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STILE E MISTERO IN PAOLO FEBBRARO

STILE E MISTERO IN PAOLO FEBBRARO

Forse la poesia è un essere altrove. Scriverla è prendere il volo, librarsi sulle cose, immergersi nell’acqua invernale fino a toccare il fondo. Il mondo deve avere confini più remoti di quanto si crede. Gli elementi sono quattro o forse più e altrettanti sono i mondi in cui si divide il mondo, tutti da esplorare, siano storia e natura, mito o cronaca. Ricorro un po’ inconsultamente a queste immagini per spiegarmi lo stile misterioso, nella sua determinazione e limpidezza, nel quale un naturale bisogno di poesia prende corpo in Paolo Febbraro, forzando i perimetri di ogni oggetto percepibile e pensabile. Febbraro ha un modo tutto suo, civile, razionale, selvatico per eccesso di onestà, di smontare gli scenari quotidiani e scavalcare a oltranza ciò che comunemente è oggetto di fede cieca. Come si vede in ogni poesia, verso e frase di questo suo ultimo libro, Fuori per l’inverno (Nottetempo), i versi invadono ogni semplice atto di pensiero, mentre il pensare non lascia in pace i versi, se ne impossessa, li strazia  e rimodella, inventando senza sforzo apparente la più straniata e straniante musica di parole che si può leggere oggi nella poesia italiana. In ogni poeta c’è un bambino in fuga dai genitori, che continua a sognare la realtà ogni volta che cerca di capirla senza veli e di trovare le parole giuste per dire che cos’è. In Paolo Febbraro questa conoscenza è cercata e sognata, incrocia metafore e concetti torcendo il collo alle une e agli altri. Mi chiedo per esempio cos’è questo: «Do testimonianza, metto a verbale / che un tempo si cantava per lo specchio, / tardava o ci ammalava primavera, / le donne si compravano coi cuori (…) / Del mare affermo la materna crudeltà, / dell’albero la piega taciturna. / Visto e approvato ciò che qui fu legge, / piango, lo scordo e depongo nell’urna» (p. 9). Si comincia con un mettere a verbale, si conclude con un deporre nell’urna. Fra questi due atti che burocraticamente sigillano, ci sono il cantare, lo specchio, la primavera che fa ammalare, le donne e i cuori, il mare, l’albero, il pianto, il dimenticare. Ma chi dice questo? Il testo, come molti altri, è messo tra virgolette, come la voce di qualcuno che è e non è l’autore. L’autore coincide e si dissocia da se stesso: compare perciò, in Febbraro, come una presenza polifonica che allude a una pluralità di punti di vista e di maschere sceniche, in un teatro della storia e dell’anima in cui possono comparire Guido Cavalcanti che parla all’amico Dante, o Sisifo, o Cassandra, o alcuni poeti amati, qui tradotti o trascritti, come Séamus Heaney, Ted Hughes, René Char. Con una frase di Simone Weil nasce anche un’accesa contesa. Se lei ha scritto: «Obbedienza alla pesantezza. Il massimo peccato», Paolo Febbraro si inalbera e contraddice: «Ma non è vero. È giusto il pachiderma, / la mite incombenza di chi non c’entra. / Guarda la colonna come svetta / appena astratta da un fianco di montagna: / eppure è il monte la statua vera, / bellezza spessa e cielo di campagna (…) / Mi piace la superbia che si piega, / l’inverecondia che rispetta il peso» (p. 45). A volte aforistico e labirintico, o stravagante e arguto, come quando scrive che la libellula «è una lucertola alata», «una lucertola / priva della parete, rettile d’aria / ma retrocessa a insetto». O anche: «Che immenso digiuno spalanca le ali / al cormorano fermo sullo scoglio / che cerca drammatico il vento». Oppure: «I granchi sono i pretoriani dei fondali» e «Ti prego, luccio, non abboccare. / Scansa la mia esca con degnazione». O ancora: «L’insonne è chi non vuole / farsi decifrare dalla notte»… Puro divertimento o gioco con la follia di poesie ben pensate, pensate fino all’eccesso, come se il reale volesse essere sorpreso nell’attimo in cui scivola volentieri nell’irreale e consuma così una sua inconfessabile tentazione alla catastrofica perdita d’identità. Paolo Febbraro è un poeta metafisico? Di pensiero? Grottesco? Epigrammatico? Controversiale? Umoristico? Naturalistico? Innaturale? È un dato di fatto che ha studiato Palazzeschi e ha pubblicato un ponderoso volume sugli idioti o personaggi che vedono e sanno altro, dai Greci al Novecento. Dietro questo poeta c’è un critico stravagante. Sotto il critico serio c’è un poeta che fantastica sui concetti e (senza pathos) sulla fine del mondo.

Alfonso Berardinelli

Il Foglio

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