La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Gian Mario Villalta



 

Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (PN) nel 1959. Insegna in un liceo ed è direttore artistico del festival pordenonelegge.it. Ha pubblicato i libri di poesia: Altro che storie! (Campanotto, 1988, Vose de Vose/ Voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (sassella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume, tra cui i saggi La costanza del vocativo. Lettura della "trilogia" di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati, 1992), Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli, 2005), e ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondatori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte (Mondatori, 1999). Del 2009 è il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori). I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondatori, 2004) e Vita della mia vita (Mondatori, 2006), Alla fine di un’infanzia felice (Mondatori, 2013).


E-mail    gianmariovillalta@tiscali.it

 
 

Da Vanità della mente (2011)

 

 

dalla sezione Nel buio degli alberi

 

 

*

 

Si diceva che una festa era stare così,

con le braccia vicine, tutto il mangiare nei piatti,

il buio degli alberi, l’estate piena dei suoi rumori.

Possiamo farlo ogni volta...”

Dalle parole sapore e parole dai sapori.

Le nuove serate insieme a tavola,

i progetti, le date... ci apparivamo migliori,

gli amici e noi, per prova

nel ricordo del dopo... una prossima volta

in questa prima accadeva, pensata, e pareva ripetersi

come non sarebbe più stata.

 

 

**

 

Posso aggiungere solo che incontro

sullo stradone ogni mattina

i pioppi, e uno per uno

fogliano lenti e insieme fanno il tempo.

Ogni giorno anche loro cambiano,

li indovino nel verde più intenso

(vorrei fermarmi, guardarli uno per uno)

e quando ritorno, ogni giorno, nell’altro senso,

li perdo – e allora penso: passano.

 

 

***

 

Quello che sento diventare è sapore

e distanza che si piega nella mente.

Il tiglio è adesso tiglio veramente,

ogni goccia di pioggia nel suo nitore

è pioggia e goccia infinitamente.

 

****

 

Ruotano intorno al noce le cinque case,

la terra dolce arata, la strada alta.

Anche i nuvoloni e il muro di pietre

ruotano dolcemente intorno al noce.

E chi si ferma a comprare dei fiori bianchi

sotto il tendone all’incrocio nel camper

intorno al noce ruota e non se ne accorge.

Viene a incontrarmi, calcolando il metro

del mio passo, la curva dello sguardo

fuori di me, il noce intorno ruotando.

 

 

 

*****

 

Sono venuto qui a guardare gli alberi

anche se è buio. Vedo come si incurva

la terra e posso raggiungerla

dove l’erba falciata sbianca.

Sono i miei pensieri più antichi

i rami nel buio, la terra guardata.

In pensiero di casa

 

 

 

dalla sezione Vedere al buio

 

La casa vecchia

 

La gru andava via con un giro lento dietro i nocciòli.

Era settembre. La casa era quasi finita

e sarebbe rimasta così per sempre,

con i ferri ricurvi in terrazza,

la malta grezza ai lati della scala.

 

Il rampicante rischiara la parete,

ricopre il muro, la rete dell’orto.

Lo zio era un ragazzo quando è morto.

Poi altre estati calcinarono le vertebre,

inverni gelarono i nervi del grande corpo contorto

di lobie, stalle, tettoie.

 

Le automobili dalla statale

proiettano a lampi sopra il letto

il negativo delle persiane

prima di addormentarmi.

 

Inizio sempre da qui, lo sguardo fisso

nel buio: ricostruisco la casa vecchia.

E mi inabisso

con i visi e le mani che si pensano,

proprio quando è il momento di riunire

tutti in cucina, con le voci che feriscono

per proteggere, mentono per salvare.

 

 

 

Da madre a figlio

 

Le palpebre chiuse, piano, senza stringerle,

che si perda la memoria della luce.

Adesso apri e non guardare niente.

Lentamente trova l’ombra (ce n’è sempre),

trova una linea, un contorno sullo sfondo.

Adesso guardati le mani. Se le vedi,

calcola la distanza che separa

la loro forma dalle sagome più scure:

ora trasforma il vuoto in volume.

 

Avrei voluto insegnarti un bene grande,

l’acqua che nasce, le nuvole selvagge

sopra i campi profumati dai sambuchi.

Avrei voluto il tempo di conoscere

il mio cuore che ti aiutava a crescere.

 

Ma non c’è tempo. Lentamente, trova l’ombra,

trova una linea, trasforma in orizzonte

la distanza tra un’ombra nera e il fondo.

Posso insegnarti a vedere al buio.

Non c’è mai tempo, prova adesso, prova.

 

 

 

In pensiero di casa

 

Unica anche la tua –

chiede – anche la tua –

sofferenza unicamente

perché.

E non si accontenta

di risposte. Deve assestarsi

come osso,

callo calcareo che asseconda

la lenta ripresa del movimento

nella frattura, un dolore che passa

dentro un dolore diverso, diversa postura,

menomazione più lieve e duratura.

 

 

 

 

 

 

 

dalla sezione Atto unico

 

*

Ho aspettato la fine della giornata, e la stanchezza

per accostarmi a questa terra

e non ho portato fiori,

perché li ha fatti la terra, i fiori, e se li prenda.

Ti ho portato le mani, le ho posate

su questa terra squadrata, perché le mani

le ha fatte nostra madre e non possiamo renderle.

 

 

**

Sanno di cenere le labbra e sabbia

nell’incàvo del sonno, sanno come

si apre tutto e si affonda nella notte

insieme con la casa

muti.

Cosa c’è nella pietra?

Lontane nuotano nuvole –

mani vuotano il cielo. Cosa c’è dentro

la pietra?

Sanno di acqua, le labbra, di pianura

e latte freddo, attesa, indecifrabile scrittura delle stoppie,

sanno come si parla alla pietra,

come la pietra

ascolta.

Nessuno aiuta il nostro dio

a continuare la creazione,

nessuno più lo pesca in fondo al male

con l’anima-uncino: anche uno solo

di questi bocconi risputerebbe: alito Ritorni istriani

e argilla, i semi neri del nostro sonno.

Anche la pietra cresce, una parola

calcarea goccia bianco

su bianco – nessuno aiuta il nostro dio

a scrivere ancora –

e il cielo, l’erba, di che cosa

devo meravigliarmi.

 

 

 

 

 

dalla sezione Regione

 

 

 

Generazioni

 

La pressione dell’erba nuova aggruma il verde

a un centimetro dal suolo, in sospensione.

Così le parole di chi si innamora

formano un nuovo colore

sul parlare comune, delimitano appezzamenti del sentire,

contendono alle frasi il nutrimento.

Così si forma la lingua famigliare,

così cresce e diventa quotidiana

la lingua propria del sentimento

di quegli unici corpi, di quei muri,

quella scansione condivisa del tempo.

La lingua che i figli falciano e disseccano

crescendo, disperdono di nuovo per distrazione,

per la pressione del desiderio, per amore.

 

 

 

 

Stazione di servizio

 

Affanno nel fogliame, nell’attesa

della prima sgrondata di piovasco.

Tu che sei sceso dall’auto per pagare

annusi l’aria, alzi il bavero, ti guardi

nella vetrata mentre ti avvicini.

La bandiera tentenna nei tiranti.

Tu alla colonna della benzina

con la faccia controvento di trequarti.

L’uomo prende la carta, l’erba alta

preme sul cartellone con un paesaggio

appoggiato tra il marciapiede e il muro.

Tu e le tue dita che perdono lo schema

delle cifre da imprimere sulla tastiera.

Quando riparti (hai pagato, confuso

dopo altri due tentativi – in contanti)

l’uomo è rimasto immobile a guardarti

come avresti ripreso la strada con quel sorriso.

 

 

 

 

 

 

 

Vero viso

 

Un viso, nell’opera degli anni, quando si compie?

Uscendo dall’adolescenza, quando pare fermarsi

per la prima volta, dopo tante prove e i tentativi

di assomigliare a un parente, o a un amico, falliti?

Oppure quando passati i quaranta anni,

nel peso delle palpebre, nell’esimersi delle labbra,

nella tensione delle narici, il carattere,

le manie, vengono fuori, i vizi, la memoria

che adesso occupa il suo presente?

O quando, prima della devastazione, vi si imprime

l’ultima forma, semplice, riassumibile in poche linee

essenziali, l’effigie, la caricatura?

 

 

 

 

Sera

 

La luce si alza verso il cielo sopra le luci

e il buio dolce degli edifici

abbraccia a lungo lo sguardo.

La luce si alza con un respiro

e promette a tutti un segreto, quiete profonda, pianto.

Passano una sull’altra

facce nelle auto che incroci,

le guardi, a cosa appartieni questa sera, a chi parli?

La lingua perduta degli stormi

che alti si adunano nella luce.

La lingua dei perduti per una parola non detta,

per una parola distorta pervenuta all’orecchio.

Per una volta non sia la ragione o la colpa,

chiama tu, pronuncia le parole che più non hai detto.

Non c’è vergogna se trovi nel cielo di questa sera

fiducia in qualcosa che non conosci,

e non la vita che si sogna,

ma qualcosa di tuo nella vita che vedi.

Adesso componi il numero, adesso chiedi.