mano e la foga del corso
interrompevi, quando l’ umido scorre
sulla pelle, quando ci uniamo al cosmo,
lì percepiamo la possibilità dell’ impossibile.
Tesi e distesi in forme di segreti,
plateali a parole, i desideri in fuga
tratteniamo per un inizio e un gioco.
Mentre sollevo chiare leggerezze,
sottile infilo dita nei capelli
e una mano allenta e sa piacere.
Con l’ altra mano tocco la tua nuca
e so del punto in chiave discendente.
Sorge la mano e spalle e dorso letteralmente
a caldo ti comprimo e mano nuova abbraccia
l’ incavo e il dosso. Una mano ti sfiora
come un petalo e il petto si solleva
come sboccio. Pistilli si dilavano
nel giunto e mani e bocche scorrono
nel fremito e un ondulante moto ti trascina.
Tengono a presa gli arti della mano
e i palmi si contendono un fremor di tocco.
In altre mani i piedi si contorcono
vibratile salir di mano in mano.
Non più misteri. La vetta è sulle volte
dei miei corpi, a lungo a lungo, dove
la sapienza del tatto è intelligenza.
Scopriamo dolci limiti già impuri
forse quel tanto che non sapevamo
Un oltre il corpo, un rosso in espansione,
un limite allungato senza limite,
un coinvolgimento oscuro, una violenza
sadica alle volte, un misto farsi male,
un piacere dell’oltre negativo dove
quell’ orizzonte non di faccia libero.
Sa d’ amore la piena, sa di droga
il raggiungimento del mai. Non si ferma
la spinta alla curiosità come una punta,
come una falena che si brucia di luce
per un supremo cogliere del volo.
Mi sfiora lentamente la stanchezza.
Ci conosciamo? Siamo l’ un l’altro
uno e più di cento. Piano il raffreddamento
scorre e ci copriamo nella percezione
delle foglie. Quando lasciammo mano
nella mano, quel giaciglio di terra,
sapevamo d’ un termine, assoluto.
Il tempo era passato, forse un seme
ci avrebbe ripetuto.
Come recuperare, accedere allo spazio
d’un ovatta che mi lasci pensare?
Come m’affondo e affogo?
Le contese scadute giaccion frantumi
e pesi e oneri m’affossano.
Sarei natura pigra, contemplativa dico
e corro sempre in giro di me stessa
appesa al filo. E mi rivedo volto
dentro ai volti, gonfi a contrasti.
Contarsi a stelle e strappi e la valanga
s’ allenta ora di luce sull’ occhio,
in ragnatele e in attimi di spine.
SHAHRAZADE
Rielabora l’ acqua
il ticchiolìo di fronde
che si traspare in ritmo.
Sta nel protrarsi il liquido
silenzio. La brezza innumerevoli
fa foglie, brivida del tepore
un cantolare misto
che suona del sottile.Un trillo
appena sfoca sul ramo
e un movimento accenna sinfonie.
Forse si accende nel freddo
un lucidar di pinne (l’incanto
della trasformazione) e la sirena
si protende fuori d’un bosco,
fuori fine di fiabe, infinitudine
Nell’ arco del mio tempo sono scelta.
Vengo da storie, in ubbidienze senza decisioni,
in accettar. L’ attesa dell’ ignoto, mi stringe
nello stomaco una morsa (un rifiuto) mentre
esser scelta è un onere d’onore. Sopra le porte
le grate d’un dolore come d’ape che nel fiore
si chiuda. Ho solo una punta di curiosità:
vorrei scrutare appena quello sguardo
e le mani di lui. Saper di vena in vena
nelle tempie le pulsioni e indovinare
un mondo delicato, un concerto in fusioni.
C’è un tremito d’ ignoto in questo spazio vuoto
dov’è una sola immagine: la mia.
Come un sacrificale rito, sono giumenta
senza dignità. Resta l’ indugio: m’alzo,
controllo. Le finestre, le tende, un’apertura:
forse la velatura d’ un diritto? Qua se ricopro
un ruolo, son sicura. Un tetto, vesti, il cibo,
forse un figlio, un asilo… Basta un racconto
lungo più di un anno, una corda tenuta
sulla curiosità, una tensione sotto la paura,
una novella, mille, per la staticità.
So di quell’ oltre il muro la caducità,
so d’un saper non acquisito, tutto nuovo
allo scoprir di scelte. Questa mia svolta
è per l’al-di-là, in scivolare fuori dall’antico,
alla soglia di soglie imprevedibili, per la voce
di dentro che sovverte! Questa son io
formata dalla attese, nei tempi del pensiero,
un solitario Zero che comincia a contare
le Sue Storie, forse mille e più di mille,
nella vita di lotta che mi scelgo e così,
conto i passi, dall’ uno, due, tre…
(ogni passo una Mia Storia)
Conto i passi mentre fuggo…
(che al tuo archi/tetto il mio tappeto
ha potere di no!)
Devo la fuga a te
che mi suggelli in guaiti
e lo strappo mi lacera nei plessi.
Assonarmi vorrei al tuo restare,
libera da chance te liberato.
Sulla soglia mi ricade antica
l’incapacità d’ attendere
occlusione al timpano dei suoni…
Il Burattino
Il Burattino s’anima di mani
sfiora la testa, ride d’occhi
e le manine sgomente alzano
al cielo lo stupore per caduta
inerti nel biancore d’un grembiulino.
La voce narra e il burattino
sensibile si muove con la grazia del cuore
del Burattinaio. Insieme fanno persona
che narra la storia fuori dall’ Artificio
I veli della storia
Del Burattinaio non seppi
se non quando vidi passare in carri
i veli della storia. Nell’immenso
immersa in tempi lunghi
tra marionette in parti
volsi domande ai burattini.
Loro per carne e fili
riannodavano i carri con i veli
certi di andare dove volevano
Tutto è già vecchio
La mano ( il pollice, il medio, il mignolo allocati)
anima il burattino. Muove carino al cuore
un birichino battito d’amore
mentre la storia-storie si narra dalle mani
fin sul viso coperto.
( Sana vergogna di Burattinaio)
Scaturiscono dai ventri
le marionette in fila.
Fili d’aria salgono e in movimento il cosmo
s’evolve. Nei mucchi accatastati
i resti dell’abito mancato irreparabili
formano la storia futura. Sapevamo l’ordine dell’oltre
e la possibilità di vivere cambiando.
Tutto è già vecchio
tra fili e veli consunti di nuovo.
Il treno
Via il treno
la forza del treno
va il treno
che mangia alle spalle
un bene di Dio.
Va il treno, la vita
che mangia davanti
il passato
va il treno con soste
e nebula un viaggio
infinito di fine.
( All’orizzonte
figure siluettes
ciclami piume).
Arriva la notte
in viaggio sul treno
e nero orizzonta
un tuffo mistero.
Chi guida?
M’affondo nel nero
più nero bagnato
In stelline…
da DES MARIONNETTES
Le pantin
Le pantin s’anime de mains
effleure la tête, rit des yeux
et les petites mains effrayées lèvent
au ciel l’étonnement de la chute
inertes dans la blancheur d’un tablier.
La voix raconte et le pantin
sensible bouge avec la grâce du coeur
du Marionnettiste. Ensemble ils sont la personne
qui raconte l’histoire sans Artifice.
Les voiles de l’histoire
Je n’ai rien su du Marionnettiste
si ce n’est quand j’ai vu passer en char
les voiles de l’histoire. Dans l’immensité
plongée pour de longs temps
parmi les marionnettes en scène
j’ai posé des questions aux pantins.
Eux, par chair et fils
renouaient chars et voiles
certains d’aller où ils le voulaient
Tout est dejà vieux
La main (le pouce, le majeur et l’auriculaire bien placés)
anime le pantin. Elle envoie joliment au cœur
un espiègle battement d’amour
alors que l’histoire-histoires se raconte depuis les mains
jusqu’au visage couvert.
(Saine honte de Marionnettiste)
Jaillissent des ventres
les marionnettes en rangs.
Des fils d’air montent et en mouvement le cosmos
évolue. Empilés en tas
les restes de l’habit manqué irréparables
forment l’histoire à venir. Nous savions l’ordre de l’au-delà
et la possibilité de vie en changeant.
Tout est déjà vieux
entre fils et voiles usés à nouveau.
Le train
File le train
la force du train
va son train
qui mange aux crochets
du bien divin.
File le train, la vie
qui mange avant
le passé
File le train avec des haltes
et un voyage infini
devient nébuleuse de fins.
(À l’horizon
figures silhouettes
cyclamens plumes).
Arrive la nuit
voyageant à bord du train
et le noir horizon
plongeon dans le mystère.
Qui conduit ?
Je sombre dans le noir
le plus noir baigné
dans les petites étoiles