La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Feliciano Paoli

Feliciano Paoli è nato nel 1955 a Urbania (PU), dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesia "La colpa del fiorire" (Archinto, 1998), "L’estero più vicino" (Archinto, 2002), “Non perdere per strada” (Archinto, 2014). Ha pubblicato poesie su “Lengua”, n. 9; “Hortus”, nn. 3, 10; su “Verso”, n. 6; su “Pelagos” (1996). Ha tradotto la raccolta di poemi in prosa di Yves Bonnefoy "Il teatro dei bambini" (San Marco dei Giustiniani, 2002).

E-mail    f.paoli@comune.urbania.ps.it

 

 

Dialoghi con la madre

Il fosso ha ricominciato a correre

ce ne siamo accorti adesso

che ci siamo avvicinati

all’argine degli alberi

e se non fosse che pensiamo

di portare l’acqua nella casa

non ci sarebbe altro

che la gioia di un divenire

che ricomincia dal principio.

è sempre in questo modo

il passeggiare con la madre, anzi

non esiste questo lessico

nel suo vocabolario, dobbiamo dirle

"Arriviamo fin lì! " per passeggiare.

E se per strada incontra un sorbo

se vede un selvatico ciliegio, subito

pensa di trapiantare i getti, oppure

vuol raccoglier rosmarino che cresce

contro i muri e le pietre dei fienili

e che fa un profumo denso

di resine che odorano d’incenso.

La luce in quella valle dove

scorre il fosso è già partita

e invece venendo su

per queste curve erte s’illumina

la sera scendendo verso l’alto.

Vedi le coste, non ravvicinate

come al basso, ma nel susseguirsi

di variate forme con il velo

della luce, mentre dai raggi

le nuvole passate

colgono un leggero

vento, da niente, della sera

(e poi amo l’occidente).

"Andiamo a vedere il pozzo!"

Cos’è stata, sempre, l’acqua

per noi, forse un luogo comune

al quale abbiamo prestato

la nostra fede intera,

"non possiamo vivere senz’acqua"

e allora guardiamo il pozzo

aprendo un rustico sportello

per vedere fin dove arriva

sembra torbida e bassa,

un po’ stasera

e in quell’acqua

nel fondo grigia

dice che hanno visto un rospo

che da anni s’è accasato

e delle salamandre

ci può essere una serpe

spaventàti se beviamo

o se usiamo acqua

con a monte una bestia

peggio di un lupo.

"I tedeschi i tedeschi!"

venivano su in questa pieve

che era in vista dalla strada

da dove passavano

ritirandosi da Roma per il nord.

C’è stato sempre un moto di gente

anche per questi chiusi monti

le parole che hanno lasciato di recente

la più nota era raus!

Che tradotta, forse, è il pussa via!

che noi diciamo ai rognosi cani.

"è caduto il governo."

Una volta si credeva

che immediato ci fosse

anche per le nostre sorti

un cambiamento,

adesso stiamo li a prendere

aria seduti nelle scale

e sembra che queste notizie

le ascese e le discese dei potenti

siamo convinti che non cambieranno

e le persone sempre ci saranno

agili ad adeguarsi negli incroci

con il talento dei periti leviatani.

Ma anche andare dialogando

con la madre per un prato

che ancora cerca stecchi e

bastoncini per fare le fascine

è memore degli annosi freddi

e davanti queste cataste

il fuoco nelle case

era un sole che faceva spesso

un po’ di fumo e lasciava l’acre

odore che la legna bagnata

o verde fa friggendo nei camini

e il freddo sbucava fuori

con immediati agguati.

Ma anche andare dialogando

scioglie gli accumuli e le croste

e vedendo gli animali

pecore o cavalli che semplici

seguono sperando

in pochi acini d’avena

ponendo le labbra

nei palmi delle mani

Passo io per delle zone

che forse hanno sofferto

senza saper per cosa

hanno una specie di mal di denti

se la terra fosse una bocca con le carie

sembra che non vogliano

intendere altro

se non il proprio dolore

come se fossero refrattarie

per loro impossibilità a sentire

a partecipare a cambiare

hanno una specie — altre volte —

di umore imbronciato

in questo posto dove

per sbaglio le case sono nate

saranno stati degli addii

con persone mai conosciute

sarà stato il loro

desiderio

che si ricordassero di loro

avendole appena

o forse mai viste

come poteva essere

diversamente poco più in là

delle terre contente

con gli ulivi

con gli occhi

stupiti del mare

voglio venire a star qua

ma avrò il coraggio di restare

o sarò come i pochi altri

che vi hanno fatto delle case

sembrano case nate

in un posto sbagliato

e dopo hanno lasciato

come se non li avesse voluti

questo pezzo di terra.

Se una lettera scriverti dovessi

in risposta alla tua che ho aspettato

invano guardando dai forellini

della cassetta della posta

se un bianco amore traluceva

da quei buchi di lamiera

o se un’ala della busta

usciva dalla fessura d’alluminio

io non saprei

che dirti da dove cominciare

Cosa ti posso dire?

Ah, riandare

indietro fino

alle prime righe:

come sono strane

queste porte con i vetri

dentro i quali

- facce dietro il video -

si vede gente diversa

da quella

di anni indietro.

Qual è il posto da dove

escono chiare dalle labbra

le parole non stregate o

inquinate da sguardi

o da rapidi gesti

delle braccia o delle gambe;

aspettiamo dei moti

che producano lettere

decenti; oppure aspettiamo

anche silenzi che non siano

come macerie dove il silenzio

fuma tra la polvere;

(ricevere lettere)

forse perché quegli

affetti lontani rimangono

tali perché erano come

un andare tra la folla

senza impigliarsi come fa l’aria

nei loro destini, o come fa l’acqua che

corre senza fermarsi nei posti;

forse è questa la ragione

          della felicità di una lettera

era stata fluente come il suo

passare per poche ore tra qui;

ma se si fosse impigliata

come una sciarpa tra le

spine di un roveto,

o le fosse venuto in mente

di infognarsi in

qualche gora

Dovreste processarmi

per questo fatto

di amarvi

perché siete passanti

Ed io cosa rispondervi potrò

già sentivo guardandovi negli occhi

come era un destino l’infedeltà

perché prendere tra noi confidenza,

mi domandavo se farmi vedere

interessato con questa materia

destinata a rompersi presto,

perché ne risultava un segno

che lo faceva sembrare

ipocritamente infrangibile

E poi rispondervi. Inadeguato

oramai per sedermi gustando

la mensa, per rispondervi a tono

l’opacità come un sasso

amorfo starebbe nel

torrente e voi sareste l’acqua

per un momento ho solo le vostre

rifrangenze, tale ricchezza

evapora e s’asciuga

rimane secco nel greto

e sente l’acqua

che gorgoglia molto lontana

così il vostro parlottare

acquatico per lettera

all’imprezioso sasso

L’estero più vicino

E così un mattino,

caro amico

ci troviamo in gita in

un’altra città; c’è il

vento, guardiamo

i campanelli

sulle porte delle case;

diciamo i nomi di questi

uomini che corrispondono

alle placche; ci diverte

notare come son fatti

i pulsanti per chiamare

le persone; e leggiamo

l’elenco telefonico: meraviglia,

ci siamo! E ci sono alcuni

che non ci sono;

hanno i nomi di altri

che abitano lontani;

e gli altri hanno i nomi

di loro che abitano vicino. Ma

che importa? Giriamo

per le strade e guardiamo

i muri: siamo anche curiosi dei

nomi dei morti stampati e

pubblicati: e

chi è questo qui che

è morto? Senti che nome

aveva, guarda dove abitava

Che fare? Non dovremo andare

al nostro funerale?

Non era facile

con gli altri

in queste uscite

ma se gli altri

ci vedevano

ci perdevamo

noi

di vista

Finalmente

tornavamo

a casa

(ma eravamo in gita)

Il cancello è quello,

ma non era la nostra casa

di cui però

riconoscevamo

l’albero di ciliegio

piantato da mio padre

(Fortuna che eravamo in due

se no non ci avrebbero creduto)

Però a volte si pensava

era un po’ triste

la vita senza saper

dove si era

si orecchiava dalla

guida quando spiegava

a un gruppo di stranieri

sembrava di capire

che eravamo

sulla prima cinta

delle mura (e quelle là

più lontane

erano di un’altra era)

 

Brani tratti da "L’estero più vicino", Archinto, 2002.

 

Poemetto

Così è San Cristoforo protettore

dei passi, malagevoli, fra i sassi

difficili soccorre l’errore e lo sbaglio

dell’andare pesante bagaglio, accendi

i tuoi lumi, lancia i ponti sui fiumi

sta vicino nell’incerto disagiato cammino

aiuta tu, che sei saggio, a fare un ottimo viaggio.

Così è per te, avvicinarti, anche

un passo è difficile, quel passo

che porta all’introito dei tuoi

ambienti, per vedere se menti

se le sementi del dialogo possono

essere viatico a vivere

con il tuo mondo lunatico

oppure se è possibile

mantenere il processo largo

senza arrivare al varco.

Cosa può pensare? Che si ravvia

i capelli e che può essere amato

con una carezza al costato, riverso

sul letto può essere desiderato

per il profumo che la testa spande

sul guanciale, senza pensare al male

che è stato fatto, per cui ravviarti,

o sfiorarti è un misfatto. Ebbene

camminando con l’andatura compita

da giovinezza finita, sentendo un rumore

ruvido sotto il piancito umido gli ricasca

la struttura e il cordolo di contenimento

e quel momento di certezza che aveva

scambiato per uno stato, da cui aveva

tratto l’ebrezza toccando

il costato, di avere fermato...

Eppure da uomo adulto, oramai posato,

vicino all’accettazione del fato

che scruta da pari a pari un ritratto

o una fotografia di uno che spendendo

una grande energia aveva lasciato, negli

anni, una scia. Forse c’è stato, allora,

il rimpianto per non avere mura menate

cancellate, nemmeno prese

e difese, come un fantasma aperto e come

una serata diafana e pia la sua fisionomia;

e il suo tentativo di trovare una

spiegazione primordiale che ad un oggetto

o ad un fatto gli desse il natale;

per una macchia più scura che appare

sulla carta, senza sapere se sia

stata deteriorata, o la mano

benintenzionata avesse calcato

col grassetto a scopo di un

recondito effetto;

senza sapere se lo scialle rosso

e decorato con un fiore spampanato

quale storia poteva avere e che memoria

gli poteva dare, che cosa voleva

dire originale, il suo colore contadino,

un fazzoletto che si metteva per la fiera

era la spiegazione più banale

oppure se un panneggio fosse

consequenziale, se era una

esercitazione di professione

sopra un alfiere, se il pittore

dopo quel fatto poteva

cambiare mestiere;

o nella carta topografica, sopra una

tanica d’acqua e uno straccio, le mura

disegnate recintavano l’energia per non farla

uscir via, ed erano disposte

a setaccio per i sentimenti stranieri.

Questo è successo anche ieri, a lui

gli ho aperto una porta disposto

un ponte levatoio perché nel suo

pensiero che è un filatoio tesse

con trame spesse l’azione, lasciando

sempre un altro capo per cominciare

un altro disegno, per crearsi

un altro regno;

è ben diverso il suo ordito che,

sbagliando, dà per finito; quando

confronta il suo schema con il tema

alieno deve pensare a come

far quadrare le forme in mezzo allo

scalpiccio di orme che gli altri

hanno lasciato pestando il

doloroso selciato.

Ma deve pensare se gli ha

aperto solo una porta, oppure

gli ha diruto le mura,

atterrata la rocca e il bastione, come

un perfetto testone; gli ha

consegnato l’incolumità e tutte

quante le chiavi della città.

 

Riga di mezzeria

Assisi religiosa e piovosa

alla quale abbiamo accompagnato

un amico, di domenica pomeriggio

incontrando cattiva aria, su per

il passo di Bocca Trabaria.

Quando superi il passo, c’è tutto

un tratto disabitato che ti fa

chiedere se ci sarà di nuovo

una fascia abitata, se si rivedrà

delle case e delle contrade; poiché

nel pomeriggio mentre la macchina

cavalca la riga di mezzeria e ci porta

davvero via dalla nostra casa,

ma non ci porta via da una

residenza interiore

che senti rombare al suono del motore

e quando vedi infine il recinto

delle case e i campanili mentre

cavalchi ancora l’autostrada

cavalchi la superstrada e cerchi

di risalire e di sfuggire

alla frangia sfilacciata

di confine di cui sei tu un

minuscolo crine e cerchi

con forza con speranza di tornare

alla trama, con quella meccanica

cavalcatura senza briglia senza

zoccolare ma con un forte rombare

senza guida ma con il volante

con il quadrante, senza calpestio ma

con un mortale stridio, senza il lanternino

ma con i fari, senza spari del brigante

di strada ma con i botti del tubo

di scappamento e con il rancore dell’acqua

bollente del radiatore che

corrode e dà un doloroso bruciore

e con il disamore che è la valvola finita

da rifare, se tu vorrai ancora

riamare. Cavalcatura, cavalcatura dura

e morbida poltrona accessori aggiornati

e sentimenti anche oramai di ricchi

disperati, superando le macchine lungo

la mezzeria ---------------------------------

Brina

Rocce e prati lucidi di brina

vi brillano da questa strada

serpentina che un’altra volta ripercorro;

riattacco da in fondo a prendere

passati gli anni, partite le

persone; con questi che viaggiavano

con me, dolci anche persone

con le quali io meglio

che potevo viaggiavo; e

io solo questa volta in fondo al

passo riprovo ancora e ci

do l’attacco; com’era bello

ancora fermarsi un po’ — qui — prima

di riprendere la strada, entrare

dentro, andare verso il banco in questo

posto dove singoli isolati

passano giorni inverni, forse

tristi. E meglio ripartire

né posso, però, scordare

che viaggerà sempre

con me questa parte

anche di carne.

Com’era bello qui fermarsi

prendere il sole dai vetri

dell’inverno; credere o

fingere di credere che andava

bene prima

di risalire e di dar l’attacco

al passo; come allora nonostante

il tempo passato, come allora

nella curva incontro la curva

di un fiume che spumeggia e

vedo ai bordi della strada

gente che cammina o dentro il

paese pensionati alla panchina

o qualcuno che attraversa e va

per una sua faccenda o altri

che han fermato la macchina

per strada. Erano speranze

di cui rimane forse un filo

in queste stanze.

 

Brani tratti da: "La colpa del fiorire", Archinto, 1998.