IL “BALTICO” DI ALESSANDRO AGOSTINELLI di Wlodek Goldkorn 

IL “BALTICO” DI ALESSANDRO AGOSTINELLI di Wlodek Goldkorn

Quando arriva la fine di un mondo siamo smarriti. Così come si sente perduto il viandante arrivato in una città che non conosce, perché ignaro di topografia e toponomastica. E allora si viene assaliti dall’angoscia assieme alla nostalgia per il luogo lasciato alle spalle, pur ben sapendo che quel luogo non è più uguale a come era prima, e quindi non c’è ritorno, e tantomeno esiste un’autenticità, se non nella nostra capacità di invenzione di mondi altri. Può capitare che allo smarrimento si reagisca con curiosità: non certo una medicina miracolosa in grado di raffigurare il futuro, ma certamente un meccanismo che aiuta a percepire quanto l’avvenire presenti e conservi tracce delle memorie del passato. È un equilibrio delicato, quello che permette i viaggi più avventurosi e più interessanti: i viaggi nel tempo. Equilibrio delicato perché la memoria presuppone una buona dose dell’oblio e anche perché l’avvenire può essere immaginato solo a patto che il presente non lo divori, assieme al passato. Baltico (peQuod) di Alessandro Agostinelli che voi lettrici e lettori avete nelle vostre mani, è un tentativo poetico di intraprendere questo tipo di viaggio: un’avventura nel tempo, in cerca di riscatto. Tutti noi impariamo a scuola la geografia politica e le geografia fisica, molti fra di noi sono capaci di elencare le capitali degli stati, i nomi dei fiumi, le misure dei monti. Ma quanti di noi sanno dell’esistenza di una geografia della memoria? Una geografia che parla di terre incognite, degli immaginari “Est”, dei fantasiosi “Nord”, delle identità e appartenenze fantasmiche, frutto della convinzione per cui quando Dio creò l’uomo e la donna, assieme al dono della parola donò loro una, una sola e incontaminata, identità. E invece. Facciamo qualche esempio e avviciniamoci alle terre raccontate in questo poema. O se vogliamo, facciamo la domanda: cosa racconta questo poema? La risposta è semplice, quanto è semplice la vera poesia. Il narratore, guardandosi nello specchio inciampa in una realtà che non conosceva. Questa realtà, geografica e storica, contiene memorie dei luoghi. Sono memorie a nome delle quali si stanno facendo le guerre, oggi nel mondo. C’è un meccanismo per cui la memoria tende ad assumere la forma del sacro e quindi dell’assoluto, che prevale sulla vita e porta alla violenza. Non è facile capirlo, convinti come siamo che la logica e le logiche della Storia seguono uno schema lineare e binario: azione-reazione; tesi-antitesi; nemico- amico. Ci manca invece la capacità di percepire i fenomeni sotto la forma di costellazione, di accettare che le narrazioni sono parallele e che non esistono fonti incontaminate. Così, oggi in attesa di conoscere il volto del mondo non ancora nato, ci restano le angosce e il bisogno di certezze trasformato in una serie di prescrizioni di una vita virtuosa, qui e ora, ciascuno e ciascuna per conto suo, e che non contempla la speranza di trasformare il mondo tutti e tutte insieme. Pochi osano esprimere l’amore per la vita; ossia una pratica di amicizia, sorellanza, fratellanza, e che non esclude errori né teme le contaminazioni e le esposizioni al pensiero altrui. Il nostro narratore si trova in Lettonia. Ma anche in Curlandia, oggi parte della Lettonia, un territorio che ha visto la presenza di cavalieri teutonici e dei polacchi, degli ebrei e dei lettoni, e anche dei russi e via elencando. A sud della Curlandia c’è Samogizia, oggi una regione della Lituania. Curlandia, Samogizia, sono – come tanti altri da quelle parti- nomi dimenticati e per lo più ignorati in quella parte dell’Europa che si crede la “vera Europa”: fra Roma e Parigi, Amsterdam e Aquisgrana. Una “vera Europa” come “comfort zone” che ci permette di non pensare a quello che ci ostiniamo a chiamare “Est” e dove tutto sembra più complesso. La borghesia la complessità la chiama “follia”, da rimuovere o richiudere nelle apposite istituzioni. O, all’occorrenza, distruggere. E parlando di complessità. Da Samogizia veniva Gabriel Narutowicz, nel 1922 il primo presidente della Polonia indipendente. Era polacco? Sì, nato in quella che è oggi Lituania. Ma, seppur polacco, venne assassinato da un nazionalista cattolico che lo considerava “meno” polacco, perché eletto con i voti determinanti dei parlamentari ebrei, tedeschi e ucraini, cittadini polacchi, ma da “veri” polacchi considerati non polacchi. Voleva una Polonia “normale”, l’assassino. Vogliamo continuare? Il più importante testo poetico in lingua polacca, il poema Pan Tadeusz (Messer Taddeo), scritto nell’800 da Adam Mickiewicz, comincia con il verso: “Lituania patria mia”. Era lituano Mickiewicz? Era nato in Bielorussia. Ma parti di Bielorussia erano considerate Polonia, seppur la Polonia non esisteva. Bel paradosso. E possiamo continuare. Spostandosi verso il sud dell’Est e “normalizzando” le memorie “anomali”, Joseph Roth risulterebbe uno scrittore ucraino, assieme a Isaac Bashevis Singer, mentre Marc Chagall sarebbe un pittore bielorusso. Ecco, esistono dei mondi dove la lingua non coincideva con il territorio. Semplice? Sì, ma occorre pensare che fuori dalla finestra esista altro mondo e che nella sua alterità ci assomigli. Lo intuiva Marco Polo, lo sapeva Montesquieu, lo sosteneva, a modo suo Albert Camus, ostinato a considerarsi algerino e non solo francese, ce lo hanno fatto dimenticare gli apologeti, privi di immaginazione, della stupidità (un concetto di Hannah Arendt), di destra come di sinistra. Il poeta si è trovato dunque sulla sponda del Mar Baltico, in una parte di quel mondo in cui nelle stesse città si parlavano quattro o cinque lingue, si pregava seguendo una dozzina di riti e dove i poeti sceglievano liberamente la lingua in cui scrivere e parlare. In quel mondo si è immerso con il coraggio di un subacqueo alla ricerca delle perle. Per arrivarci a fondo non poteva restare puro, perché non lo è il passato che ha toccato con mano. “Come deve essere stata bella / la vita che non abbiamo vissuto”, scrive il nostro autore. Infatti, la nostalgia è sempre quella delle vite che non abbiamo vissuto. Declinata come cura del mondo e recupero delle memorie degli sconfitti, può diventare un elemento di rivolta. Una rivolta da poeta, dove la voce è guidata dalla musica e dalla melodia dei versi.

Postfazione

Wlodek Goldkorn

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