Alberto Mario
MORICONI
Alberto Mario Moriconi è nato a Terni nel 1920, è vissuto a Napoli fin dalla fanciullezza e qui è scomparso nel 2010. Penalista, poi docente di letteratura drammatica all’Accademia delle Belle Arti di Napoli, pubblicista: in particolare, critico e rubricista culturale del “Mattino”. La sua opera poetica: Vortici rupi mammole (Gastaldi, 1952), Trittico fraterno (Ceschina, 1955), Anno Mille (Rebellato, 1958), Le torri mobili (Guanda, 1963), Dibattito su amore (Laterza, 1969), Un carico di mercurio (Laterza, 1975), Decreto sui duelli (Laterza, 1982), Il dente di Wels (Pironti, 1995), Io, Rapagnetta Gabriel-e altre sorti (Pironti, 1999), Non salvo Atene (Pironti, 2007), Un autocommento discreto (Liguori, 2003), La trilogia tragicomica-Dibattito su amore-Un carico di mercurio-Decreto sui duelli (nuova edizione a cura di A. Maglione, Pironti, 2011). Sue opere sono state tradotte in più lingue. Un’ampia bibliografia della critica sulla sua opera è consultabile nei volumi La poesia di Moriconi di Franco Lanza (Liguori, 1988) e La poesia di Moriconi (“Nord e Sud”, Edizioni Scientifiche Italiane, aprile-maggio 1996 e agosto 1998).
https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Mario_Moriconi
POESIE
POESIE
Vita becera del poeta
Meno
———-la vita becera
del poeta,
————–mi tengo il ceffone
o mal lo rendo,
———————tento
schivare il briccone e m’industrio
briccone,
————-scendo
nella mia stima, patteggio, mi
—————————————-svendo.
Oh ma a quel nono patto
mi rizzo, rilutto, m’impunto:
strappo il contratto.
—————————-Sì sì, riscalo
la china.
Miserabile, porto
quel mio gesto d’oro in regalo
ai miei.
————Con gli occhi a una cima,
rimbocco il mio sozzo angiporto.
Urbanesimo
Madre, tu hai sbagliato
tu m’hai buttato fra i cementi lisci*
ch’ero ancor gleba erbosa, senza
consentimento,
ch’ero ancor vento,
e per questi rigagnoli
– neve, ero, d’Appennino, –
ero aroma di pino, fra i miasmi
d’un addome di vicoli.
E non è a campo la tua sepoltura
nemmeno.
M’hai scodellato nella città laida,
che già ne aveva troppi, d’orfani,
con padre e madre vivi, sì proclivi
al canto molle e allo spuntato
lazzo e all’avvampo
e svampo immediato, gente
che “tene ‘o core” (riposto)
“e ‘o ca…” (non so) ma
d’altro niente,
come me.
Volevo a campo
la mia sepoltura.
* Morto mio padre, quando avevo cinque anni, mia madre si trasferì e mi trasferì dall’Umbria nativa a Napoli.
Pesce Rondine
S’io fossi turchino
e più corto
sarei quel pesce rondine (celo
due, forse, aluzze vertiginose),
del pari attratto
da coste umane, e da oscuri
venti interni distratto, ritratto.
—————————————Né è più
l’età per la mia sete d’alto
mare.
———-Balzo a tre o quattro
metri sul viscido pelo e per cento
metri anch’io volo:
—————————-e il goffo
rituffo, in vista d’un molo
calcinato, in un liquido
letame.
Non ho né squame né ali
turchine,
————–son tozzo non corto,
pesce gregario sì, e solo,
nel fondo del tossico porto
di Napoli.
L’eterna rima in ore
(Il distacco)
Solo chi non è amato
muore senza dolore:
il solo desolato
ch’ora si aspetta amore.
Ma io che ho amato e amato
e sono stato amato
e sono ancora amato
invidio il desolato
che senza un cane muore
accanto,
e sorride un compianto
al mio schianto d’amore
sognando amore, vita,
all’uscita da questa
sua vita camposanto.
Primo parto
E urlò e urlò contro metalli e usci
abbaglianti…
——————-D’un tratto
bisbigliò: “Salvate lui.”
Prima gravidanza
(Il giglio)
E Adamo ripeteva:
“Ma tu partorirai con gran dolore, eh?”
Ed un turgore guaente, un fumido
vermiglio lezzo
———————espulse
un giglio.
E ancora l’eiulìo, Caì Caì,
dell’inesperta, Caì... “No,
no, su!”
Adamo lo levò – “carino!…” – a Dio.
Caino, insomma.
Le nuove soluzioni
(Per Manzoni )
“Vuoi tu, Lucia Mondella, per tuo legittimo sposo
qui il signor don Rodrigo?”
E poi il divorzio. Mutar di prospettive.
———– Mutatis mutandis… –
“A te l’anello e la pillola
anticoncezionale…”
———– … omnia munda mundis –
Fallo
——————————Silvia, rimembri ancora
Ecco quel davanzale
donde mi sorrideva gioventù
donde la gioventù.
E che fu il marmo tombale
alla tua verde virtù.
Eccole quelle scale
per cui volavi tu,
e scivolasti male,
dissero: e bello fu.
No all’Inferno
(Per Francesca e per Gianciotto)
Virtù, anche tu fortuna.
Date a Gianciotto un vero stinco, o un arto
d’alluminio, di pròtesi perfetta: poi,
poi, menategli Francesca…
la ravegnana, che ignora, cui,
in batticuore, al cospetto, e il pudica-
mente ostinato occhio al suolo, di lui
primo apparì quel piè.
——————————Le sbalza
l’occhio
————-le rotea…
—————————e in quello
di Paolo, a un canto, svolò batté.
Fate a Gianciotto un piè dritto:
e lui ci pesta
peccato e delitto.
La trafiggeva (poi, trafitto…) il fresco
occhio cognato, mordace audace: “Pace,
ora, pace…
o suora…”
L’occhio ferito esplora
tutto in lui gaio e ritto.
Oh avesse, per bon’ora,
prima di quel ch’è torto
– nera virgineità! – lei scorto l’aspero
austero pelo o quella dentatura
guerrïera del Ciotto
o mensurato la muscolatura…
Virtù, pur tu
ventura.
Mattinate del padre vedovo
Mezz’ora di sfizio, cent’anni di guai.
E voi mi vedete
———————sul mio cantone,
coi miei quattordici figli e figlie, ciascuno
alla sua magione.
Sfizio, mezz’ora: soffiavo “oh dimmi:
ma tu li conti?… “
“Certi momenti pure, coi conti?!…” lei, cara:
cara e così
di parto
se ne partì.
Facendo il pieno (sfizio) si va
lontano:
————-e crescitene quattordici!…
E busso là, l’ospizio, mi dà
una minestrina.
C’è una suorina
per chiamarmi
———————papà.
I Vespri Siciliani
La mano che toccò basso avvampò
il vespro.
Non la mano militare prensile
d’alture, che ha ghermito e serra spalti
e guglie, il nocchieruto
pugno che spiaccia e sgretola:
—————————————le nude
e aperte dita, una mano
smagrita,
che convulsa ama, e che morbida
corse da sé a un corpetto, e poi giù gonna
tentò formicolò: nel vespro,
sul sacrato,
la mano d’un soldato
solitario.
Non l’artiglio ferrato che ferisce
e arraffa, che brandisce
i tetti come dadi e se gli cale
all’aria scaglia e i campanili
svelle ai vili
Panormiti:
—————–una mano,
sì, maschia, ma sguantata
di ferro, calda madida… gelata…
forse una mano morta,
lungo una gonna,
che trasalì,
e toccò il basso d’una donna
e la bassura – il vespro era già cenere –
accese ed il pallore popolano
lo scorno e il corno contro l’armatura
e quella che sonava squilla l’Angelus
batte a martello e coltello e coltello
fuor degli stracci a ballo
contro armatura e armatura e armatura…
Talché la città vile
ribolle, il campanile
chiama e infollite folle
accozza e sciama
in turbini e straripa
da stretti a piazze dai lastrici a sabbia
a glebe a rupi
a creste…
Talché Palermo fu franca e l’isola,
miracolo! miracolo!
—————————Una mano…
l’ora che oscura, e in che prepara cena
la tua donna… una mano
innocente… la sera,
e primavera, sul sacrato,
e struggente
l’estranea salmodia…
—————————–la mano
del soldato desolato
forse lambì la gonna
di santa Rosalia.
La disoccupata e la meretrice
Essa dice e dice d’un posto,
è riccia mora, la pelle scabra
[però avrebbe attratto
(ancora?…)],
forse le spetta (il posto),
confida, e l’amica nega, saputa,
nel viscido scendere, un’ansa
intestinale, della ventruta
tonitruante città.
Che forse, può
darsi, l’avrà, no?
“… Dio ssolo ‘o
sape.”
L’amica nega: “Con quelle cape!…”
“E nun sonco, vuò
dicere, mo, manco cchiù bella…
no?”
“Tu non si’ quella che
si dà, cumm’io mi do,
me donco.”
Scendono per le budella
della città (sfocianti
al mare, all’Immacolatella).
“I’ nun dico ‘fai male:’
nu ‘o saccio fa’!”
“Porta l’onore – e cuntame –
a ‘o monte di pietà.
S’impara, impara.”
“E nun sonco cchiù chella
ca ‘mparà può… Tu credi,
‘cu cchelle ccape,
niente da fare’…?”
“Tu sei un’Immacolatella
che niente
d’ ‘o mare
sape.”
La proprietà
Il giorno in cui distinsi
——————————–il mio
dal vostro, io persi tutto il nostro
immenso tutto,
il giorno in cui recinsi
——————————andò distrutto
quel confine che c’era l’orizzonte
solo d’ogni vagare
nostro leggero incantato.
———————————-Così
io m’inibii con una
—————————siepe
ogni monte, ogni mare,
per amor d’una zolla incondivisa,
su cui sol io picchiare,
friabilissima zolla.
————————-E a chi tentò,
per ruzzo, inconsapevole
di barriere, saltare
picchiai in fronte; e a chi bere
poi volle alla mia polla, mia d’un tratto,
e sete e vita estinsi.
Né uno m’abbruciò la siepe, risero
i selvaggi di me, quel folle:
————————————e il folle
moltiplicò le sue
zolle, le sue
zolle,
le sue…
I miti selvaggi ridevano!
Elogio dell’economia
Con sua tale ossessione del risparmio, andava
spegnendo a sassate i fanali ai viali.
S’attenuò anche il lume degli occhi,
per la riserva al domani
– e apposta udì anche di meno, –
e il lume ch’è nei medii cranii,
e, ipoteso già, i pulsi minimi
dei cuori sani (non seppe oh degl’insani
l’alte tensioni, gl’irraggi e il bruciare).
Ovvio, ovvio, anzitempo defunse (consunse
meno giorni).
“Che sperpero di fiori…”
Riemerso dalla cassa, soffiò su tre candele.
Le libertà statuarie
In pergamena è porta a noi la libertà…
E allora, io taccio? e sto? perché?
dilaga errore orrore il dolore
dolore…
————Perché tace e pensa
su una petraia di secoli
un saggio.
Le libertà…
e oggi ecco ripensa lo slogan
della Ford Motor Company:
“Il modello T vien fornito
nel colore che desidera il cliente
purché questo colore
sia i1 nero.”
—————–– La prima auto costrutta,
il T, con il sistema della
catena di montaggio,
della catena… –
———————-Sulla
piramide
si tace, forse
chiuso alla pena, forse
nemmeno cogita,
il saggio.
Di Garibaldi sì
quell’una spada, di mano dolente,
ch’io invocherei – sparita ov’è?… – di bisturi
al mondo…
forse fu un sogno d’Italia e di Sud
America,
di peoni e cafoni
Catone e i due Scipioni
Catone è il Maggiore; Bruto, il Minore;
Tullio, Cicerone; Publio, Scipione Mag-
giore; Lucio, suo fratello.
Stecchito e spiritato
Cato, beve l’aceto, alfine Cato
respigne tra le sue vigne a Literno
Scipio, non mai inebriato
di possa e gloria.
———————–“O Roma
di me indegna,
non avrai
in più, da me, tu, le mie ossa.”
Ma Tullio loda le virtù sterpigne
di Cato – e Tullio è
uomo d’onore.
(Publio bruciato, Cato
incalza e incarcera Lucio per mariuolo:
il probo e povero.)
E piace a Dante più che Scipio Cesare,
Bruto, poi, niente! – e sì, che Dante sa
e delli vizi umani e del valore.
Pindaro e Serse
Pindaro scelse l’attesa, l’ha sciolta
vinti i Persiani, or verseggia per l’Attica.
Mastro egli è d’epinici, gli epicedi
lascia a Simonide.
Miracolo per Copernico
Dove si sostiene che il Sole si sta e la Terra si
muove solo a partire dalla prima metà del XVII
secolo di nostro Signore.
Tolomeo non mentì. Mentì Copernico.
L’enorme sfera stava,
ab initio,
————-caduta all’Artefice
fuor della danza universa
e obliata.
“O Sole, statti, e tu, mite Luna, aspetta”
ingiunse Giosuè con la colante
spada: e il Sole,
è vero, ristette: mistero del suo servile,
perenne, correre in tondo, soccorrer l’ignava
cosa, e senza di lui diaccia e per lui
prolifica d’un moto
di mostri.
Tolomeo con nud’occhio
lodò l’alto giro amorevole
ché al nudo piè sentiva il basso e tumido
livido stare.
——————Mentì
Copernico, e il telescopio
di Galileo…
——————ma sul rugghiar dei roghi
degli eretici,
in orazione fissi a Lui torcendosi
– “Dio, confondi i fanatici gli atroci
armigeri d’un vero… – che è, poi, il vero?” –
in orazione, fumanti, in faville,
ed al Sole sbiancato, che sobbalza,
che vacilla e devia dal suo percorrere
eterno,
e poi sui tizzi
umani e la cinigia
fetida in furia imporpora, e ogni nube
cassa, ed i campi i greti
brucia ai malvivi,
ai ventri di città fermenta pèsti…
l'”Eppur si muove,” gemito sospiro
vile di Galileo, fu scherno e grido
suo, di Dio,
che squassò scagliò la Terra
————————————–a un frenetico
prillìo,
—–bloccato il Sole:
———————————ed al guinzaglio
intorno al Sole,
o come la ciuca alla noria, ella corre
e corre, ché s’ella si ferma
ella è persa.
—————–“E si muove!” balzò,
vi dico, Galileo,
alla scossa d’abbrivo,
cieco in Arcetri – non più telescopio… –
e vide!… un attimo: il Sole, spossato
quietato, ridergli misterïoso.
Il lento matricidio
(2a palinodia di Giacomo)
… ogni già selva, duna.
E il mare s’abbituma, si raggruma.
Per tutti i cieli fuma.
“… l’estrema estrema untura!” “o natura,
o natura,
—————te l’aspettavi, poi,
tu, dai figliuoli tuoi…?”
(“ma i nuovi impianti di ripulitura…
le ‘docce’ le ‘docce’ dei Lager!…”)
“Chi ti chiamò ‘matrigna’?
Ah, sì, fui io: Leopardi.
Anch’io ti disconobbi:
madre fin troppo pia
con gli eccelsi bastardi
in apparenza simili
a Giacomo Leopardi:
e anzi da te fatti,
madre mia, meno gobbi
e più vivi: e ti fotti.”
Ballata degl’impiccati
VILLON:
“Pietà pietà di noi”
I COMPAGNI:
————————-“e d’ogni altro
appeso”
————-“e ogni appendibile”
“e degli appenditori”
“pietà diciamo del mondo che penzola
da una corda invisibile.”
Paesaggio senza figure
Tutto fuggente, sfuggente, nulla
di un Vero:
e in me nulla di statico, sì di labile,
no di torbido, d’insincero:
cuore illanguente ché
tropp’ha veramente battuto;
laringe ardente per il troppo, insulso
canto a un salso vento, fraterno
canto, e per un fitto groppo
di vario pianto. Per dedali, ad un falso
di tramiti, morgane
– ne rutilava, il deserto – e Utopie
spente: da Arpie e Gòrgoni
– o sol violente esse al pari parvenze? –
forse anch’esse poi spente.
———-E tradito e ferito,
anch’io spento… e qui, ritto.
————Da chi? Perché? se sotto
e intorno a me,
nïente,
il brulicare d’un violento
niente.
La gloria
Un po’ di più conosciuti: la fama.
Un po’ di più complimenti: la gloria.
Frustrata, irrisa brama
pure del degno, spesso:
e la laurea rama
tu speri innestata a un cipresso,
almeno: ti batti, ti sbatti,
ti batti…
trascuri, maltratti chi t’ama,
ti perdi chi t’ama.
La vittima del Sor Me
Essa non ha il cuore di dirmi
questa parola consolatrice: “Tanto, lì dietro
è la morte. Lascia
rovelli e zuffe: presto ogni ambascia…” No,
finge la pia d’annuirmi, e mi segue
ancora infelice alle porte
cui busso e che forzo e s’impiglia
e ne piglia anche lei negli estremi
miei matti attacchi alla sorte.
Consorte, verace con…sor…te.
Con Sor Me.
Mio sport
Chi si scalmanò “Forza, forza Binda!”
né mai pigiò pedali
e “Forza Nuvolari!” né mai girò un volante
è quei che poi le ali tenta e ritenta
del cosmonauta Dante.
IN INGLESE
Queen Be
The young queen on her first and usually last flight couples with the
first drone to reach her. The nuptial flight is broken tragically by the
downward plunge of the mutilated male, almost eviscerated: the queen
carries, fixed in her body, his genital organs, of which the waiting
worker-bees will help her to rid herself. But she retains inside, in the
sperm-case, his seminal fluid which will suffice to fertilize her periodically
and copiously almost up to her death. All the other maies, now superfluous
for procreative ends, voracious idlers will be massacred by the female
workers destined to perpetual virginity.
Queen bee,
Love:
———-a gold
fleck in high blue,
an illusion pursued by a carefree
horde of the death-bound… and one one has reached
the fugitive queen in heat.
A leap
———dance
laugh
———-sob,
the sky bed, the whole of
nuptial life in one flight,
——————————–mad
flight, that spiralling
embrace
————-that tracks the Sun to its nest,
which a drunken death shatters…
Fecund and widowed
she glides languid.
Ave, regina…
Are you hugging your spoils close?… Okay! Okay!
What are your thoughts ? …
Love …
Enough of love, wise one: a gold fleck
sped to the Sun…. a nest inside the Sun!… – a plunge,
terrible, a mad
chimera.
Pregnant, pale she glides.
———————————-The others, a silent escort.
“Return… the best of him with me,
in me… Pull it out of me, put it away…
like a spent
standard… I am still on fire,
still…”
————They extracted the standard.
DRONES:
“Ave regina, among the death-doomed
again choose and enjoy…”
QUEEN:
“O workers, those parasites,
break them, the drones, sweep them-
fat and slack-to the winds.
————————————I had my lover at the zenith:
intoxicated I shattered him.”
DRONES:
“Queen, the doomed
wait chastely.”
QUEEN:
“Drunk I gelded and broke him.
He fell from the height of me,-we almost touched the Sun-
he spun down gutted
like Icarus without his feathers. He fainted
with pain, fainted
with pleasure.
——————–And I
did not faint? Did not
empty myself, my wings never wavered?
I am left to my perennial
cloistered pregnancies.”
WORKERS:
“Left to her cloistering
perennial pregnancies.”
DRONES:
“Ave regina, those who are about to die…”
WORKERS:
“They bustle on the honey: now they are bursting.”
DRONES:
“From each one’s 26,000 eyes
they long for a sign from you: to the sky the sky!”
WORKERS:
“They gasp for breath: they mount no petal.”
QUEEN:
“You drones…”
WORKERS:
“Ssssss! they are growing drowsy, drowning in the honeycombs.
The sky tomorrow, kind Majesty.”
THE QUEEN MOTHER (unburdening herself):
“The nuptial life,
don’t speak of it to me, friend, it’s a lightning-flash,
an instant’s aberration,
a madman’s torch on the Eiffel
Tower, a whirling match-head
that dares the Sun. It is…
It is a soft looping down, of death.
And what does she have to show for it (the queen!)? My
exploits! a downflow, a rush of eggs, friend,
that never go to market: daughters
and daughters and daughters, more
than the hive can hold.”
Thus
the old Mother groans.
THE WORKERS’ Invocation to the young queen:
“Procreate, great sovereign,
with all the seed
———————–and the future
of the hive.
The panic and the prayer of us drudges
weak, earthbound, inert
tied to your leap
———————–on the Unknown.”
She breaks the steep flight
and the cruel kiss: glides,
the sperm-case gravid, our
sovereign.
Having soared that one time,
she reigns
with what she brings back.
“Queen, the celibate
and doomed
await your new launching and the sky…”
——————————————————-“I
gelded him shattered him.
He fell from the height of me-almost the Sun.”
————————————————————–She sees it again.
Burns again?
——————–Around the queen who
trembles dazzled,
they massacre the plump male virgins.
And having soared that one time
she reigns
with what she brings back.
She weaves…
after her blue vertigo
——————————shut in
between wax walls,
across the years,
Spring does not pollinate her,
no more glinting of wings,
———————————–perennial
claustral half-shadow,
she weaves thousands of lives
WORKERS:
—————————————-“eggs”
thousands thousands of lives she broods
and counts, and re-counts them, and
broods.
The one time she soars, and the kingdom lives.
Semichorus OF WORKERS:
“Penelope of a dead
Ulysses (dead with dishonor.)”
THE QUEEN’S Lament:
“All at once they even
threw away my standard.”
Semichorus OF WORKERS: –
“A chaste Penelope of a dead…”
Second semichorus OF WORKERS:
“Or was she Penthesilea in the real encounter
with her Achilles?”
Love lifts to heaven, heavenly Love kills…
QUEEN:
“… one is hardly revealed.”
“One is never revealed…”
———————————–sigh from the hive.
Air Mishap
Inquest opened
———————on three
safety-bolts, six
locks
blown like cotton millipedes.
Suddenly the door squirted
into two metallic moths, they twirled
at fifteen thousand feet,
————————————-fluttered
down towards lily-white clouds,
—————————————–to a ring
a glistening viscous field
of Baltic Sea.
The eddy sucked into the oval void
a pillow a purse a shoe and she
was all but ravished: the sparkling, motherly
grey-eyed one.
——————–Athletic arms flexed
she gripped the oval trapdoor’s side
arched her supple belly terrified
above those milky shrubs, steaming
asphodels; a savage wind searched
her flesh but all its fury could not drag her
-vivid blood-down to that ephemeral bed
of asphodels.
——————Her dear companions
caught her. The wound resounded
in the ample bird,
————————which spiralled downward.
Smith straightened out at six thousand
feet that son of a … Through heaven
a wayward radio rattled
‘Save Our Souls”.
———————–And the four
hostesses arose in song.
Windblown, grey-eyed Pallas sang,
but tremulous within;
the three companions sang
blue-robed with her, beat a martial
Christmas air from Ireland’s
glens.
———-Then, recovering in the chill,
one by one a hoarse voice
and a clear added to the chorus
passengers, fresh from their brush
with death.
They wiped the frost
from skin and eye, while little girls
sang out, sang out to Christmas.
(Translated by Ruth Feldman and Briah Swann)
Pollitures
He who greased
———————–the seven seas,
-squid and shark before they reached
the pan, still in their recesses-
he is upright,
——————–more so than his ancestors,
who were more than upright monkeys,
more than seven sages.
He who gives extreme unctuousness
to the wilderness
is not that poor player, Will,
who struts and frets his hour
then collapses on the dusty boards
-just one backdrop, no swing wings.
Once he played the fool, small fry;
now in his tracks
flock and field expire;
——————————he tars
the springs,
—————-chars
the sky,
everywhere boring through the oily
global heart to baste and fire-waste
the globe.
The son of the most upright
is bent already, thigh and shin
curtailed, at his perennial
steering-wheel
———————-a fanciful
tortoise-
and he moves along the limitless chalk of barren lands
but to the stars to the stars he heaves
his putrid breath
which swells on the horizon in a multicoloured
air-filled mushroom
—————————-like a mountain
————————————————-and below
the northern ices burn and bubble
craters sink in one same
blaze.
He has beaten
——————–everything
dinosaur and virus,
twisted
———–everything
in his dwelling-place
this upright one.
He pierced the global
heart, oily throughout: extreme
extreme unctuousness. Oh nature
nature,
did you expect this,
did you, from your sons…?
————————————‘polluture?’
‘What about new plants for disinfecture…
the showers the showers in the Lager!….’
‘he made teeth from gold
and melted the teeth of the showered to gold’
‘a tall human
lampshade
—————-laughs at the latest
news.’
The brook thirsts,
————————-the earth
is hard.
What once was field, is dune.
Tar rots the sea in clots.
Above it all, the heavens fume.
Thus he manures, this black well
of learning, this cess,
—————————-for its final
flowering-the total
graveyard.
While some, yes, towering steel
shaft
——–stands ready for flight
to another
-already charred-
star.
(Translated by Margaret Straus)
IN FRANCESE
Mort du moineau
Un moineau dans mes mains
est mort hier.
Il n’a pas éveillé de pensée
dans le coeur de l’enfant qui l’a pris.
“Il est tombé” dit-il, sans regret.
Le moineau a piaulé, piaulé… bondi de mes doigts
il m’est tombé…
———————–“Adieu!”
le gamin commenta.
—————————–Moi seul…
Moi seul ai pleuré des cieux, des cimes, des tiges
enfermées dans le pépiement de peur.
Pourtant, je souriais, moi seul, à cet enfant
faisant un rire de son adieu.
La mère de Balzac
Laid, il fut
renfermé en pensionnat
par sa belle maman.
—————————-“En sept ans,
pour moi pas de vacances,
deux visites
tu m’as rendu.
Je grandissais – moi laid, et toi belle,
belle… – appréhendant
ta ressemblance”.
Mais les mères doivent-elles s’attendrir
sur un fils laid, si d’autres
fils jolis elles ont… et paresseux,
irrégulier aussi, indocile, et fumeux,
endetté gaspilleur,
bon bachelier notaire manqué
et qui puis noircit, la nuit, de fébriles
registres démesurés,
son propre état-civil, d’autres
engeances enivré à jeter
au monde de nous repu
et bouillonnant et sot?
Cou de taureau, un lutteur…
toujours en son froc blanc
la nuit
il est assis mais assis il lutte
au dedans,
le débiteur chronique que pressent les effets,
et chaque page l’enchevêtre, qui
dix fois indomptée
déforme sa vision,
il lutte avec la Dette comme avec l’Ange
Jacob jusqu’à l’aube,
l’Ange la Dette, qui le hait et l’aime
car elle exprime de lui le sang
de mille créatures éternelles.
À côté de lui
agonisant, maman:
“Oh mon pauvre fils, fou!… grand
oh buveur
de café la nuit”.
Synthèse
Seul,
Seul encore… Personne
ne m’a tendu la tasse
de la consolation,
pour ce que j’ai de vie,
pour ce que
j’aurai donc de mort d’ici peu.
Seul. Epaissis les ans,
grossie la troupe des sots ennemis,
je survole la lutte
entre nous,
—————–qui est notre vie,
soupirant je survole:
c’est donc déjà être mort.
Désarmé, vain,
vers un port
parmi les brouillards
rame le coeur.
Brouillards immenses… Mort,
seul…
———-Parle, Seigneur…
(Trad. Marcel Hennart)
IN SPAGNOLO
El Sauce
Rasgué a mi antojo esbozos
frígidos y fértiles
de victorias: he caído, consciente
de los malos pasos, armas y venenos gratos
al siglo
descartando regiamente
pobre.
Desnudo jovencito, de ojos agudos,
dado a los cachones precoz y arrojado
feroz a la orilla.
Goteando, jaspeado de luna
helada, me estremecía y levanté el puño
al halo de sangre, a las pitas
negras, que acaso eran enredos
de sierpes humanas, allá arriba,
al aullido a las garras de la maleza
negra, que me esperaba –
las oleadas galopaban a mis lomos.
Serpiente y toro, el león y la zorra
me vi alrededor a luz de relámpagos,
o divisé en mí, en al abismo de mí,
enardecido…
——————Y salió
de las tinieblas una sombra,
lenta, encorvada:
que me acalló sumisa; me envolvió en paños,
y cavó mi ira
en un pesado sueño sobre la fina arena.
Al alba
hasta soñé dulcemente: un nido
de hombre bueno, un comedor,
los hijos… Abrí las cejas
al sol alto: mamá me sonreía
al lado, el mar
un chapoteo de torrentito.
Sólo así disipados,
a veces, enemigos y acechos.
Conocí los despiadados
esbozos fértiles
de las victorias vuestras. Sólo
siempre escuchaba las elegías mías;
peanes pero de niños, silencios
de amplias necrópolis, por las vías Apias. –
Aquí estoy. ¿Fuerte, flaco?
¡Oh, qué fácil es agredir, dilatarse grama,
ortigas: abrirse flor,
es éste, áspero milagro!
Doblarse como el sauce…
¿De qué victorias rompí esbozos rígidos?
¿Caí, después? ¿Me rendí o vencí?
¿El sauce, llora, que tiembla
al ajeno correr undoso, y en alto
abriga tibieza de vuelos?
De cabeza el torrente lo deshoja
mugiendo, brinca, quiebra, roba, bulle…
y feble se detiene, luego, se vacía
en un gran campo de agua soñoliento.
Todos en la crujía
Hermana Muerte,
sí, como una hermanita
que sierra los ojos al paciente, enfermo
del mal de haber nacido,
———————————y lentas húmedas
pupilas vuelve a camas en que crujen
pesadillas, gimen amores,
lloriquean los primeros, adormilados, antojos
de los chicuelos.
————————-Pasa
y suspira,
y aquí y allí apaga, y a todos, poco
a poco, de la
delirante crujía,
adormece.
Y Tú, Doctor, mañana nos visitas,
desnudos nos llamas…
—————————¡Sin enojo…!
Dos dedos
Da la mano a quien cae, y a quien se levanta, a quien sube
también:
y corra aéreo por la cuesta
florida:
hallará cumbre seca, desierta
la vida,
y a sí mismo alto en la nada
(así en la cuna oscilaba).
Y tú, dale la mano antes:
la desdeñará: luego…
Luego aquella frente dura, cera mojada,
tendrá falta de dos trémulos dedos.
(Traducciones por Vincenzo Josía)