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L’AMORE SECONDO NADIA SCAPPINI

L’AMORE SECONDO NADIA SCAPPINI

Al lettore che s’inoltrasse in queste pagine di Come dire dell’amore (Moretti&Vitali) di Nadia Scappini, consiglierei innanzi tutto di seguire il lento snodarsi dei versi rispettando la scansione, i ritmi, la disposizione delle poesie voluti dal poeta, a cominciare dalle tre epigrafi che annunciano la tonalità dominante del libro, dove ogni parola è segnata dal doppio silenzio che la genera e la segue, dalla pausa che consegna i suoni alla traccia di un ritmo, facendo risuonare, entro il perimetro rigorosamente protetto del verso, quella «immaginazione» dell’impossibile di cui parla, proprio in esergo, Antonio Prete. Nella rigorosa architettura del libro, sono dunque previsti un introibo e un exibo, un ingresso e un’uscita dalle porte del libro, che fin dai titoli delle due sezioni si danno nella forma di una lingua liturgica, con tutta quella carica di annunzio, di buona novella incipiente che è data proprio dall’uso, in entrambi i verbi, del futuro. E in questo introibo, sulla soglia ormai del libro, il tema che il poeta sente di dover porre, e di dover porre all’attenzione del suo lettore, è proprio quello della parola, colta non nella sua distesa forma comunicativa, ma in quella, più complessa e severa, che presuppone l’atto dello scrivere come un «partorire», all’interno di un «percorso di conoscenza», di una storia dunque, che è quella della grande cultura occidentale, «tra le Erinni e le Eumenidi fino a Cristo in croce» (da Eschilo, dunque, fino alle Sacre Scritture, viste come apice teologico della lingua stessa). Con moto luziano (quello, paradisiaco, di Frasi nella luce nascente), anche le parole disegnano il «passo» variegato della parola poetica, sentita come una fiamma che si volge verso l’alto, anche quando tutto sembrerebbe volerla appiattire, spegnere, fino a che «si disveli / il bozzolo / dove il seme è stato (lungamente) custodito»: una parola umanizzata, che anche quando pare ritrarsi, e «non volere entrare nel buio» delle cose del mondo, cedere al potere suasorio del sonno, continua, pure, a «brulicare in sogno». Proprio in questa poesia si sente come Nadia Scappini sfiori lievemente, nei suoi versi, i confini dell’allegoria, ma sempre ritraendosene, lasciando che le parole continuino a serbare un loro fuoco ignoto, misterioso, pronte, in qualsiasi momento, a traslocare (che è, poi, letteralmente, la traduzione del metaphorein greco), a impennarsi verso cieli ignoti. Di una quieta bellezza è anche il componimento successivo (baillame), dove per la prima volta s’intrude il tema, anch’esso decisivo, della terra natale, del luogo in cui è riposto un sapere prezioso, salvifico, come sarà presto evidente fin dalla sezione successiva. Ma già qui, in quella decisione di «riparare le parole», è tutta la tenacia e la sapienza – la memoria – dei vignaioli del nord, con un altro bell’esempio di come il dato naturalistico sappia lievitare fino a quello simbolico e scritturale, così che il vignaiolo che pota i suoi tralci non può non richiamare le parabole evangeliche del Cristo. Richiami che si danno sempre con pudore, ma che svelano il senso, pagina dopo pagina, di questa scrittura lenta e sinuosa, che attende il momento giusto di fruttificare, che anzi già sposta il suo sguardo, come nell’ultima poesia di questa sezione inaugurale, alla festosa «sosta di un settimo giorno», nell’utopia di una parola capace di assestarsi «sulla misura esatta di una dimora / ritrovata»: ritrovata, come la patria celeste di cui la «piccola patria» della sezione successiva è in fondo una sorta di anticipazione imperfetta e confusa, di città terrena. Ledine, piccola patria si distende in nove sequenze che, come già il lettore avrà avuto modo di vedere fin qui, si muovono tra il verso breve, a volte suddiviso in scalini (gli scalini di tanti versi dell’ultimo Luzi), alla misura lunga, lunghissima anzi, prosastica, di componimenti in cui la misura ritmica e metrica sembra spazzata via da un’urgenza nuova, capace di aprirsi, proprio come nella nona sequenza, alla rivelazione puntuale di un senso in cui vanno a raccogliersi tutti i versi precedenti: Ledine, la «piccola patria» di queste pagine, è «uno spazio di misura» dove tutto «è dato con fatica e goduto» con sapienza, dove la vita sembra ancora obbedire ai ritmi di un’arcaica, «mite accettazione» degli accadimenti della vita. Pare una regressione al mondo contadino di un tempo che la modernità ha spazzato via: ma esprime innanzi tutto lo sforzo di tracciare uno spazio di interiorità che congiunga l’anima di chi scrive (e sicuramente, nelle intenzioni, anche di chi legge) al corpo del paesaggio stesso, con tutti i suoi segni antichi, le presenze ancestrali radicate nelle «inestricabili vene» di una collina: l’anima di chi scrive cerca insomma la sua verità nell’«anima sopita della terra» (non c’è negozio), spiandone il segreto originario, in una dimensione di vita e di pensiero inevitabilmente divisa «tra ombre e cose» (altre volte), ma sempre nella fiducia di un «accudire» (cfr., ancora, non c’è negozio) che è insieme del cuore e della terra. Sono proprio le parole dell’anima a guidare le sensazioni-evocazioni delle otto microsequenze successive, raccolte sotto il titolo di suggestioni, e precedute da un esergo agostiniano tratto da uno dei passi più memorabili delle Confessioni, là dove la memoria è rappresentata come un vasto speco dai meandri misteriosi e ineffabili: un immenso palazzo in cui posso vedere, udire, odorare, senza per questo che io faccia altro che evocare nel palazzo della mia mente sentori, luci, suoni: lì, in quel magico anfratto, rispondono a un mio cenno cieli, e terre, e mari. E qui, in questi versi brevi e frantumati, si danno appunto suggestioni sensoriali, provocate dal suono di un grillo o di una civetta, o dallo «schizzo d’inchiostro» disegnato nel cielo alto da un falco, dal frusciare di un fico gravido di liquore, dalla luce dell’ultimo sole che brucia «la calce dei muri». Suggestioni che rispondono nondimeno a un pensiero più che remoto del mondo, affidato appunto alla cura della memoria, che non sarà solo da intendere, qui, come memoria privata, ma anche come memoria avita, ancestrale. Nella vasta sezione successiva (Signore, mi fa male la vita), affondiamo nel grembo di un’estate lontana: un’estate in cui le giornate sono fatalmente lunghe, mentre il nostro girovagare per campi e colline ci appare come sovrastato, invaso, anzi, «da un nuovo straniante sentire» (quelle lunghe giornate): tutto, nei versi di questa sezione, si dà nelle forme di un’attesa, di un gonfiarsi del cuore a qualcosa di impercettibile e di sovrano, che solo ora, nel palazzo appunto della nostra memoria, sembra assumere un volto, trovare il suo senso. Tutta questa sezione ha d’altronde un suo andamento circolare e labirintico, in cui possono fluttuare tempo dell’infanzia e tempo di un’età più matura, dimensione privata (cfr. in particolare perdonarsi) e memoria storica (trincea), pensieri immanenti e improvvisi slarghi di pura trascendenza religiosa (Diego, per te), che trovano la loro unità, il loro punto di sintesi nella poesia conclusiva (Natale): proprio qui, alla criptica citazione dantesca («in questo tempo, / aiuola barbara e sontuosa»), in cui sembra precipitare la dolorosa temperie della contemporaneità, sembra opporsi il pensiero dell’«altrove», di un «Tempo nascosto», utopico, in cui un Bimbo esce al mondo, portandolo al suo immane compimento. Con Natale, il libro sembra dunque trovare il suo punto di equilibrio, e sia pure instabile: in quell’immagine di un fuoco accanto a un presepe, è la dimensione semplice, quasi ingenua (l’ingenuità del simplex francescano), in cui tutto trova la sua giusta collocazione. La discesa alle «madri di montagna» della sezione successiva (madri, appunto) non fa altro che dilatare, nello spazio, ancora una volta, della memoria (di una memoria, andrà ribadito, non individuale ma comunitaria) questa capacità di dare una risposta all’incerto e all’informe del mondo, del suo tempo frastagliato: nel vibrare di un dialogo difficile con chi assiste proprio al franare di quella memoria, è ancora, non a caso, l’immagine del Natale a promuovere il senso autentico del passare dei giorni, a saper conservare, ravvivare «dentro le rughe […] / le stanze della gioia (madri di montagna). Ed è nella sequenza conclusiva di lontananze che si affaccia l’immagine che dà il titolo all’ultima sezione, prima dell’inevitabile exibo, del libro: «come una bestiola appesa / a un uncino // il mio cuore / sopra il tuo cuore». Nell’essenzialità da versicolo ungarettiano del componimento, è come se si rapprendessero tutti i temi della raccolta: il legame con la propria terra, la dimensione affettiva e familiare che rappresenta il cuore di quella cultura, ma anche la condizione dura, aspra del vivere («appesa»). Nelle trentun brevi sequenze di le appese, che a volte sfiorano la forma di un haiku, sono di nuovo le immagini di una vita semplice, arcaica a introdurre la riflessione sul motivo – così centrale (come il titolo della raccolta d’altronde testimonia) – dell’amore: quanto cielo in questi versi, in cui l’anima vorrebbe staccare da sé il troppo e il vano della vita: «gli aggettivi possessivi / lo spazio del già detto la paglia / secca che resiste al nido». In questa condizione così cruda, rappresentata nell’immagine ripetuta dello stare appesi, il poeta torna, a poco a poco, al motivo sul quale il libro si era aperto, che era quello della parola poetica, del suo stare dentro l’essenziale delle cose, rinunciando, per restare a questa citazione, alla vanità di un possessivo. Il tema della parola, di quel suo «dire» (e come dire) ritorna anche nell’exibo finale, dove certo non sarà un caso se a imporsi, fin da subito, saranno termini come «cuore» e «natale». Ma ora capiamo come il senso profondo di quell’exibo non stia tanto nel semplice uscire dalle porte del libro, quanto quello – egualmente presente nel significato tradizionale del verbo exeo – di un “mettersi in marcia”, di un “germogliare, germinare” a nuova luce, e dunque, anche, di un “ascendere, innalzarsi”. Qui il libro si chiude: quel che si apre è appunto l’attesa, forse il sogno, di una vita nuova.

Giancarlo Pontiggia

Postfazione

 

 

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