Elio
Filippo Accrocca è nato nel 1923
a Roma, dove è vissuto e dove è morto nel 1996. Allievo di Giuseppe
Ungaretti,
insieme a poeti e pittori, nel secondo dopoguerra ha dato vita al
cosiddetto
"Gruppo di Portonaccio". Ha diretto, con Cesare Vivaldi, i “Quaderni
del Canzoniere” e curato con Raffaello
Brignetti i Quaderni
di Piazza Navona,
collaborando con numerose riviste letterarie e artistiche. I suoi libri
di
poesia: Portonaccio (1949), Caserma 1950 (1951), Reliquia
umana (1955), Ritorno a Portonaccio (1959), Innestogrammi-Corrispondenze
(1966), Del Guardare in faccia (1969), Europa inquieta
(1972),
Roma così (1973), Due parole dall'al di qua (1973), Siamo
non
siamo (1974), Versi mignotti
(1975), Bicchiere di carta (1977), Il superfluo (1980),
I binari di Apollinaire (1982), Videogrammi
della prolunga (1984), Copia difforme (1986), Contromano (1987), Poesie. La distanza
degli anni 1942-1987 (1988), Lo sdraiato di pietra (1991), Epi-anagrammi
(1993).
Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Elio_Filippo_Accrocca
Treccani
http://www.treccani.it/enciclopedia/elio-filippo-accrocca/
POESIE
da
Poesie. La distanza degli anni
Portonaccio
Portonaccio
è un ponte sulla ferrovia,
è un quartiere di povera gente.
Gli uomini, da vivi lo ignorano,
da morti lo abitano.
È questo
il ponte che conduce all’isola
dei prati dove muore la città
d’uomini vivi, dove vive il campo
santo dei morti tra convogli radi
al fischio delle fabbriche.
A notte i morti crescono coi tufi
che ardono alla luna.
È questo il ponte che conduce all’isola
dei morti dove vive la pietà
degli uomini che vegliano nel grigio
di queste loro case in miniatura
sepolte dentro gli orti.
A notte i treni passano sui morti
che ridono alla luna.
Ho
dormito l’ultima notte
nella casa di mio padre
al quartiere proletario.
La guerra, aborto d’uomini
dementi, è passata sulla
mia casa di San Lorenzo.
Il cuore ha le sue distruzioni
come le macerie di spettri,
eppure il cuore ancora grida,
geme, dispera, ma vive
come la madonna di Raffaello
salvata tra i sassi della mia casa
e un paio di calzoni grigioverdi.
Mi si è
seccata l’anima,
mi si son logorate le mani
a ricercare il corpo dei miei morti
sepolti senza grida.
Ho
chiuso il mio tormento
su questi sassi che a me
celano segreti di morte.
Chi mi staccherà dalle macerie arse,
chi mi quieterà?
San Lorenzo ha sofferto col mio cuore
i suoi vivi e i suoi morti hanno lasciato
in me una strada aperta.
Figlio,
tu non farai certo il poeta
Figlio,
tu non farai certo il poeta
denigrato mestiere, bene raro
che in sé racchiude una perla segreta:
moneta antica dal valore amaro.
Il tuo malfermo passo ad altre mura
io guiderò, ma se la mala pianta
dentro il tuo cuore rinverdisse, oh, quanta
radice estirperei… Altra natura,
figlio, ti fiorirà nel sangue e nuova
vita t’allieterà i futuri anni
che s’aprono al tuo sguardo, altra ventura
avrai, diversa sorte,
lontano dagli affanni
dell’inconsulta vita che dà morte.
Tu non conoscerai la zona dove
si giuoca l’amicizia ai tristi dadi.
Se un giorno passerai in mezzo ai radi
poeti, a te il ricordo non sovvenga
del paterno sgomento.
E rifuggir dovrai
le mura, il ponte e il vasto casamento
e la corrotta aria dei quartieri
che accolsero il mio cuore un tempo (ieri)
così remoto che non fa memoria.
Né tu conoscerai le amene dispute
e i disinganni e i falsi ingegni e i queruli
lamenti, né l’incorrisposto affetto;
né familiari ti saranno i nomi,
o figlio mio felice
ad altre rive vòlto,
degli sconvolti amici di tuo padre
pronti alla guerra ed alla insofferenza
per una voce che raggela l’eco
della loro incantata maldicenza.
La guida
Vorrei
essere insensibile
come un oggetto,
una cosa scartata dal destino.
A passo
d’uomo
ho ripercorso l’ultima tua strada
per ritrovare l’ombra di un tuo gesto.
Eri
tanto, eri tutto:
l’universo si rifletteva in te;
ora che non sei evanescenza: nulla.
Tua
madre ha fatto il bucato
con le lenzuola dove dormisti
l’ultima notte: portano il tuo fiato.
Hai
compiuto con noi un breve tratto,
ora osserviamo il vuoto che hai lasciato,
occupato soltanto dal ricordo.
Oggi che
hai vent’anni
ti ricreiamo con la fantasia
nel luogo che conserva la tua voce.
Mi metto
le tue scarpe, i tuoi calzini,
ricammino con te,
ma non so chi dei due sia la guida.
Il
ritorno
Non
riesco ad abituarmi
a non vederti più, a non sentirti:
è forse la condanna per chi resta?
Se
avessi potuto raccogliere
nel cavo della mano la tua voce,
avrei almeno un’eco del respiro…
La tua
aurora ancora scrive: è il fiato
d’una parola che rimane, il segno
della tua presenza indecifrabile.
Oggi due
moto per le vie di Roma
(la stessa marca, stessa cilindrata):
ho chiamato, ma hanno accelerato.
Se
ripercorro quella litoranea
o sollevo la sabbia di Lavinio,
tra le dita riaffiora il tuo profilo.
La
filigrana del viso
torna a emergere dal vuoto,
come a un’estrema lente di follia…
L’impronta
Se
potessi portarti
qualche cosa di quello che hai lasciato
di qua… fammi sapere che desìderi.
Beato
chi non sa, chi non ricorda:
la memoria è da uccidere, non l’uomo.
Altro che un dono, la memoria è un peso.
Però se
mi mancasse pure lei,
oltre che te, mi resterebbe il nulla:
la condanna sarebbe più straziante.
Le tue
cose, gli oggetti col tuo nome
sono tappe del vivere
che ci danno l’impronta dei tuoi passi.
Sulla
scia di Joyce
…era
lui, che dubbio hai?
era Joyce per le strade di Dublino
al pub con l’irish-coffee da bere in coppa
o in quell’altro pub con la guinnes
scura davanti agli occhi
smaltata con quattro centimetri di biacca
panna schiumosa
due panne schiumose
tre panne, quante pinte
sullo stomaco di prima mattina…
Anche il Liffey è ricolmo di biacca
che scorre lenta nel grasso canale
il sole strafottente è di marca nazionale,
sempre un po’ su di giri
la gente di Dublino
con doppia scrittura
e lui gaelico sui manifesti
“torna indietro…”
la torre sul mare di scogli
tra i gabbiani di Dalkey
che sanno di verderame,
da qui
comincia la cara e sporca città
con musica da camera in versi
per mischiarsi alla folla irrequieta
con lo schiamazzo facile
e l’ombra di Ulisse che annotta…
La
polvere
…di un
fiume si sa la destra e la sinistra
seguendo la corrente
ma
una strada non ha
il verso decifrabile.
Nemmeno
il presidente della Rai
ti conosce, non sa dove ti trovi,
ignora il grado della tua solitudine…
Non sei
che un guscio vuoto, Babuino,
creatore del nulla, irriconoscibile
involucro di elementi che formicolano
indaffarati nello specchio delle vetrine immobili:
la loro varietà sa di colore espanso
che una suola o un tacco può travolgere
inavvertitamente
senza
ragione o scelta…
ma una
traccia del nulla è già mistero
che contiene lo scotto di quel vuoto:
nella
«vetrina»
ci sei anche tu, irriconoscibile, sdoppiato nel tempo,
oggetto dentro il raggio d’uno sguardo,
figura, sei persona, nome, età, forma, volto
che insegui con il margine dell’occhio
a catturare un simbolo
che
non ha peso, che non ha misura
La
tua velocità, buio, è superiore
a quella della luce…
Un’occhiata
al rettangolo irregolare di cielo
di tanto in tanto per staccare lo sguardo
dalle strisce, ma la pupilla
è
meccanismo terrestre,
sa di vincolo umano, d’esistenza
Tu ignori curve/sfere/ellissi,
le leggi si attrazione, le linee dell’universo,
sopporti appena i tagli del momento,
la tenerezza dei colori, i toni dell’altrui
modulazione,
lo spazio tra le cose,
la mia voce che sorprende anche me
e
questa è vita
che a millimetri annoveri decifrando
la corrente che fluttua sulla strada
enumerando volti che incornici sotto il vetro
delle
tue parole,
offrendo tempo, un dono senza prezzo
che da solo disperderai dal tuo comune livello
con
le mani inesistenti:
altra polvere non avrai che queste pagine…