Lucianna Argentino è nata nel 1962 a Roma, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: “Gli argini del tempo” (ed. Totem, 1991) con la prefazione di Gianfranco Cotronei; “Biografia a margine” (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza e disegni di Francesco Paolo Delle Noci; “Mutamento” ((Fermenti Editrice,1999) con la prefazione di Mariella Bettarini e la post-fazione di Plinio Perilli; “Verso Penuel” (edizioni dell’Oleandro 2003) con la prefazione di Dante Maffia; “Diario inverso” (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi; la plaquette “Favola” (Lietocolle, 2009), con acquerelli di Marco Sebastiani. “L’ospite indocile” (Passigli, 2012) con una nota di Anna Maria Farabbi; il poemetto “Abele” (Ed. Progetto Cultura, Le gemme 2015) con la prefazione di Alessandro Zaccuri di cui alcuni brani sono andati in onda, nel giugno del 2017, su Radio Vaticana nella rubrica “Pagine Fogli Parole” a cura di Laura De Luca nell’interpretazione di Pino Censi; “Le stanze inquiete” (Edizioni La Vita Felice, 2016); “Il volo dell’allodola” (Edizioni Segno, 2019) con la prefazione di Gianni Maritati, tre racconti in versi ispirati a tre personaggi biblici; “In canto a te” (Samuele Editore, 2019) con la prefazione di Gabriella Musetti; “La vita in dissolvenza” (Samuele Editore, 2022) con la prefazione di Sonia Caporossi che raccoglie quattro monologhi ispirati a storie vere di donne. Dal 2014 collabora con il gruppo musicale Acquelibere Ensemble. Il 27 dicembre 2018 e il 9 gennaio 2020 è stata ospite di Radio Radio all’interno della trasmissione “Un giorno speciale” di Francesco Vergovich nella rubrica “Affari di libri” curata da Mariagloria Fontana. Il 29 settembre del 2019 le è stato assegnato il Premio Caro Poeta 2018 durante la quinta edizione di “La parola che non muore” Festival a cura di Massimo Arcangeli e Raffaello Palumbo Mosca presso il Borgo La Commenda (Montefiascone, Viterbo).

lucianna.argentino@gmail.com

https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/07/17/poesie-inedite-di-lucianna-argentino-appunti-per-una-estetica-del-lavoro-2005-con-una-nota-dellautrice/

https://www.tusciatimes.eu/la-vita-in-dissolvenza-di-lucianna-argentino/

http://www.bibliovorax.it/2021/07/26/lamore-che-canta-la-poesia-di-lucianna-argentino/

POESIE

da GLI ARGINI DEL TEMPO

Come disincanti
Improvvisi disincanti all’equivoco
del vocabolo che fu
rassegnano il presente
come il volo del moscone
dal vetro della finestra
allo specchio che lo riflette.
L’azzurro è lo stesso che giaceva
alle spalle delle panchine del lungo mare
dove le parole masturbavano
la vanagloria annoiata dell’io
e prolungavano lo sciabordio delle onde
contro la chiglia trattenuta
dal pescatore che non vide
la curva sinuosa del monte
insidiare la verginità del cielo.
Avevo sparso fogli perché il suo silenzio
vi lasciasse segni a interrompere
il pendolare andare delle parole.
Ora, in un quadrilatero di respiro, stanno
accartocciati, ingialliti scricchiolano
sotto i miei passi indifesi.
Tento invano d’aprirli, lisciarli,
si graffia la mano indifesa e la penna
s’inceppa su pagine di carta vetrata.

Aritmia
Accanto a te s’adagia
la nostalgia della parola
oltre l’aspirazione a dire
sentimenti convergenti
sui quali accordarci
per questo tratto di strada.
Eppure a situazioni estreme
non sempre s’accordano
estreme soluzioni,
sintesi di reciproca latitanza
su questo teatro un po’ stantio.
L’aritmia del cammino
mantiene i nostri fianchi sconosciuti
e l’addio sarà il sopraggiungere
d’improvvisa stagione
lungo cui non ingannerò il destino
nel seppellire i reconditi antefatti
di quando non so più dove guardare
e confondo l’orizzonte con la mia mano.

Preludio
L’attimo serale
fiammeggiò l’attesa
e il desiderio si mostrò penombra
di parole in bilico
su sguardi clandestini
scambiati in un preludio
di quadro incompiuto
dove, approssimati per difetto,
siamo bianco su bianco.

da BIOGRAFIA A MARGINE

Mi attraversi e riluci
sei profumo di calicanto che vince
l’aria fredda dell’inverno
ma il tuo canto non scioglie
l’ordito intrecciato d’amaro assenzio.
Altro sapore trangugio
nella risacca dei giorni
aspettando che questo dolore
sia amore.
Solo il lume la sera
nello spazio tra la matita
e la sua ombra
rincuora l’intimità della parola.

Mi rotolano incontro foglie secche e cicche
parole riciclate stabilizzano il monologo
nell’illanguidire del tempo…
ma sulla panchina una donna
– all’oscuro di tutto –
ne sostiene il ritmo con il suo sciocco canto.

Si è scollato un lembo
della carta da parati
– quella fiorata un po’ ingiallita –
e ora lascia che si veda il muro
di un bianco insospettabile.
Ma vedrai basterà una mano di colla
perché tutto torni come prima.

Non so tacere il male – forse lieve
e innocente – di sassolini lanciati
contro una finestra (altro non sento
nelle tue parole) o ignorare
l’illusione riflessa di un cielo
in frantumi: stancato da originarie
stirpi d’ali ci richiama a consunte memorie.
Mi turba – di contrasto – il quieto
andare del cuore come cosa non mia.

Complicato questo frammento
di lapislazzuli e diaspro
(pietre inasprite dal tempo,
levigate dall’opaco stupore
di essere viva). Già te ne parlai,
ti confidai il disagio,
ma la femminile pronuncia
suonò estranea al tuo orecchio maschio:
come dire “il silenzio è la profondità
del vuoto e sorriderne
per non averne inteso il senso.
E io lo che il senso che ti manca è il mio
per questo la mia voce in te fa risacca
e si estingue come un’onda sulla spiaggia.

Mi domandi se la rosa un po’ appassita
nel vaso azzurro ha memoria del roseto,
se l’acqua del fiume ingrigita in città
ricorda la purezza della sorgente…
ma noi, noi quando smetteremo
di conservare i calchi di antiche orme,
di altri passi impressi nella mota dell’anima?
Sul giorno getta la sua ombra
la folta capigliatura della notte,
ma non è di questo buio corrivo che vivo
è della luce adusta del passo scellerato del mio tempo
che si richiude su un vuoto già colmato.

Se ci fossimo conservati
l’uno all’altra
uno spazio di consuetudini
per poterle poi rinnegare altrove
– preferendo vivere in un tempo apocrifo –
forse non avremmo appreso di noi
ciò che ora sappiamo
e che, inevitabilmente, ci divide.

In pochi abbiamo creduto
e a noi soli, che pure ignoriamo
su quali acque ora aleggi lo Spirito,
è stato concesso sentire
la montagna spostarsi e la speranza
– paralizzata dal disorientamento –
alzarsi e procedere a un nostro muto pensiero
verso un punto più chiaro.

da MUTAMENTO

Il già fatto e smarrito
dunque disfatto, un poco vinto
è nella radice raffermo
e induce alla parola di saliva e terra
non più corriva con quanto in noi è infermo
né parola che guarisca i mali ereditati
di tentazioni cui non cedemmo
ma ci ridia l’onestà della vista.

Provami l’utilità del Bene
tu che mi hai voluta qui
senza chiedermi dove sono,
dov’è che sono veramente.
Dimmi chi è che può salvare
e chi essere salvato,
ma considera pure l’incapacità mia
di sentire altro che non sia
questa inadeguata sapienza.
Sappi che non so circuire la vita
perché drappelli di parole
ostinate alla distanza mi assediano,
ma so che tra passione e coscienza
l’abisso è colmabile
se Dio riprendesse la sua onnipotenza
dalle nostre mani.

Dileguami sulla pelle
che sono donna e già da molte vite
ne porto il senso di paura smerigliata
e senza nome come l’odore
di quanto resiste alla verità
perché sia meno vera e più dedita al caso.
Sentimi peso lieve, ricamo inutile,
tara nella misura di giorni
trovati all’allegria se una tua carezza
li svezza a nuovo canto, a nuova liturgia.

Abbiamo trattenuto a lungo gesti e parole
in giorni in cui il silenzio dilaga
incupito dal riflesso d’ombra
di cose inasprite nell’immobilità del presente.
Abbiamo tentato invano di indovinare il sole
dalla scolatura di luce sul muro al mattino.
Trema un orizzonte sotto le ciglia,
un pensiero lievita e preme come pane di cardo
a dire di noi l’esito ignoto.

Dovevi chiarirmi la tua ritrosia
prima che il tempo fosse bonificato di noi
e non imitare la mia assenza a me
che già deglutii la sua e ne fiutai l’odore
incattivito nel chiuso del rimpianto.
Ora che sul foglio ti decanto
divengo un emistichio ardito
se tento Dio dicendogli che vado
dove Lucifero rinasce
alla sua originaria bellezza.

Tu, madre, occasione violata
mancata fatalità d’essere simili
perché diverso è il senso e imprevista
è la stagione lievitata in un’imprendibile
vicinanza dove non ci accorgiamo
della differenza resa sorella d’affinità.
Ed è per attitudine all’assenso
che escludo tutto ciò che non afferma
eppure nego il fondamento, rinnego il nome
cui non so adeguarmi e dileguo.
Spezzato il ramo m’innesto
dove la voce si trattiene genuflessa
inarcata in un silenzio che – acerbo acerbo –
a lei s’arrende.

Piace al mio canto il cammino sbadato
del tuo ritornarmi attraverso
notti nate nei tuoi occhi
puntati sulla via di Cana
su nozze cui non siamo invitati
noi ormai liberi dallo sguardo paterno –
e dunque esiliati in un destino incredulo
meno incredula io ora
che bevo un’acqua mutata in vino.

Sicuri della pace
ogni sera ci promettiamo il mattino,
noi mai temprati al martirio,
consolidati da maliziose paure
adeguate a sedare la vita. Domati
ma non ammansiti, portatori di talenti
inagrestiti ai margini dell’adempimento
siamo come ombra sotto le vigne,
come agrumeti a picco sulle sponde,
ma trasumanare è il fine, è domanda
che risponde, è approdare dove la voce di Dio
incagliata nel grido, si fa mare.

Abituata ad altro
questo che tu dici non lo intendo
né questo che tu sei:
io vivo dissipando la mia forza,
come Maria* mi scelgo la parte migliore
e detto da una donna vedi
somiglia alla luce quietata dall’ombra,
al giorno confinato in fondo alla notte,
ma ancora olio ho nella lampada
e posso vegliare sul foglio, sull’avida
pagina di friabile grana, su una lingua profana
cui testimonio il mio amore
perché anche lei possa amarmi
e di sé mi renda parte.

* da Luca 10,38
Dall’essere coscienziosamente lontani
dalla sollecitudine per via di una nascita prematura,
ne viene l’inclinazione all’astinenza
piuttosto che un cedimento all’atto di fede.
Privi di primogenitura, di beni da moltiplicare,
cosa dare in cambio per quanto ancora da dire
e per il molto di là da venire? Cosa avanzerà di noi?
E dunque cosa raccoglieremo perché nulla vada perduto?

da VERSO PENUEL

Avrei dovuto imparare
dall’umile ritrarsi dell’ombra
al passo della luce,
prendere esempio dall’ombra lieta
dell’acqua, da quella mobile trasparenza
il vivere aderito all’obbedienza.
Ma somiglio a quell’istante in cui
anche un orologio fermo
segna l’ora esatta.
Per questo restano acerbi i peccati,
inagrestisce la coscienza nell’ovvietà
ma la necessità rincasa a dettarmi
d’un mondo sommerso
– pazienza su cui s’affila il verso.

Manco di un dolore profondo
di quelli che disincarnano l’anima
e la fanno sublime.
Fin qui gli anni sono stati un abbraccio forte
dato al buio, come di chi non sa parlare
e alle braccia cede quel potere.
Anni trascorsi con la scure alla radice,
anni di verità fallite, di gioie laciniate.
E’ dunque mio un dolore tutto intero,
già maturo, già presente nel pianto
insolente della nascita. Ne sento
il mormorio di mare, il moto di risacca
nelle viscere – salmastro respiro di lama
dentro m’incide l’evento che consola.

Baciata dall’attimo e da quel bacio all’attimo
consegnata sminuzzo la realtà per meglio amarla,
nell’ora in cui le rondini tornano
ad abitare le fessure di pietra e gli angoli
della stanza placano la loro aguzza forma.
Vorrei tornare a questa vita col privilegio
di chi non si è mai guardato in uno specchio
per darmi un’esitante certezza ora che esito soltanto.

Gli chiederei d’affidarmi la sua paura
se io stessa non temessi, avendone cura,
di renderla coraggio. Più giusto è
che rimanga sua e sia tregua alle certezze
sia disarmata volontà, imprevisto dubbio.
Placet per chi nell’incerto sta saldo
e mente al suo dolore e improvvisa aurore
perché germogli ardire nel cuore inzaccherato.

Il talento Persefone
Conservami il luogo in cui mi hai attesa
dammi l’odore della mia assenza
il sapore della tua impazienza.
Offrimi la misura della distanza e poi
colmala di diuturna presenza.
Cheta la fede indietreggiata
al tuo sguardo di chiesa sconsacrata
fanne scandalo alla mia cieca virtù.

Assolvimi da questa biografia infedele,
disincarnami da questo dolore, ridammi l’attitudine
alla costanza soffiata via come polvere dalle mani.
Non ho rigori e riposo dove l’ombra
morde la luce ovvia della verità
affinché tu, esercito e confine, lasci
che io ti conduca dal tuo mondo nel mio regno.
Serviti della mia obbedienza,
dàlle un volto nuovo,
convincimi che non c’è altro
che è tutto qui ciò cui abbiamo rinunciato.
Confondi le linee della mia mano
rimuovi ogni traccia di destino
ma non correggermi se sbaglio
perché nessuna verità potrà smentire
il mio errore.
Assicurami il talento di Persefone
tu, mia ragione scoscesa a picco
sull’ubiquità di cui mi fai capace.
Muta in furtiva voce la vertigine
di essere riva al tuo destino
perché non si sconsacri il cuore
nel presagio della carestia
e sia divino questo nostro umano
tentare l’invisibile.
Comunicati in me
che io ti sia particola di grazia
e poi amami come un dubbio
e come un dubbio arrivami
attraverso distanze ribelli
alla mia pazienza fede. Sii per me stanza
convalescenza e quell’eterno
che diserto seguendo te.

***
Andare dove la luce dura l’infanzia
e il passo svelto di quanto in me riposa
in altra quiete e invecchia alla distanza
del fiato corto delle cose.
E’ tempo anche per me d’invecchiare
ma piano ancora come chi fa le cose a peso
confuso dallo sciabordio dell’eternità
contro la chiglia di ogni attimo.
E quella luce cui vado in trasparenza
in dismisura di te che al canto sfrondi il mio penare
è cronaca d’ombra, veste del mio nuziale esistere.

da DIARIO INVERSO

Lei sapeva del silenzio che sarebbe venuto poi
per questo gli chiedeva “abbassa la voce”
pensava che se le parole si fossero fatte
simili al silenzio la loro assenza sarebbe stata
più lieve come un bisbigliare oltre una porta chiusa
o come qualcuno che senti muoversi nella stanza accanto.
“Cambia tono” diceva a lei lui che non capiva,
e confuso rallentava il passo, cercava un riparo
da quell’estate improvvisa, dall’assalto dell’inatteso.
Ma fu in quella luce stinta che cominciò a sentire
che le cose a volte implodono, senza implorare altro,
e tornano in se stesse e stanno affini al silenzio.

Compiuto è l’anno, invertita la rotta
ed è risacca che spagina il tempo
è cura di un dolore contento
è linimento tardivo di un ritroso navigare
è scoramento dell’onda che torna in alto mare.

Mimetizzata nelle quattro sillabe del mio nome
– oscurata la luce, sospesa la grazia –
tento una strenua difesa dal suo sguardo manicheo
e imito me stessa, ma senza ironia
piuttosto come un insetto imita una foglia.

a Damiano
Ecco lo splendore del primo giorno
dopo il buio serrato nel grido
di tutta la mia vita radunata là per accoglierti.
Ecco l’attimo del “sia la luce”
nell’aprirsi dei tuoi occhi
nel dilatarsi dei polmoni al passaggio
dall’acqua all’aria e il pianto inconsolabile dello strappo
– dopo milioni di anni impreparati ancora al nascere
così come al morire.

Sotto la lingua di muschio della notte
l’intimità del mattino è un abbraccio
senza il calore delle braccia
eppure tintinna e porta un tempo nuovo
a ciò che manda avanti il mondo
e al nonostante che ci fa belli.

Si somigliano il silenzio e il tempo
la domenica mattina quando i gerani stanno
pazienti contro il luccichio dei vetri
dove il senso dell’umano ristagna
e il concistoro di suoni e rumori
diviene un’unica voce.
Non molto di più mi è dato di vedere
e udire da questo esiguo spazio da cui, tuttavia,
una verità senza orme circoscrive l’immenso.

da L’OSPITE INDOCILE

Dice che non c’è addio nelle asole
e asola allora sia:
poca materia intorno e vuoto.
Sia passaggio e allaccio
sia lo spazio dell’abbraccio
sia pertugio e rifugio
sia il chiuso esposto alla parola.

***
Sommale le storie, fanne cifre aguzze
come gli anni di quelli vissuti
sulla capocchia di uno spillo;
prendimi il fiato, la rincorsa;
trattienimi dentro silenzi
in ascolto delle radici,
del crescermi dell’anima
mentre scrivo per sapere cosa è natura
e cosa è sostanza e come fa a essere buono
un frutto o un uomo.

***
Prossimi al mio dire
quelli battezzati con la terra,
rivestiti della grazia delle zolle,
braccati nelle selve cittadine,
entro radure di pestilenze umane,
di ossa rotte, di fracassate speranze.
Prossimi al mio dire
quelli senza peso, senza giusta misura
predestinati all’indeterminazione,
cause efficienti della frazione del pane.

***
Arrivarono le campane
a siglare l’inizio di maggio
a scapicollare il nevischio
e le rondini appena giunte
e poi di nuovo la buona stagione
a sciorinare pistilli e spore
nei parchi allevati dall’infanzia
a ciuffi d’erba e pinoli
a sassolini e terra nelle scarpe
e formiche e luce tra i capelli.

***
Curva sul lavello stava la madre
le clavicole serrate, custodi di un pensiero
che dentro le faceva eco
ma come da un’altra voce.
E una pena da lei mi arrivava
simile a chi vuole limitare il male
rendendo sinottici il dolore e il gaudio.

***
Non risposero all’appello
ma la loro assenza
non provocò domande
semplicemente si stette
ad ascoltarne l’eco del nome
come davanti la lettura
di un testamento.

***

a Sergio Pistolesi
Le voci, chiede, avranno
un paradiso tutto loro?
un luogo dove, riposti gli strumenti,
tutte si raccolgono?
Le voci, dice, sai non le parole
che non sarà muto quell’altrove
ricamato di speranza
con fili logori e terreni.
Ma la voce, sai, quel suono
che non ce n’è uno uguale a un altro
dov’è che va?

***
La guerra finì
e loro che c’erano nati dentro
ne uscirono con vaghi ricordi
di allarmi e vermi nella minestra.
E nonna, quella di cui porto metà del nome,
presa nella continuità spazio temporale,
è malamente è malamente, ripensava
e quando le offrivano del vino
na cria diceva, una goccia, una lacrima.
No cry nonna no cry
passati ormai a un’altra storia
a un’altra guerra di tutto il lascito
ce ne resta na cria.

***
C’è qui – mentre le voci dei bambini
impollinano il tempo – come una nostalgia
simile a quella che del corpo hanno i morti.
Acqua acqua fuoco fuoco – giocano
a chi trova ciò che è nascosto
un gioco che durerà ancora,
a lungo.

***
Scrivo di nascosto da Dio
che nella bocca voglio parole mie
e niente niente
nel passaggio dalla fronte alla spalla
dal gomito alle dita alla punta della penna
al suo muoversi sul foglio
per mio sentire altro
per meditato silenzio e pulsare di tempie
per il mio stare accovacciata
presso lo scavo con l’angelo geometra
e la sua corda a misurare
quanta benedizione c’è sulla terra.

da LE STANZE INQUIETE

Sto qui senza vocazione, ma ogni giorno rispondo,
ogni giorno, pellegrina dell’umano, vado di volto in volto,
piegata al sì dagli occhi e quando l’anima stanca
cede al disamore li faccio tornare bambini,
li riconsegno all’infanzia o a Dio,
così mi stanno dentro per amore e non per dovere.

Mi buttava via le bambole, mi racconta Pamela di suo padre
con uno smottamento che le fa più neri gli occhi.
Ma ora che non può più farlo ne ho la stanza piena!
Amara la rivalsa nel rullio del suo cuore
– nave scossa dalle onde – ma tese e gonfie le vele,
le guance paffute e lei, bambina, piange senza capire
e si sente buttata via con le sue bambole.

Faccio la mia parte non solo di respiro e mandibole,
raccolgo quanto gli altri perdono,
scambio messaggi con gli occhi,
le mani e il fiato. Il lampo umido di uno sguardo
così come il ronzio di un insetto,
mi svelano preziose teorie sul mondo.
Qui, un poco discosta, sotto l’ombra ardente della penna
che brucia tra le dita ma mi traccia la coerenza
e prova a dire no all’indifferenza.

Rosina era una delle tante
confusa e sfocata tra le tante,
diversa appena per quell’accento calabrese
custodito in bocca come una zolla della sua terra,
ma improvvisamente unica e nitida,
quando indicandomi due ragazzi neri
in fila alla cassa accanto, signorì, mi ha sorpreso,
lei magra e piccolina, hai visto quanto sono alti!
Chissà quanta strada hanno fatto poveri figli!

Pina un metro e cinquanta di acciacchi
mi dà monete dal calore buono
e un po’ rassegnato come il suo sguardo
velato di pianto nel raccontarmi che il marito,
malato da tempo, l’ha svegliata in piena notte
e le ha detto Pina, Alberto se ne va…
E se ne è andato, come ce ne andiamo tutti,
già distanti gli uni dagli altri
per certi invalicabili silenzi.

Sei piani e cinquecento sessanta passi
tra me e questo armadietto di grigio metallo
dove il camice attende il mio corpo
per farsi anima e generare foglietti
in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà.
Negli occhi degli uomini il pane delle stelle
mi è parso buio e raffermo, i versi di Char
puntellano questa giornata che mi sta davanti
tutta intera, tutta in luce. Ma ecco
ora è questo l’ombra, questo stare nell’affanno del fiato,
nella me stessa di cui si spartiscono le vesti
cose adiacenti al nulla.

Franca mi confida che il figlio ha dei problemi.
E’ timido, chiarisce e candidamente aggiunge
ma mica c’è nato sai, c’è diventato,
a voler dire che lei l’ha fatto sano
e poi chissà  cosa l’ha guastato.
Ma forse è il nascere a guastarci,
quel giungere  – da dove? – quell’essere in fieri,
che fa di noi dei diventati.

Perché è nato così?
chiede la bambina alla nonna
vedendo un giovane mendicante storpio
accovacciato vicino all’uscita.
Già, perché sono nata così mi chiedo io
che da tempo tento di rispondere a cosa sia la vita,
a cosa significhi amarla,
che provo a farne un grazie stordito ma vivo,
a farmi sponda accogliente
per sfidare occhi anchilosati,
per lastricare fisionomie impervie.
Le due si allontanano, attraversano il parcheggio
tenendosi per mano, portando via la risposta
che non ho sentito. Come ognuno porta con sé
il vagito della nascita senza sapere quale parola
in esso si nasconda o ne sia l’eco.
O se sia il sì alla chiamata della vita,
quel sollecito al difficile compito
di morire migliori di come si è nati.

da “IN CANTO A TE”

Nell’assenza compresi quanta vita ci vuole
per capire il come e il cosa dell’amore,
ma quanti i battiti perduti, quanto il calore disperso.
L’imparai sottraendomi alla verità.
Riemerse poi. Lui lontano –
un nome reticente sulla punta della lingua.
Io nello spavento, nella teoria
fui giuda di me stessa
allora che non sapevo come può stare
nel nome di un’ombra tutta la luce che lui ora
riporta alla mia riva.

***
Metto la mano sinistra sul suo petto
giuro che sarà sempre verità l’amore
cresciuto nell’attesa, dall’attesa redento.
E sento gentile il gesto del nostro amarci
se per noi più dolce è il tempo
privo dell’affanno del fare:
tempo ordinario, senza freccia,
così commutano in noi vita e passione
e il raggio verde di questa luce mite
è soltanto l’aurora.

***
Sulle spalle il peso degli anni
perché siano libere le mani
di slacciare le scarpe al tempo
di costruire un riparo alle stanchezze
nei giorni in cui la pioggia torna in cielo
dal corpo idrico sotterraneo dell’amore
– pozzo a cui attingiamo acqua
per il nostro pane quotidiano.

***
Non hanno lettere le parole
che le sue mani tracciano sul mio corpo.
Sono fuoco aria acqua terra
elementi primi di ciò che nasce e si separa
– quadruplice radice di ogni pensiero
che in noi si fa carne incorruttibile
e gioca con la sana imperfezione del tempo
– noi sfera dell’universo in espansione
nella materia oscura del nostro domani.

***
Non mi pento e non mi dolgo
del puro peccato commesso
tra le sue gambe di maschio
capace di farmi tenera e audace
– mai docile sotto l’aspersorio
con cui benedice e lacera
la passione che di lui avvince me
che dal suo corpo torno
come il grano dopo la trebbiatura.

***
(Le previsioni furono imprecise sul tempo e sul luogo
ma indovinarono l’intensità di ciò che accadde).
Ne vidi i segni nel suo sguardo di lupo
tra bagliori di muschi e di licheni
e la luce dei tramonti nella steppa.
Ora sento lui fiutare il mio desiderio, inseguirlo
catturarlo, tenerlo in bocca
in un nido di fiato e di saliva.
Mi abbandono a lui quando spinge e spinge,
oltre e più oltre il piacere
e liberiamo il corpo dall’anima
del corpo facciamo una perla di purissima lucentezza
un tempio di perfettissima innocenza.

Inediti tradotti in inglese da Rocío Bolaños

Sorridiamo a volte
come se in bocca avessimo
la stessa fioritura improvvisa dei papaveri
o l’inatteso apparire del mare dietro una curva.
Ed è un piccolo big bang di coraggio
è l’indicibile riempirsi dei graffi
a muovere i dodici muscoli del viso
e compiere il miracolo – tutto umano –
del sorriso.

At times we smile
as if we had in our mouths
the very sudden flowering of poppies
or the unexpected emerging of the sea behind a curve.
And it’s a little big bang of courage
it is the unspeakable covering of scratches
when moving the twelve muscles of the face
to accomplish the miracle – so human-
of a smile.

Le cose stanno in una loro
disincantata infanzia
accerchiate dall’indomabile volontà del pensiero
di coglierne l’innocenza
e custodirla nella penombra
dove dimora la verità
di ciò che non sfugge e non si sottrae
al soffio d’aria della menzogna.
Così conquistiamo il più che della vita avanza
e si fa avanti nel lutto che è
veglia dei morti sui vivi.

Things are on their own
disenchanted childhood
surrounded by the unruly will of thinking
of grasping its innocence
and keep it in the darkness
where the truth
of what does not escape and nor avoids dwells
to the breath of lies.
Thus we conquer the most that of life scraps
and comes forward in the mourning
holding a vigil of the dead over the living.

Non pensare sia un caso il male
ma guarda la grazia innata
– la matrice geometrica del mondo –
e il bene che ogni giorno attende
le nostre mani per farsi carne di gioia.
Senti la gratitudine adimensionale del vivere
nell’impasto di male e di bene
del nostro circostanziale esistere.

Do not think evil is a coincidence
but look at the natural grace
– the geometric matrix of the world –
and the good awaiting daily
our hands becoming flesh of joy.
Feel the dimensionless gratitude of living
in the jumble of evil and good
of our circumstantial existence.

Se è  distanza uguale
a quella tra la rosa e il suo profumo
non temo lo stare nel silenzio
dove l’attesa non è speranza
ma certezza del bello che viene
e del bene già qui nella materia
del nostro risveglio.
Così mi dice il mattino
imbastito di voli e del mio quotidiano
prestargli il cuore per un canto spezzato
dall’abbaiare di cani senza pietà
e ricomposto nell’attimo preciso
del traboccare delle ore
da un tempo che più non le contiene.

If it is same distance
to the one between the rose and its scent
I am not afraid of being silent
where waiting is not hope
but the certainty of the beauty that comes
and the good already here in the matter
of our awakening.
So the morning tells me
tacked with flights and my everyday
grant your heart for a broken song
of the merciless barking of dogs
and reassembled in the precise moment
of the overflow of hours
for a time that no longer contains them.

Ha il peso di un’abitudine
il nostro guardarci
senza mai allentare la presa
o come un verso scritto al buio
davanti al quale sgrana gli occhi
la luce
e s’annida sotto la verde pisside dei pini
perché le sia di ristoro l’ombra
e a noi sia più facile
lo scrutinio dei  non
che chi muore ci pianta in bocca.

It has the weight of a habit
our looking at each other
without ever loosening the grip
or like a verse written in the dark
fore which the light
widens its eyes
and nestles under the green pyx of pines
so shade may be of relief
and it gets easier for us
the scrutinizing of the non
that whoever dies  hammers in our mouth.

Una palla e dei bambini
sul prato incompiuto del mattino
tirano giù il cielo innalzano la terra
ne mettono alla prova la pazienza
con le loro grida sparpagliano la flotta delle nuvole
prosciugate dall’incredulità.
E non importa se non è tutto qui
perché qui è tutto
perché come un granello di polvere
è d’inciampo alla luce
è in simili granelli di luce
che il male inciampa
e cade.

A ball and some children
on the unfinished morning meadow
pull down the sky raise the earth
test its patience
with their shouts they scatter the fleet of clouds
drained with disbelief.
And it doesn’t matter if that isn’t all
because here is all
because like a crumb of dust
is faltering to the light
it is in such crumbs of light
that evil stumbles
and falls.

Le ore – agili sorelle- scardinate dagli istanti
smarrite nel clamore degli eventi
oscillano agitate dal vento dell’imprevedibile.
Confuse non sanno a quale limite aggrapparsi
e stanno come pane avanzato
che in sé mantiene il lievito e la spezzatura.

The hours – nimble sisters – unhinged by the moments
lost in the ruckus of events
sway agitated by the wind of the unpredictable.
Confused they don’t know what limit grasp on to
and are like leftover bread
holding its yeast and sundering.

Cosa chiedere alla vita,
a queste ore scandagliate
con mani confuse, con cuore scardinato?
Adesso che si sceglie
tra chi lasciare andare e chi  trattenere qui.
Adesso che l’attesa pioggia è arrivata
ma non ristora l’asciutto della terra.
Non chiedere, dunque  rispondere
con quanto in ogni silenzio è respiro
– una preghiera o un canto
che di pietà sorride.

What can be urged from life,
from these fathomed hours
with puzzled hands, with a scattered heart?
Now that there’s a choice
between who to let go and who to keep here.
Now that the awaited rain arrived
but doesn’t freshen up the dryness of the ground.
Don’t ask, answer
with as much breath there is in every silence
– a prayer or a song
that compassionately smiles.

E’ tornato maggio coi suoi deserti asili
e gli impensati vuoti
abbracciati al silenzio dei cortili
quando non c’è altra musica
che lo sfrecciare alto delle rondini
il loro garrito che rammenda l’aria
lacerata dalla paura di chi tra quattro mura
sente che la vita è vita condensata
e come gli atomi perdendo energia
emette luce. E luce allora sia
e illumini ciò che ci fa umani
mostri che non è radice il male
ma lo recide l’essere amati e amare
– l’impegno quotidiano
di chi con le parole dalle cose
estrae splendore.

May is back with its deserted kindergartens
and the unexpected holes
clutched onto the silence of courtyards
when there is no other music
rather than the swifts’ hurtling
their chirp mending the air
ripped by the fear of whom within four walls
feels that life is condensed
and like atoms losing energy
emanates light. Let there be light then
and englighten what makes us human
prove that evil isn’t the origin
however severs loving and being loved
– daily commitment
of whom with words from things
educes glory.