Pietro
BRUNO

Pietro Bruno è nato a Messina nel 1942. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Il sole tramonta ad Oriente (Edizioni del Leone, 1985); Futuro Anteriore, poema in quadri (Edizioni del Leone, 1996); Il viaggio di Nicolò, poema (Edizioni del Leone, 2005). Suoi versi sono apparsi su numerose riviste come “Smerilliana”, “Soglie”, “Poesia” ed è presente nell’antologia 7 Poeti del Premio Montale (Scheiwiller, 1988) risultando tra i vincitori, sezione inediti, nel 1987. È autore di romanzi per ragazzi. Ingegnere, viveva a Padova, dove è morto nel 2012.

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POESIE

da PRIMAVERA

Al Caffè Pedrocchi
*
– La moglie di Aldo,
mio fratello che è morto,
la moglie che non stava
tanto bene
ha voluto trovare
a Vicenza
la figlia malata…
– Forse il cambiamento d’aria…
– Macchè, l’hanno ricoverata.
– Oh, per carità!
– Dacchè è morto il marito
sembrava indifferente,
un po’ stava a Vicenza,
un poco dalla nuora.
– Cosa vuoi, la nuora!
– E il ragazzo?
– Il ragazzo ha ormai la fidanzata.
Con le spalle rivolte alla vetrata
(e filtra il pomeriggio
tra i suoi capelli radi
tenuti alti come gloriosi
labari in parata)
sta parlando
quella che ride
sempre
o almeno così pare.
Forse le labbra
rosse
non si chiudono
sulla dentiera mal fatta
o è soltanto questione
di respiro.
Tiene la bocca aperta
(in un sorriso? )
sotto il naso rapace,
gli occhi coperti
da enormi occhiali neri,
la grande borsa
cullata dolcemente
in grembo.
Alla sua destra
la più vecchia
di tutte,
o la più arresa
(è anche la più dimessa),
sta sempre zitta
e fuma
strizzando gli occhi
col ritmo di un pendolo.
Occhi fessure.
Alla sinistra
(- Io stamattina
convinta che fosse
domenica,
verso le nove e mezza
vado a Messa)
una faccia d’ocra,
tonda, tonda
tondi gli occhiali
con montatura bianca.
Muove sempre la bocca
come chi piange
un pianto silenzioso
le lacrime coperte
dalle lenti scure.
– Ho una forma intestinale,
non so se sia
una forma di influenza
che prende l’intestino
– Io prima non mangiavo
senza vino. Lo sai.
Ora mi fa bruciore.
– Oggi ho mangiato
una minestrina di brodo,
una fetta di lingua
e un piatto di zucchini,
con quello che costano,
zucchini lessi.
– Io apro,
la mattina,
tutte le finestre.
Qualsiasi tempo sia-
lo sento dire
a quella che non
vedo.
Un cappotto cammello
che sembra messo
addosso ad un cuscino,
con un cespuglio
di capelli grigi
un lobo
un orecchino.
Invece vedo bene
la più grassa
(- Saran stati dieci gnocchi
e cinque sparagi di numero,
domenica,
e una fetta di dolce-
quella era buona-
e un quartino di vino)
che parla come
non avesse i denti
le labbra aperte
sulla lingua rossa,
il mento
una ghiandola sperduta
nella mammella
flaccida
del collo.

da IL TEMPO, LA MEMORIA E LA FAVOLA

Colonia
Me ne ricordo tanti
in quella spiaggia
che se il tempo
ci avesse messo in fila,
per passare,
ancora sarei lì
a trascinare a riva
l’orizzonte.

*
Passa il tempo del gioco
con l’ultimo fischio del prete.
Dimenticata nel cortile
è la gioia che si gonfia
si alza e rimbalza
che arriva ai tuoi piedi
e puoi prenderla a calci.

Nella strada
Nella strada
lontanissima
lì proprio sotto casa
passi quando la scuola
è finita.
Da dietro i vetri
alito sulla memoria
e non ricordo
di ricordare più.

Prima Comunione
Mi hai detto goffamente
tutto quel niente
che avevi capito.
Ma adesso riposavi finalmente.
Adesso era finito.

*
Le memorie intinte nel vino
stemperate dal sonno
confuse nel mattino
io non so a chi appartengano.

L’uomo a cui lavo la faccia
oggi
ha qualcosa che non vuole
dividere con me.

La casa in cui ho vissuto
La casa in cui ho vissuto
ha i sigilli alle porte.
Nel buio delle finestre
chiuse
la goccia non martella
più il secchiaio
ed il silenzio disegna ragnatele
sulle pareti nude.
Una sera
rimuginando i passi
in quella strada
l’ho trovata abitata.
E dentro c’ero io
così felice che m’è parso
un peccato disturbarlo.
E son tornato indietro.
Nella notte.

La passeggiata
Così fermi un istante!
Sorridete!
E al lampo del magnesio
furono tutti insieme nella lastra.

Il velo nero spariva nelle mani
dischiuse per un volo di colombe
dentro il giardino inglese.

Singole note raccolte in assonanza
avanzano tenendosi per mano,
pallidi nell’esame
dell’essere guardati.

Poi quando la luce della sera
ridipinge di seppia lo scenario
si rifugiano ancora nell’istante
uniti nel gazebo
difesi dal sipario del sorriso.
Con il viso affondato nella madre
a piangere è soltanto la bambina
per quella timidezza
per cui ha vergogna di piangere.

Villa Letizia
T’accompagna la voce
sino a quel punto
estremo del foglio
riservato ai saluti.
Quando sarai grande
mi porterai.
Era l’anno dei gelsomini
fioriti sul balcone
che scotta i piedi nudi.
E il catrame
tra le mattonelle
è un lutto che si liquefa
al sole.

*
Quando dormi sei
così estremamente
lontana
e nello stesso tempo
così estremamente
dipendente
dalla mia veglia.
Non dormi serena
come la gatta
che sa ogni cosa,
t’arrampichi su sogni
che tanto t’appartengono
da rimanerti ignoti.
Quello che è nostro
noi non lo sappiamo.
Non possiamo barattarlo
neanche con un giorno di vita.

Voi vivete
Voi vivete
carcerati tutti assieme
dentro i miei occhi chiusi.
Voi vivete.
Non chiedetemi la libertà.

*
Io amo i pazzi
con gli occhi smarriti
con gli occhi grati
per una bugia,
avidi di cortesia,
dolcemente noiosi.
Io odio i pazzi
che non sono furiosi.

America 1984
La coda per l’imbarco
su questo bastimento
con le ali
scivola lentamente
come la lacrima
che gonfia la valigia
legata con gli spaghi
del pudore.
Dietro la vetrata
parenti fermi
nel vestito buono
percorrono a ritroso
tutto l’oceano
per rimanere là
dove la terra
ha il sesso
e nella notte
ci si fa l’amore.

Le campane
(Portese, 31 Luglio 1985)
I pesci dentro il lago
hanno carne e sangue
che non sembra reale
sotto le onde
e sotto la majonnaise.
Vegetariano ipocrita
li spruzzo di limone.
Ed acqua minerale
miscelata col vino.
Vino e pesci e pani
già moltiplicati
da un Dio sclerotizzato
che qui conta le ore
con voce di campane.
A moltiplicare
gli orologi di quarzo
ci hanno pensato
invece
i giapponesi.
In tutto il mondo.
E il tempo passa
ovunque in silenzio
e quasi non mi accorgo
che quest’anno ancora
si è interrotta la scuola
sulle mie insufficienze
ormai croniche
ed irreparabili
a Ottobre.
Dalla finestra aperta
sento motori
che russano altri sonni
ignari di girare
attorno a un lago.
Ad un mare finito
e senza sale.
Così ringrazio
il parroco fissato
che suona le campane
per svegliarmi
per ricordarmi
che questa è un’altra scuola
e un’altra estate.
Domani mangio wurstel
che è carne di maiale.

Pinocchio
Quando ogni ceppo al fuoco
ti diventava cenere
ed hai capito l’ora
che passava,
hai dipinto la fiamma
nel camino
per barattare con il calore
il tempo,
e con l’ultimo legno
mi hai fatto.
Un burattino
che della solitudine
distruggesse l’angoscia
e no il silenzio.
Per questo devo odiarti.

Anche dall’ubriachezza
dell’amore
quello che annulla
morte ed egoismo
(altruismo e vita
forse diresti tu)
nascono burattini.
Marionette legate
ai fili di un cognome.
Tu sei nato dal pianto
e per quante mai croci
ho genuflesso
la tristezza è madre
del rancore.
Perciò non ho potuto.
Subito. Amarti.

Quando non hai serrato
l’uscio
al Paese dei Balocchi,
quando hai permesso
che pagassi i miei sogni
turchini
col raglio disperato
di un somaro,
quando,
bambino inutilmente,
ti ho cercato
per ritrovare il suono
del silenzio
tranquillo
tra coperte rimboccate,
ti ho odiato ancora.
E amato.
Come me stesso,
il marinaio che naviga
a ritroso
verso i capelli bianchi
sulla riva.
E non gli basta questo
e quello.

Remando verso te
che eri la vita,
quella che mi restava,
sono morto
nel ventre di balena
di una morte serena.
Finalmente.
E quando mi hai raggiunto
nella mia stessa tomba
“Finiti padre e figlio
– mi son detto –
come è giusto che sia”.
Ma poi s’è rivelato
che padre e figlio
non si finisce mai
e sono uscito
per morire ancora
dietro ai tuoi sogni.
Allora sì.
Ti ho amato.

Se i due ladroni
avessero lasciato
il seme sotterrato,
nel Campo dei Miracoli
forse sarebbe nato
il tronco e il ramo e,
alla carezza di uno
stesso vento,
insieme
un altro frutto.

da FUTURO ANTERIORE

*
E’ già mattino
e non c’è ancora luce.

Mia madre s’è già alzata.

Le cose che la notte
ha anchilosato
svegliano piano
il sonno della casa.
Sono sbadigli piccoli
ancora sul cuscino,
il brivido dell’acqua,
la maniglia,
il gorgoglio del bricco,
la spazzola che imbianca
i tuoi capelli.

Inspiro – espiro.

(I piccoli rumori
descrivono il silenzio.
La soglia del contrario
dall’opposto.
Notte e giorno).

Il fiammifero striscia ciabatte
e sbatte l’anta
del latte condensato.

Espiro – inspiro.

Qual è il cuore che batte
dentro i miei occhi chiusi?

*
Per la finestra aperta
(giusto il tempo
di chiudere le imposte)
entra un lembo di notte.
Ed un brivido dopo
diventa buio di casa
che passa dentro il naso
col respiro
e che è la tua aria
ed è la mia.

Espiro – inspiro.

Nel cielo sopra il cielo
del mio tetto
si trita nell’aria di fuori
il fischio lontano
di un fuoco che sale
squamando d’argento
la coda di luce.
Aspetto lo scoppio,
la chioma
che esplode in frammenti
raccolti in bagliori
negli occhi
che il botto ha serrato.
E’ la stella cometa
che poi caduta a casa
sul sughero più alto
della grotta, non spaventa
galline e dromedari
né pecore e pastori
e neanche me.

Stanotte a mezzanotte
nasce Gesù Bambino
l’unico Dio
che non mi fa paura.

Espiro.
Tende il ventre
di rughe la zampogna
fino alla nota
che s’alza, striscia
intenerisce ed eccita
spaventa
e poi finisce
in uno sbuffo, un soffio,
in un sospiro.
Inspiro.

*
“Non mangi
non stai bene?”
Passa mia madre e viene
a toccarmi la fronte
con la mano.

Velo viola
melanconia
che sale tutti e quattro
i quattro piani
ed entra in casa mia
e piagnucola gocce
nel secchiaio.

Quel tanto di sicuro
che resta fermo lì.
Non rimbalza
e non rotola.
Basso d’altezza tale
da pagare il biglietto
in filovia,
non sale sulla sedia,
quel poco di certezza.

“C’è l’acqua nella vasca
si raffredda
non ti chiudere a chiave”.
E invece sì.

*
Christeleison
gloria excelsis
kyrieleison.

Ebraico,
greco armeno,
arabo russo,
gotico,
ruinico cirillico.
Anche latino.

Don Giuseppe Miracola
sta esasperando Dio
che oggi s’è tirato
sopra gli occhi
la coperta viola.
Non Gli piace.

Guardo il Pantocreatore
e mi pare seccato
di non essere stato disegnato,
appiccicato sopra la vetrata,
con la faccia rivolta
verso fuori.
Da lì si può vedere
fino al mare.
(Così mi son distratto
e quasi mi scordavo
di portare il messale
all’altro lato).

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