La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Vincenzo Cardarelli


 

Vincenzo (Nazareno) Cardarelli è nato a Tarquinia nel 1887. Trasferitosi a Roma, nel 1919 è stato tra i fondatori della rivista “La Ronda” ed è stato collaboratore di numerosi giornali e periodici, dirigendo dal 1949 “La Fiera Letteraria”.  Le sue opere sono poesie e prose di intonazione lirica: Prologhi (1916), Viaggi nel tempo (1920), Favole e memorie (1925), Il sole a picco (1929), Parole all'orecchio (1929), Parliamo dell'Italia (1931), Giorni in piena (1934), Poesie (1936, ed. definitiva 1942), Il cielo sulle città (1939), Lettere non spedite (1946), Poesie nuove (1947), Solitario in Arcadia (1948), Villa Tarantola (1948), Il viaggiatore insocievole (1953), Viaggio di un poeta in Russia (1954), Opere complete (a cura di G. Raimondi 1962) e La poltrona vuota (articoli e cronache teatrali, a cura di G. A. Cibotto e B. Blasi, 1969). È morto a Roma nel 1959.

 

Wikipedia        https://it.wikipedia.org/wiki/Vincenzo_Cardarelli

Web                 http://www.treccani.it/enciclopedia/vincenzo-cardarelli/

 

POESIE

 

da Opere complete

 

 

Passato

 

I ricordi, queste ombre troppo lunghe

del nostro breve corpo,

questo strascico di morte

che noi lasciamo vivendo

i lugubri e durevoli ricordi,

eccoli già apparire:

melanconici e muti

fantasmi agitati da un vento funebre.

E tu non sei più che un ricordo.

Sei trapassata nella mia memoria.

Ora sì, posso dire che

che m'appartieni

e qualche cosa fra di noi è accaduto

irrevocabilmente.

Tutto finì, così rapito!

Precipitoso e lieve

il tempo ci raggiunse.

Di fuggevoli istanti ordì una storia

ben chiusa e triste.

Dovevamo saperlo che l'amore

brucia la vita e fa volare il tempo.

 

Ottobre

 

Un tempo, era d'estate,

era a quel fuoco, a quegli ardori,

che si destava la mia fantasia.

Inclino adesso all'autunno

dal colore che inebria,

amo la stanca stagione

che ha già vendemmiato.

Niente più mi somiglia,

nulla più mi consola,

di quest'aria che odora

di mosto e di vino,

di questo vecchio sole ottobrino

che splende sulla vigne saccheggiate.

 

Sole d'autunno inatteso,

che splendi come in un di là,

con tenera perdizione

e vagabonda felicità,

tu ci trovi fiaccati,

vòlti al peggio e la morte nell'anima.

Ecco perché ci piaci,

vago sole superstite

che non sai dirci addio,

tornando ogni mattina

come un nuovo miracolo,

tanto più bello quanto più t'inoltri

e sei lì per spirare.

E di queste incredibili giornate

vai componendo la tua stagione

ch'è tutta una dolcissima agonia.

 

 

Alla morte

 

Morire sì,

non essere aggrediti dalla morte.

Morire persuasi

che un siffatto viaggio sia il migliore.

E in quell'ultimo istante essere allegri

come quando si contano i minuti

dell'orologio della stazione

e ognuno vale un secolo.

Poi che la morte è la sposa fedele

che subentra all'amante traditrice,

non vogliamo riceverla da intrusa,

né fuggire con lei.

Troppo volte partimmo

senza commiato!

Sul punto di varcare

in un attimo il tempo,

quando pur la memoria

di noi s'involerà,

lasciaci, o Morte, dire al mondo addio,

concedici ancora un indugio.

L'immane passo non sia

precipitoso.

Al pensier della morte repentina

il sangue mi si gela.

Morte non mi ghermire

ma da lontano annùnciati

e da amica mi prendi

come l'estrema delle mie abitudini.

 

 

Un fanale

In una sera d'inverno
vidi un fanale a Monte Savello,
lucente nella nebbia.
Era un impensato autobus.
Era, quel lume, una grande promessa
per una città di sbandati,
urlante i suoi affanni,
martirizzata dall'nfame guerra.

Era il futuro che rifioriva
in milioni di esseri
attorno a me disperato, concluso.
Ed io solingo andavo,
dicendo a me stesso:
Il giorno corre alla sera
come la vita alla morte.
Ora è vicino il tramonto.
E tu potrai rifugiarti
in quella notte in cui non segue l'alba.



Crudele addio

Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.

 

 

Autunno

 

Autunno. Già lo sentimmo venire

nel vento d'agosto,

nelle pioggie di settembre

torrenziali e piangenti

e un brivido percorse la terra

che ora, nuda e triste,

accoglie un sole smarrito.

Ora che passa e declina,

in quest'autunno che incede

con lentezza indicibile,

il miglior tempo della nostra vita

e lungamente ci dice addio.

 

 

Autunno veneziano

 

L'alito freddo e umido m'assale

di Venezia autunnale,

Adesso che l'estate,

sudaticcia e sciroccosa,

d'incanto se n'è andata,

una rigida luna settembrina

risplende, piena di funesti presagi,

sulla città d'acque e di pietre

che rivela il suo volto di medusa

contagiosa e malefica.

Morto è il silenzio dei canali fetidi,

sotto la luna acquosa,

in ciascuno dei quali

par che dorma il cadavere d'Ofelia:

tombe sparse di fiori

marci e d'altre immondizie vegetali,

dove passa sciacquando

il fantasma del gondoliere.

O notti veneziane,

senza canto di galli,

senza voci di fontane,

tetre notti lagunari

cui nessun tenero bisbiglio anima,

case torve, gelose,

a picco sui canali,

dormenti senza respiro,

io v'ho sul cuore adesso più che mai.

Qui non i venti impetuosi e funebri

del settembre montanino,

non odor di vendemmia, non lavacri

di piogge lacrimose,

non fragore di foglie che cadono.

Un ciuffo d'erba che ingiallisce e muore

su un davanzale

è tutto l'autunno veneziano.

 

Così a Venezia le stagioni delirano.

 

Pei suoi campi di marmo e i suoi canali

non son che luci smarrite,

luci che sognano la buona terra

odorosa e fruttifera.

Solo il naufragio invernale conviene

a questa città che non vive,

che non fiorisce,

se non quale una nave in fondo al mare.

 

 

Sera di Gavinana

 

Ecco la sera e spiove

sul toscano Appennino.

 

Con lo scender che fa le nubi a valle,

prese a lembi qua e là

come ragne fra gli alberi intricate,

si colorano i monti di viola.

Dolce vagare allora

per chi s'affanna il giorno

ed in se stesso, incredulo, si torce.

Viene dai borghi, qui sotto, in faccende,

un vociar lieto e folto in cui si sente

il giorno che declina

e il riposo imminente.

Vi si mischia il pulsare, il batter secco

ed alto del camion sullo stradone

bianco che varca i monti.

E tutto quanto a sera,

grilli, campane, fonti,

fa concerto e preghiera,

trema nell'aria sgombra.

Ma come più rifulge,

nell'ora che non ha un'altra luce,

il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino.

Sui tuoi prati che salgono a gironi,

questo liquido verde, che rispunta

fra gl'inganni del sole ad ogni acquata,

al vento trascolora, e mi rapisce,

per l'inquieto cammino,

sì che teneramente fa star muta

l'anima vagabonda.