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L’URGENZA COMUNICATIVA DI EDERLE

L’URGENZA COMUNICATIVA DI EDERLE

Ancora una volta, in questo I giganti e gli uomini (LietoColle), Arnaldo Ederle ci stupisce con la densità della sua scrittura e con l’alto senso morale che la pervade; integro nel suo vigore intellettuale; anzi rinvigorito negli accenti – fortificati da decenni di appassionato servizio alle ragioni di una lirica dichiaratamente umanistica – che soltanto l’età della parresia permette di conseguire e compiutamente manifestare, convertendo al meglio i giovanili inciampi e le generose, eppure, a volte, ingenue infatuazioni sperimentali degli esordi. Per quanto attiene ai poemetti (genere, questo, assai consentaneo al Nostro) “Il mio batuffolo di cioccolata”, “Donne e uomini”, “Andava rovistando Uség”, “I giganti e gli uomini” (che dà titolo alla raccolta) e “Monster of cruelty” – questi tutti comparsi online (in “Poliscritture”) – e “Già  sede di casermaggio” e “Il canto dell’Angela”, già pubblicati in “Poemetti e racconti in versi”, ne ho fatto oggetto d’intervento critico ne “L’opera di Arnaldo Ederle – Impressioni e riflessioni” (in corso di stampa), mi limito qui ad evocarne, per “parole-chiave”, i valori estetici più evidenti e, insieme, più complessi: la tenerezza, l’eros, la pietas, la solidarietà, l’amore e i suoi mali, l’ethos, offeso e tradito da una frode universale, da un irrimediabile dissesto, il “non so” filosofico e il compassionevole affetto verso gli animali. Quanto alla produzione inedita, mi attengo, stante la mia proclività analitica (che debbo alla mia formazione scientifica), a ciò che i temi e la scrittura di Arnaldo Ederle mi son venuti suggerendo di volta in volta. Ne “Le due donne”, poemetto tematizzato con magistrale, aurea mediocritas (in senso strettamente oraziano), l’enunciato programmatico si dispiega attraverso una galleria di elementi intrisi di evocazioni nostalgiche: una natura ritoccata con discrezione, una memoria affidata ad immagini fotografiche amorevolmente custodite, moti affettivi effusi, allo stesso tempo, in direzioni diverse, eppure fedeli, persistenti e sinceramente conciliati. In “Oh Brahms” il lessico di cui si giova il Poeta nel celebrare l’eccelso sapere compositivo dell’Amburghese”, “accarezzatore di visi [e] “tonante signore / dei nostri cieli”, “virulento e tenero produttore / di […] sciami di passeri dall’ali / dorate”, di “perentori dictat” e [di] gravi percussioni, che fa frusciare “note [come] / foglie di tenui e risonanti colori” – richiama, sorprendentemente, quanto Clara Schumann Wieck riferì su una sua visita all’amato Robert nel manicomio in cui questi era segregato. Qui il fondatore della “Neue Zeitschrift für Musik”, rivolto alla moglie, chiedeva, con il suo infallibile intuito critico, non offuscato dalla malattia, se “il nostro Johannes”, svettasse alto in cielo o si celasse sotto la corolla d’un fiore. “Che bello il pianto”: lirica mirabilmente intessuta di riferimenti alla neurofisiologia della sfera emotivo-affettiva, all’inaridimento di un cuore tuttavia fraternamente spalancato a quell’”esperanto del dolore” di cui disse Camus, alle sfiduciate invocazioni che l’essere umano rivolge a Dio affinché si compiaccia di largire ai viventi un’antientropica redenzione. Ma Dio, absconditus, non si svela “mai, se non / nei versi dei poeti e nelle menti delle madri […]  / che invocano, / ma sempre inutilmente”. “Marcia funebre zoppa” è un andare per i ghiaiosi viali d’un povero cimitero, accompagnati da un pace-maker musicale aritmico, al seguito di un morto sconosciuto. Anche il dolore è “zoppo [e] singhiozzante” e la marcia si annuncia quale infausto presagio di morte per ciascuno – regredito, ormai, a una dimensione animale: “saranno cazzi / aspri e saremo fregati come rane senza  / più acqua o ragni senza ragnatele / o bufali senza più erba e terribili scrofe / prive di fango”. “La favorita del Sultano” riprende un poco l’ambientazione e le atmosfere di “Baghdàd (da un racconto di Sharhazad)”, incluso nella raccolta “Poemetti e racconti in versi” del 2016. Harem, affollati di morbide carni, languidamente adagiate su tappeti e cuscini, nude e profumate, alla Ingres, effluvi di spezie orientali e insinuazioni erotiche alla Pierre Loti sembrano promettere squisite delizie. Ma è tutto un’illusione, un alienante, perfido inganno. Tutto fuor di luogo: quel che urge sono i problemi d’una vita fatta di bollette da pagare e di spesa quotidiana. Bellezza contro realtà: recupero di una vigorosa vena di poesia civile. “Noi siamo uomini donne bimbi” esposti alle “intermittenze della morte” (Saramago). La morte, appunto: (1) “Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali. / E’ il rifugio dei mortali, / di chi è stanco di soffrir” (Metastasio); (2) Epicuro (attribuito ad): “Finché ci siamo noi non c’è la morte; se c’è la morte non ci siamo noi. Perché, dunque, averne timore?”; (3) Francesco d’Assisi: “Sora morte corporale”, in fondo non così male, se la scienza medica ci ricorda che la CO2, che ottunde e consola, è l’ultima, pietosa accompagnatrice di viventi. “Morte amante”, perfino. Tutto questo, in Ederle: splendidamente. Il “Canto per Paola” è sintesi di “non detto” e analisi di “so dire”, con un incipit – cui da alcuno, insipientemente, si è voluto obiettare – che viene scandito dalla clausola affermativa “finché”, idealmente giustapposta a un ipotetico, reiterato interrogativo: “quousque tandem?” Clausola proiettata su molteplici altre: dodici “mio/mia”, quattro “nostro/nostra”, atte a riproporre, figurare e trasfigurare un legame che la morte dell’amata non può spezzare. “Bellissimo, profondissimo cielo” è una ricognizione sui destini del cosmo e della vita degli umani sul pianeta, animata dalle “voglie dei poeti” e intrisa del dolore di “rughe” scavate su volti di persone dagli “sguardi opachi”, dagli “occhi bassi” e dai ”freddi pugni intascati” che cancellano un “povero cielo celeste”. Malgrado tutto, il cielo darà ricetto a una qualche speranza. “L’ultimo piatto”, a nostro giudizio il più teso e acutamente reso componimento della raccolta. Ci ripresenta un vecchio che compare, in Ederle, già dal tempo di “Querele” (in “Vocativi e querele”, del 1981) e di “Un altro oblio” (in “Negrura”, del 2012). Simbolo vivente (nell’invenzione poetica) di dignità: “figura rara” ; nella “sua bontà”, nel suo evangelico “donarsi senza / una richiesta”, “agnello sacro, pacifico”, benché dallo “sguardo quasi nebbioso”, “brutto e imperfetto”, dal “corpo rustico” – proprio come il Gesù Cristo evocato da Camus in “Taccuini”: “San Cirillo e san Giustino per conferire all’incarnazione tutto il suo significato pensavano che egli dovesse avere una figura abietta e ripugnante. (San Cirillo: ‘il più orribile tra i figli degli uomini’). Ma lo spirito greco: ‘Se non è bello, non è dio’. Hanno vinto i greci” – e ricordiamo come anche nell’apocrifo “Atti di Giovanni” (88-89), della seconda metà del II sec. d.C., Gesù venga definito, a volte, come “alquanto calvo, ma con una barba fitta e fluente” e persino “un piccolo e brutto uomo”. Sul vecchio – è intuibile – Ederle proietta un po’ di se stesso, mostrandoci un uomo che, Diogene deluso, “si è procurato una torcia, / [e] cerca il figlio, si dispera”, concludendo con un “non so perché sono così tetro”, “confuso / in una cantina con poca luce”, in una triste “sera, prima che / la notte […] prepari l’ultimo piatto”. “L’ultima sei tu – A Nella-Tommasina De Ruvo” è la confessione di un amore che, già usurato e disapparso, si apre a nuova vita in un metaforico giardino di bossi e di fiori, una volta che dell’amata – tenera “capretta” – si sono comprese l’acume critico, la saggezza e si è riscoperta la bellezza delle sue forme. In “Yves Klein l’enorme blu” è l’omaggio di un poeta a un pittore che anelava alla purezza e all’assoluto, affidandosi a un oltremare saturo da lui inventato, ma mai prodotto dall’industria. Quel blu diviene, nelle mani del Nostro, simbolo di un “possibile” che diviene “reale” in virtù della creazione poetica, per modo che il mero stimolo percettivo si accresce, nel verso, di elementi cognitivi, emotivi e mnemonici.  Ci ha fatto dono, Arnaldo Ederle, di una maturità stilistica che, rendendosi sempre più folta di senso. non potrà che confliggere, al solito, con le astruse, più o meno automatiche, scritture che ancora intridono tanta parte delle produzione letteraria del nostro Paese. Pazienza. In lui, invece, assonanze, rime, soprattutto interne, false rime e molto altro in termini stilistico-retorici, nonché enjambement profusi a piene mani, a connotare il flusso d’un’urgenza comunicativa che si “affretta e s’adopra / di fornir l’opra” in questa feracissima, ancorché pressante, stagione della sua vita. Con appropriata dovizia e decisiva maestria.

Michele A. Nigro

Prefazione

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