La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Sandro Varagnolo


 

Sandro Varagnolo è nato nel 1946 a Venezia e vive a Mestre. Dopo la plaquette Il passaggio interdetto (Edizioni Helvetia, 1984), ha pubblicato La carta della sera (Edizioni del Leone, 1985, finalista al Premio Viareggio opera prima 1985 e Premio Pedrocchi 1986), La veduta forma (Anterem Edizioni, 2011), "Memoriale della pietà" (Anterem Edizioni, 2014), "Catabasi" (Anterem Edizioni, 2017). Ha svolto attività editoriale e di pubblicista, curando, tra l'altro, per le edizioni San Marco Libri, l'Apologia di Socrate e il Critone di Platone (con relativa traduzione), I piaceri viziosi di L Tolstoj e Tutte le poesie di Giuseppe Cesetti. Le sue poesie sono state pubblicate su riviste tra cui Poesia e Anterem, e inserite in antologie.


E-mail    sandro.varagnolo@yahoo.it


Astuto navigante

che ambo i penetrali

hai sperimentato e l’egoismo

del dolore: è questo il tempo

della lavanda e delle palme deluse.

Annienta lo sguardo della vita

se la perdizione ancora

incute fecondità.

Fu alibi e metafora l’argilla,

sui camminamenti infidi

arretra la provata ingordigia.

Come rostro nel petto il veliero

lascia la riva.

La scheggia che adizza i ritorni

trascura le mani, a pena

becchetta la starna. Così

è la balìa rapace, così

lo smalto dell’afflizione.

Nessun cedimento o tregua

sulla via del sacrificio:

la goccia assapora, il bando.

Tutto è consumato

non sia la tua urgenza brace.

 

  

 

 

 

La vastità del corpo si contempla

nella folgorazione

del cominciamento e del riverso.

Corpo vulnus e pregiudizio

corpo limite, atlante

corpo diabolo, strategia.

Corpo anabasi e perimetro

in che s’invera e si affastella

il mistero della carne.

Corpo mater e pre/testo

il dedotto, l’incoercibile:

necessario si palesa

nella strada insondata

negli scarti, nel più raro

e as-soluto dialogare.

Territorio, ipocrisia

unica possibilità

che sazia

            che ascende

                            che concepe

corpo ritmo, corpo esilio

specola e afrore.

 

E quando fibrilla la penombra

la realtà del corpo si divina.

 

 

 

 

 

 

In verità

primavera non è questa che ci insegue,

è questo il mese

del duello e del setaccio.

Appassisce l’ibisco, vane

le fattezze sinuose del giunco.

Trafitti i polsi

la bocca inaridita dai capelli

è similitudine che attarda,

come la fissità del luogo delle pene

e del respiro rimasto inascoltato.

Farsi distacco, ordire coincidenze,

dimettere l’obolo e i calzari:

di ciottoli e facelle si calcina

l’umida notte.

Il sapore dell’acqua insiste

a numerare la pioggia

diletta sui tegoli. Glissa

l’ascosa partitura dell’affanno

e del peregrinare,

cigola il pozzo, inciampa

l’insensata controversia.

Non è con gli occhi che si alluma l’inebriato

approccio del tramonto,

l’albero è caduco, rimugge

l’impensabile scenario dell’abisso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nemmeno il filo d’erba

lo stormire del bosco

nemmeno le primule al chiarire

rabbrividite

rumore di fondo

che risulta e non scalfisce.

Ma la radice dei nomi t’incroci,

la tenebra, il deserto -

ascolto inaudito e persino

flagello che una volta per sempre

arpiona le tempie.

Chiostro ti sia ove tu speri

fino al profano, al contaminato

fino alla ghiaccia che accarna

e clemente recide. Qui

ti rinnega, qui ti sovvegna,

qui ancor che impura

per verba si tradisca la pupilla.

Soltanto una parola è arrischio

e paradosso del sopravveniente,

a te il cenacolo

il chiuso che dismembra

il presofferto

                implacabile

                                silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pioggia si dispiega verso l'alba

sopra i fossi e i rancori impudenti

degli ubriachi, nella sarchiatura

dei campi dove la ghiandaia

si affretta al volo e il neon

occhieggia dalla pensilina.

Simile a corteccia il distruttore

nell'ora insonne dei nostri tremori,

e noi a chiederci come sia possibile

vivere nel futuro e i nostri sensi

trascinare sul fondo. Anima curva,

le brevi nevicate e lo scontento

avanzano, lungo il meridiano

si spandono parole ed è catarsi

mendicare la fumante bragia. Addio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo spazio tra di noi che si consuma

nuovamente ci lusinga esortando

da lontano le primizie

del frastaglio e della mutazione.

L'invido giorno si sfalda sui canali

senza tregua né raccoglimento,

il meriggio ha volubili sentori,

il pane è poco, la profezia strana.

Come a sferza improvvisa il portone

oscilla e lo spiraglio

quasi svela recondite parvenze,

finché aggotta la domanda

spicciando il dardo dell'acetilene.

Se l'agire è patimento

già si avverte la disperazione

del messaggero,

già la macina travolge

la schiera che s'imbuca.

Una botola o il vortice di un gorgo

è tutto ciò che infine trasalisce.

Il fiume scorre, sulla opposta spiaggia

lo spettatore addita l'orizzonte.




da La veduta forma