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CURCI: VENT’ANNI DI VERSI

CURCI: VENT’ANNI DI VERSI

La sensazione che il presente sia inafferrabile, ben prima di essere consacrata come verità ecumenica dall’emergenza sanitaria, avrà sfiorato molti di noi; lo suggerisce il fatto che da un po’ di tempo non riusciamo a definirci se non in riferimento a un passato a cui abbiamo avuto la ventura di sottrarci o sopravvivere: siamo una società post-moderna, post-democratica, post-ideologica, forse già post-umana, e tra breve (si spera) post-pandemica. Ma chissà che proprio questo presente sgusciante, così abile nel disattendere i nostri bisogni di cristallizzazione, non sia poi il tempo più adatto alla poesia: se non dovesse aiutarci a mettere a fuoco le cose, la parola poetica potrà comunque darci una mano a guardare il nostro tempo da una prospettiva diversa, in cui l’oggi è solo una delle infinite linee che convergono verso il punto di fuga delle epoche. Non è forse vero, infatti, che «quando sopravvaluti il presente, l’eternità è sempre in agguato»? Ne è convinto Vittorino Curci, autore di questo aforisma nonché musicista, artista visuale, narratore e per l’appunto poeta. Pugliese dalla vocazione poliedrica e cosmopolita, Curci ha da poco fatto il punto della sua produzione in versi con il volume Poesie (2020-1997), un’autoantologia pubblicata da La Vita Felice in una collana – «Colloqui di poesia» – concepita per accogliere i maggiori poeti italiani di oggi: vi figurano personalità del calibro di Ennio Cavalli, Giancarlo Pontiggia, Anna Maria Carpi, Silvio Raffo, Giancarlo Majorino e Milo De Angelis, che tra l’altro ha scritto una prefazione concisa e puntuale proprio a queste Poesie (2020-1997). Qui Curci offre al lettore il sunto di più di vent’anni di attività, presentando i suoi testi in un percorso che procede a ritroso, da alcuni versi recentissimi, mai apparsi prima in volume, fino ai componimenti scritti al termine dello scorso millennio, destinati a valergli nel 1999 il Premio Montale (sezione «Inediti») e quindi ad essere inseriti in Sospeso tra due solitudini estreme (2000), il libro con cui l’autore stesso ritiene di aver trovato la sua voce matura, quella a cui si affida tuttora. Ed in effetti una grande coesione interna contraddistingue l’opera, il cui criterio organizzativo rende giustizia a una poesia che si configura come ricerca all’indietro, scavo, scoperta progressiva di ciò che si trova sotto i nostri piedi o sopra le nostre teste, ossia come continuo confronto con una tradizione che può essere – per usare le immagini di Curci – «cimitero» dove lasciare una preghiera ma anche «miniera d’oro» dove scendere «per tornare “a riveder le stelle”»: in ogni caso, un luogo da visitare perché quello che lì resiste al tempo – reliquia, tesoro – adesso ci chiede di essere omaggiato o messo a frutto, nel segno di una continuità biologica e culturale che affiora tanto negli interventi in cui l’io lirico si esplicita («devo forse ricordarlo io / che l’amore dei padri si capisce / dopo, quando il cielo impalma la terra?») quanto nei segmenti testuali in cui il dato referenziale e memoriale si schiude alla dimensione collettiva del noi («è questo il giorno, il vocativo conciso / della macchina del tempo / costruita con le tue mani. / e poi facce, facce una sull’altra. / di ciò che è stato / è rimasto appena un grido // ma anche questo è un tempo / un precipizio di luce / sugli anni che non vedremo. / e sono confusi i pensieri, confusi / i gesti che ci portano alla frontiera / di una terra diversa, ereditata»). Proprio in quanto prima eredità che riceviamo dal momento della nascita, la parola risulta essere lo strumento più opportuno per forzare i confini di un presente in cui, assediati dal fallimento e «sempre sul punto di non farcela», procediamo a tastoni: nel tentativo di ricognizione, ricostruzione e reinvenzione della realtà a cui dà luogo dentro il perimetro della pagina («il nostro sabotaggio del reale / procede senza intralci»), il poeta ci fa dunque assistere al frangersi e rifrangersi dei tempi («Sulle rovine di un solo giorno / si squarciarono i millenni»), mentre lo spazio breve della biografia personale e lo spazio immenso dell’eterno arrivano a sovrapporsi («Se penso al mattino del creato / quando le cose furono toccate da uno sguardo per la prima volta / io sono contento di tornare sui miei / passi»); ed è così che, perfino «nei crampi di questa luce dove / tutto è provvisorio», una verità o una gioia temporanee possono essere fermate nella mente per sempre: «siamo stati per lungo tempo / in questa accademia del dolore. / poi, una caduta per ogni filo spezzato / per ogni gioia che non dura, e se dura / ci lascia senza fiato». Neppure al lettore più disattento, allora, sfuggirà la costanza con cui nelle sue Poesie, traducendo brandelli di realtà in segni la cui ombra si prolunga oltre il presente («perché io la solitudine la conosco e devo dirlo cos’è questa bava / rappresa del ’53 che traccia un futuro senza requie»), in un domani capace di surclassare l’infinito («Sui sedili posteriori i bambini / cascano dal sonno / inferociscono il volto / con sbadigli / che fermano il tempo. / Sono niente al confronto / l’io ben marcato / l’eternità dei poeti»), Vittorino Curci vuole scommettere sulla vicinanza, sulla «prossimità del bene», e in definitiva sulla possibilità, per gli uomini, di disegnare ancora – parola vagamente anacronistica, e quasi terribile a pronunciarsi, ma oggi quanto mai necessaria – un avvenire: «oh quanto questo oscuro brusio / intorno a noi che fummo / ci restituisce il bene / di chi credette in noi, le donne e gli uomini / che ci tenevano in braccio / sul treno in corsa dell’avvenire».

Giorgio Meledandri

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