Paolo Bertolani è nato nel 1931 alla Serra di Lerici (La Spezia), dove è scomparso nel 2007. I suoi libri di poesia: Le trombe di carta (Carpena, 1960), Incertezza dei bersagli (Guanda, 1976, 2002), Séinà (Einaudi, 1985), E góse, l’aia (Guanda, 1988), Diario greco (El Bagatt, 1989), Dall’Egitto (postfazione di F. Bruno, Rugani, 1991), Avéi (Garzanti, 1994), Sotocà(prefazione di G. Tesio, Liboà, 1995), Die (prefazione di P. Lagazzi, Diabasis, 1998), Libi (postfazione di G. Tesio, Interlinea, 2001, Premio Lerici-Pea), Se de sea (prefazione di F. Bandini, San Marco dei Giustiniani, 2002), Piccolo cabotaggio (ConTatto, 2004), Raità da neve(Interlinea, 2005). I suoi libri di narrativa: Racconto della Contea di Levante (Il Melangolo, 2001), La grande settimana (con M. Spagnol, Salani, 1999), Il vivaio (introduzione di A.M. Carpi, Il Melangolo, 2001), Il custode delle voci (introduzione di R. Benigni, Il Melangolo, 2003), Colpi di grazia (Il Melangolo, 2007).

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POESIE

Paesaggio
a Nardo Dunchi
Fra noi correvano frasi
semplici come l’acqua. Poi
con Eli
con Ti
e gli amici francesi
abbandonammo il fiume per l’aria
più tesa di Punta Corvo. Lassù
ci mostravi ridendo il precipizio
narravi delle volpi
che la notte passano in giochi sulla riva.

La strada del ritorno era fra pini
olivi ed eucaliptus
tra una fuga di muri e vigneti.

Giù in fondo
da canne foglie e siepi di mortella
scorgemmo il cammino dell’acqua
e i mezzi fari sulle tavole
del traghetto.

Chi resiste è il mare
E tu vorresti rompere a furia di baci
l’amaro equilibrio? Il sottobosco
è roseo di foglie cadute
e appena ieri era di un verde acceso
tutta la montagna.

Chi resiste è il mare
ancora verde sotto le calanche
azzurro al largo
dove tra poco passerai
nella rotta che fanno abitualmente
le vecchie petroliere.

A me disé: Liguria
A me disé: Liguria,
dae póle ar mae… A me, che sa le mio,
‘r mae, l’è da luntàn, da chì dónd’a vivo,
tra i muréti a séco chi rése ‘a poga tèra
ch’la basta a mala pena a fae butàe
tréi uìvi storti, ‘n pae de rapi d’ua
e quarche sómio.

Ma savélo, chi gh’è,
avée sé nève da ‘n gabiàn sbandà
stradà fina chì dai canài,
savée chi se mèva zu ‘n fondo
come ‘n bèstio fidà,
i pè redime vèga e – la n’è rao –
ravìme ‘i òci aa banda turchina
di giornà.

Mi dite: Liguria – Mi dite: Liguria, / dalle sorgenti al mare… A me, che se lo guardo, / il mare, è da lontano, è da qui dove vivo, / tra muretti a secco che reggono la poca terra / che basta a stento a far buttare / tre ulivi storti, un paio di grappoli d’uva / e qualche sogno. // Ma saperlo che c’è, / avere sue notizie da un gabbiano sbandato, / istradato fin qui dai canali, / sapere che si muove giù in fondo / come una bestia fidata,/ può ridarmi slancio e – non di rado – / aprirmi gli occhi alla parte azzurra/ delle giornate.

Mae-Mae
a Valentina
Donde portàgi ògi ch’lè doménega
‘ste gambe liche-lache, vèce ormai?

Pigiàe ‘n treno chi tràchia ‘’n rivéa?
Ma nicò là gh’è ‘r mae

chi va chi ven
chi nó se vèi ferme – mae

chi me raménta sempre quélo
che me fa stae mae.

Mare-Male, a Valentina – Dove portarle oggi che è domenica / queste gambe così-così, vecchie ormai? // Prendere un treno che attracchi in riviera? / Ma anche là c’è il mare // che va che viene / che non si vuol fermare – mare / che mi ricorda sempre quello / che mi fa star male.

D’aprìe
‘Sto mese ‘n fióe me svégia
nó l’arelèio, nó ‘r campanae menudo
che drento ae rudelete, quand’a vòi,
i principia a sonae,
ma tute e qualità de usèi
che aa prima luse, a scomissa,
come bón lavoanti,
squasi drento ar me lèto
i vene a ciaquelae.

D’aprile – Questo mese in fiore mi sveglia / non l’orologio, non il campanare minuto / che dentro alle rotelline, quando voglio, / comincia a suonare, / ma tutti i tipi di uccelli / che alla prima luce, a gara, / come buoni lavoranti, / quasi dentro al mio letto / vengono a chiacchierare.

De stada II
L’è tórna ‘r tempo ch’aborìsso a stada
e ch’a me ‘nfrìco ogni vòta de pu
donde a màcia la se ‘nfóda
e come a mana a spèto
che tuta a bèla séa
la se nónsia
co ‘e prime
sensàe
– e co’ i usèi, chi aoménte
e po’ i sméte de bòto
e gh’è ‘n momento che tuto se fissa,
chi pae morto, e po’ la riva ‘n ventisèlo
fresco daa banda der mae…

D’i vòte a cambio strada e a vago a sbate
‘nta cà spèrsa da Cosemìna, e a me sèto
tra ‘e mófe de quei comodi vèti chi rembómbe
– nicò si dise che ogni tante lune
la ghe revén i spiriti miàe
cós’la gh’e de cambià.

D’estate II – Di nuovo è il tempo che aborrisco l’estate / che m’infilo ogni volta di più / dove il bosco s’infolta / e come la manna attendo / che tutta la bella sera / si annunci / con le prime / zanzare / – e con gli uccelli, che aumentano / e poi smettono di botto / e c’è un momento che tutto si ferma, / che sembra morto, e poi arriva una brezza / fresca dalla parte del mare… // Delle volte cambio strada e vado a sbattere / nella casa sperduta della Cosimina, e mi siedo / tra le muffe di quei vani vuoti che rimbombano / – anche se dicono che ogni tante lune / vi ritornano i fantasmi a guardare / cosa c’è di cambiato.

Dell’altra bambina
La pioggia che da un cielo
ora vicino e prima a pecorelle,
le mani che ripongono i vasi
di fiori e assicurano le imposte,
lo scroscio che segue
e fa il paese raccolto,
quello che nella casa è quiete
o movimento
– cose da cui sei lontana,
che non sai nominare.
A stento volgi verso gli angoli chiari
il collo tuo di passero non ancora abituato
alla luce, e allora pare rifletta un pensiero
la tua persona appena verde.
Quello che ti contrae la bocca in un sorriso
non è il sogno del fiore della lepre
– come tua madre mi ripete e spera –
ma forse solo un tenue movimento di luce
una raggiunta pace viscerale
dopo quelle tue prime settimane qui,
lasciato il buio involucro
dove hai preso una forma.
Ora sui tetti, sopra il verde degli orti scampato
all’autunno, si dilata lo scroscio. Io ti immagino
avanti negli anni, penso ai passi obbligati
della vita, a che impiego
di cuore là ti attende
– docile, se mi somigli,
andrai incontro ai franchi tiratori –
dovrai passare anche tu dentro la selva
oscura, anche tu subire, provare vergogna,
imparare la triste pazienza di vivere.
Ma anche se dovrai maledire, dire
c’era una volta
e poi vedere un rincorrersi folle di topi
e l’aria della stanza chiudersi
come una porta,
sappi che sei la goccia che mancava
il peso di piuma che mantiene l’amaro equilibrio
– e preziosa così,
come chiunque alta, irripetibile.

Variazioni con uccelli
I

Fatto entrare
il mattino – nettezza
e lividume che dilagano fino al sacro
cuore nella tastiera – è un altro giorno, dici,
un foro in più nel biglietto
dannato. Consigliami tu che vestito
che faccia per affrontare la luce.

Il frullo che hai sentito nel sonno era un uccello
costretto nel camino da un vento che per quanto
è stata lunga la notte ha battuto i magri
appezzamenti e rinverdito frane
da anni assestate. (E qui ricordi il destino
della cesena che hai visto dal balcone nei giorni
del passo fulminata nella cabina dell’alta tensione).
Se ti alzi vedrai il piccolo
scheletro in un pugno di cenere più chiara…
Ma ora il vento è caduto, c’è l’aria che rovescia
le foglie come quando si presenta
la neve.

II
———Ah il buono
di certe giornate – qui, o alle sagre
da qui remote, sul fiume. Le tavolate
furiosamente umane.
Dici che stai morendo in un banale
intruglio di carte da gioco e di lunari
e che non sono del gruppo
premuroso che fa quieti i rumori. E rumori, blandizie
del mondo sono schiuma che insieme
ai gerani gela ai vetri.

Dici che sei vivo nell’artrite, nella solita
testa da cambiare che rintrona
quando la luna è fiele nella gola
dei cani.

———Nella borsa riponi
calde lane, libri imponenti:
come se tutto nel verde, e interminabile,
dovesse procedere il viaggio.

E altro cielo
Con gli occhi e grazia
di giovane gazzella
chiudevi in te gli oggetti
più dolci della sera. Era il minuto d’oro
e nel letto di foglie ti dicevo: io
mi continuo in te
non ho più morte – finché giungeva
quel furioso stormire del sangue
e ti volevo carne
e ti cercavo il caldo più segreto.

Ora che hanno messo fra noi
la dura consistenza delle strade
dei ponti e delle selve

ora mi cresci dentro più serena:

amarti in silenzio è scrivere
il tuo nome nel bianco
di tutte le cose. E altro cielo
chiuso alle parole.

Domande
Potevo figurarti
in ogni immagine prossima e lontana.

Altro tempo. Convoglia
ora la notte nei miei specchi
ombre di niente…E mi domando
se valeva la pena di piangere
accigliarsi
tremare sino all’ultima foglia
scandire le notti col cuore in tumulto
sperare
disperarsi
appendere la luna alla tua casa
e scrivere
turbarsi ad una nulla
credere in una spalla i confini del mondo
e ancora disperarsi
illividire
e questo per anni
-se valeva la pena
per giungere a  capire che nulla hai tolto
e aggiunto alla mia vita
e scoprirmi una sera nel vuoto
di prima di incontrarci.