LAGAZZI: 36 POETI ITALIANI CONTEMPORANEI
In copertina il bel Marte dormiente di Piero di Cosimo suggerisce il tema che dà titolo e unifica i saggi di Paolo Lagazzi La stanchezza del mondo, Ombre e bagliori dalle terre della poesia (Moretti&Vitali), ma anche comunica (meraviglioso è il giovane dio!) il segreto dell’arte, quel sottile e perenne dono di verità e bellezza che affascina e consola. Lagazzi nella sua introduzione si sofferma sulla deriva della società presente, ne tratteggia, richiamando Umberto Eco di Apocalittici (i veri realisti? Si chiede) e integrati, il cammino verso una rassegnata “stanchezza”, mancanza di vitalità, sentimento della fine. Si appoggia, lui che di Attilio Bertolucci ha saputo intimamente seguire il destino umano e poetico, proprio al poeta che, più di altri, ha avvertito il male di vivere, l’angoscia della morte, il peso della nevrosi, contrastandoli, non negandoli, con la luce della poesia, con “una fede irriducibile nella vita”. Sono le sorti della poesia attraverso le voci dei 36 poeti, sui quali si sono soffermate negli anni la sensibilità e l’intelligenza critica di Lagazzi, a farsi pensiero dominante e a contrastare, nella conclusione, le premesse negative. (Si legga in apertura l’intensa Istruzioni per l’uso della stanchezza). Se applicata alla poesia infatti, la “stanchezza”, che per lo scrittore è “stanchezza del genere”, dell’essere confinata in ruoli incomprensibili, come scrive per la potente Via Crucis del Sacro Monte di Varallo, la “stanchezza”, si diceva, viene meno nel momento in cui la rappresentazione del dolore si stempera agli occhi di chi guarda, si alleggerisce in una visione lieve: “le contorsioni diventavano una specie di danza” e una via per l’infinito. Proprio questo accade nella poesia, che pur generata dal disagio di vivere, dal disincanto, sa donare, attraverso lo scavo della parola, l’essenza delle cose e degli esseri, l’invenzione del linguaggio, la rinascita dopo l’esperienza del nulla, dopo l’ aver “tremato”, con Blanchot, nel profondo. È questo il filo conduttore del “sillabario” (gli scrittori sono sistemati in ordine alfabetico) di Paolo Lagazzi: rivelare, con parole non prive di partecipazione ed affetto fraterni, la tensione che porta ad uscire dalle proprie ferite per testimoniare i “bagliori” del bello e del bene, per non arrendersi alla perdita. Ecco dunque affiorare dalla musica amara, impregnata di estraneità ai luoghi senza confini e senza risposte, il controcanto amoroso e la preghiera di Albisani o schiudersi la francescana, creaturale apertura verso il mondo nelle fioriture visionarie di Amato e nelle “rapide silhouette” di Zucchi, nelle melanconie miti di Bertolani, negli spazi aperti e liberi della poesia di Franco Loi. Lagazzi coglie con eleganza, su di una tastiera assai ricca, ariosa e duttile, i fili sconnessi, sfilacciati, sfuggenti e incerti del rapporto con l’esistenza, spesso filtrata dalla quotidianità familiare (Le cucine celesti di Amato), ma sa sottolineare la tendenza al sogno, al sottrarsi ai vincoli del tempo, all’ironia leggera che s’incrocia con la fantasia. Così note dissonanti, grovigli di parole che dispiegano e sezionano le fibre e i nodi, si fanno “linfa fluttuante” tra le forme del corpo vitale del cosmo per accogliersi e spaziarsi, perdersi e ritrovarsi in una “sete mistica francescana” d’amore (Bacchini). O è l’immaginazione su cui s’innervano echi biblici a dire, con Donatella Bisutti, ma anche con Reali, la sazietà delle certezze della modernità, la “densità spirituale e simbolica di una sfida alta e inesausta al mistero dell’essere”, la disarmonia sfiorata dalle “lucciole immortali” di un’altra verità. Biblico è Cavicchia; i suoi versi corrosi dal tempo o quelli segnati da un dolore senza fine riescono a farsi “ d’aria e luce”, a divenire canzoniere d’amore. Lagazzi si orienta nel teatro tragico e insieme sacro del mondo della poesia con la consapevolezza che là dov’è dolore, è anche amore, là dove sono disillusione e sconfitta, è speranza; sa che gli universi della poesia si aprono e si dilatano, si restringono e si modificano in strade di senso, soglie di stupore meduseo e d’incanto, di silenzio che richiama certi attimi zen (le poesie in miniatura di Casiraghi, la leggerezza degli haiku di Dall’Aglio) e di parole cifrate (Rosita Copioli) o “semplici” e antiche, feriali al modo di Orazio e del Virgilio delle Georgiche (Giselda Pontesilli). Come Hermes, il dio delle soglie la cui ambiguità si nutre di voli fra la terra e il cielo, di slanci e moti perenni, Lagazzi ama l’indagine rabdomantica, che insegue i labirinti della vita, di colui che cerca risposte tra luce e buio, si perde per rinascere, confessa la fragilità degli esseri nel fluire degli attimi e una loro pur minima persistenza (Dall’Aglio e ancora Bertolucci). E se si apre all’amore e all’amicizia, all’emozione che scaturisce dalle piccole cose, da paesaggi e occasioni comuni, dalle minime “confusioni” che il vento subito disperde (Erba), ne rivela l’energia “trasparente” dello sguardo (Fiori) e l’appartenenza alla verità del vivere, ne indica l’umanità che unisce e difende dall’assedio il “giardino” (Damiani) o la pietas familiare (Gabriella Sica) o salva la qualità perduta delle cose nei disegni in versi che dicono il miracolo dell’esistere (Daniela Tomerini). Allo stesso modo la sua penna riconosce gli “echi infiniti” del presente in fuga (Paolo Ruffilli) o entra nel territorio dell’amore e delle radici che affiorano dall’intrico e dalla rovina delle cose (Riccardi); si avvicina con commozione a coloro che non si sottraggono alla domanda estrema, allo scontro tra anima e corpo (Fernanda Romagnoli) o al desiderio dell’Uno al di là del molteplice (Manzoni) o esprimono l’ansia di comunione con gli uomini in cammino (Rondoni), le “vibrazioni” dell’esistenza (Fontanella) e la chiarità mistica che inventa il silenzio (Valesio) o portano avanti, tra meraviglia e mistero, “una temeraria e dolorosa avventura dell’anima” (Bruna Dell’Agnese), ma anche la fedeltà che riconduce “ a casa”, dopo aver affrontato dubbio e amarezza (Piccini). Vi è infine ne La stanchezza del mondo la raffinata esegesi stilistica che fa emergere ora la parola tersa e distesa ora quella lampeggiante di pathos e d’ombra (Piccini), visionaria e rivelatrice (Di Palmo) ora i ritmi cadenzati e innervati di suoni materici ora la classicità manieristica e le parole “in cammino”, ricolme di “luce greca” (Pontiggia). Ne deriva un appassionato e inesausto misurarsi con le tante voci della poesia contemporanea da parte di un critico – scrittore che conosce le sfide della parola e della musica del verso; che coniuga la bellezza e l’umano sentire con la paura della fine e con le “ombre” di una società disillusa e persa; che mitiga e dissolve la “stanchezza” d’esordio in un respiro alto di fiducia nella poesia, nella sua ricchezza e nella sua forza che unisce, come nella storia zen proposta in chiusura, l’effimero all’assoluto e racchiude il tempo allo stato puro e “tutta la dolcezza dell’universo”.