Giorgio Barberi Squarotti è nato nel 1929 a Torino, dove è vissuto e dove è scomparso nel 2017. Studioso e critico, ha insegnato Letteratura Italiana all’Università di Torino. Ha pubblicato numerose opere che riguardano gli scrittori antichi e moderni della letteratura italiana, da Dante a Marino, da Petrarca ad Ariosto, da Boccaccio a D’Annunzio, da Tasso a Sbarbaro, a Montale, a Pavese e ad altri contemporanei. È stato responsabile scientifico del Grande Dizionario della Lingua Italiana. Di poesia, ha pubblicato: La voce roca (1960), La declamazione onesta (1965) Finzione e dolore (1976), Notizie dalla vita (1977), Il marinaio del Mar Nero e altre poesie (1980) Dalla bocca della balena (1986), In un altro regno (1990), La scena del mondo (1994), Dal fondo del tempio (1999), Le vane nevi (2002), Le Langhe e i sogni (2003), Il gioco e il verbo (2005), La storia vera (2006), I doni e la speranza (2007), Gli affanni, gli agi e la speranza (2008), Le foglie di Sibilla (2008), Lo scriba delle stagioni, (2008), Il giullare di Nôtre-Dame des Neiges (2010), L’azzurro della speranza (2012), Le finte allegorie (2016).

https://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_B%C3%A0rberi_Squarotti

http://www.treccani.it/enciclopedia/giorgio-barberi-squarotti/

 

POESIE

La voce in corso Francia
Nel mattino d’ottobre, silenzioso,
in mezzo ai platani frondosi ancora
di corso Francia sorse d’improvviso
e serpeggiò lunghissima e leggera
di foglia in foglia una voce: interrotta
ora e flebile, ora il gemito dolce
d’amore, ora disfrenato e fervido
il racconto del viaggio sul fiume
torbido e ondoso, fra cannucce e salici
e asfodeli funebri e luminosi
e il rapido strisciare di una serpe
e fragoroso il sorgere delle ali
di uno smergo furioso, e, infine, l’antro
al margine delle acque, di dorato
tufo, caldo, dove paziente aspetta
l’apparizione del suo dio segreto
e distratto, che la deflorò rapido
nell’aprile di gigli e rose un anno
prima o un’altra primavera ancora
più antica: e si perde e poi ritorna
più forte ed insistente, infine solo
sillabe rotte, mentre irrompe il traffico
d’auto e ragazzi e il vento che violento
addensa nubi dolorose e acceca
ogni parola.

Serse, il ciclista
Serse, che fece oltraggio all’Ellesponto
col ponte lungo centomila piedi
e centomila cavalieri e fanti
lo percorsero, facendosi beffe
dei flutti furibondi e del tridente
di Poseidon, scaraventato invano
contro il robusto legno e ferro della
strada eterna, inventata da geometri
ed architetti in sfida a dèi e al buon senso
di matematici e di timonieri
di navi con le vele come ali
e ragazze festose per polene?
Chiede Elena, piegandosi a guardare
il nome sulla lapide, le lettere
consunte, quasi mute, forse pensa

al suo, legato a quello stesso mare

e a uguali guerre. Osservo anch’io, a fatica
riconosco il fratello dell’eroe,
quello minore, sgraziato, un po’ storto,
triste, col capo chino sempre, quello
che pedalava sempre in gruppo, mai
uno scatto, e neppure mai il sogno

di una fuga. Dico alla dottoranda:

– Un altro nome Serse, esagerato,
anzi grottesco, chi sa come giunto
a essere pronunciato in un paese
banale nella piana che dechina
da Marcabò al mare. Ma una volta
fu primo, era già in vista del traguardo,
ebbro di applausi della folla e grida
del suo nome, e Zeus proprio a quel momento
fece precipitare fino al fondo
la sua bilancia, di lui, che aveva già
trentatré anni; e una rotaia, allora
la ruota che si storse e il sasso. –
Non ascolta più, distratta dal vento
fatto oscuro e dal tuono che veloce
si approssima. – Che sciocchezza i nomi
di lontanissime vicende, strane,
impossibili. Andiamo via, lasciamo
che i morti seppelliscano i morti,
i loro e gli altri. Mi farò la doccia,
cospargerò la pelle di profumi
d’Arabia, per la cena metterò
un abito leggero, molto breve,
berrò con allegria il vino rosso,
nel calice inzuppando la focaccia
dorata; a notte, un po’ ebbra ma prudente,
racconterò i miei viaggi sulla Luna
e tutta la mia vita del futuro
che ho scritto nella tesi, finta e vera,

l’enorme rumore, grida, canti,
confusioni di danze, infine il folle

che, balbettando, inviterà ad andare.

Remoto
Meditabonda e nervosa, stringendo
le labbra scarlatte e scuotendo le chiome
luminose, la donna, in piedi, nella
lieve aurora aspettava: nero l’abito
sontuoso, ampio, ma nude le mammelle
piccole e tonde, che leggere un poco
si agitavano nell’ansia del cuore.
Più in là c’era la pianura e, forse,
la cima di una torre, e, solitario,
un colle di tenebrosi cipressi,
e l’ondeggiare altrove di un canale
che porta al più remoto lago. Quella
è la sua meta? Laggiù è la quiete,
dove deporrà sopra il prato tenero
il vestito, come un’ombra perduta
per sempre, ci sarà soltanto luce
e il suo candido corpo si potrà
confondere, disteso, con le enormi
rose ugualmente chiare e, trasparente,
una nuvola breve che sta, immobile,
sull’orlo della sua vita.

Tre soli anni
Tre soli anni, e già più non ricompongo i
tratti del tuo volto che per quaranta e più anni mi ha vegliato,
e allora che posso dire ormai di te, di me, di una vita d’amore e
pena per un’altra di parole e vento e gesti
venuti sempre troppo tardi, all’orlo di
una stanchezza mortale o anche un poco oltre, dov’è
lo scherno dell’inutile e del vano, e non c’è più risposta, da nessuno?
Se ti riporta il sogno, ma sei tu se ora
il tuo passo è così lieve e rapido, i capelli neri, il
volto senza rughe, la voce non interrotta dall’affanno?
Mi dicono che ora sei così, nell’altro spazio
dove nulla si perde, e nella noia dei vizi ripetuti, delle
viltà moltiplicate nello specchio di ogni anima,
nei rancori, nelle ire, nelle quotidiane crudeltà
così uguali per tutti che neppure Dio distingue vittime e
colpevoli, il bene che solo è tuo risplende. Io non
vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro di sé, e
preferisce le voci d’altri, i libri d’altri, i cataloghi, gli archivi;
ma so forse che questi colpi da basso, fitti contro la
porta, i passi più numerosi nella strada delle
scarpe chiodate, e i lamenti e le grida e i colpi di
frusta e anche questa primavera stenta e le tempeste
che abbattono alberi e uccelli e l’acque torbide,
sono perché il mondo l’ha perduta, e
il giudizio di Giona può ormai compiersi.

La città del nord
La luce bianca della città del Nord,
così ragionevole nella geometria
delle strade che tutte conducono alla grande
piazza aperta sul cielo troppo azzurro
da cui discese un giorno nello specchio
della neve, così limpido che
ancora vi affioravano le ombre
delle donne del tempo passato,
non del tutto cancellate dalla nuova
nevicata, venuta giù tutta la notte,
la luce quietamente candida, che dura
intatta, vuota, oltre il tempo previsto,
e non lascia ferite neppure negli angoli remoti,
non fantasmi dietro le finestre,
non orme che rimangono segnate
anche solo per un attimo nel nulla
così limpido che più non è la mente stessa
di Dio: mai in questa luce può accadere
qualcosa, mai giungere qualcuno
o aggiungersi anche soltanto una parola
alle parole qui mai pronunciate:
la luce riempie tutta questa città del cielo,
come sospesa sopra fumi e colli
e lenti fiumi grigi dove vanamente
nel ghiaccio agitano le ali i cigni prigionieri,
questa città di Dio, in cui come neve
cadono le anime sciogliendosi
sulle pietre chiare e subito non c’è
più nessuno.

I vecchi
E marciranno i pali delle viti
sotto il peso dei soli e delle piogge,
fioriranno le ortiche in mezzo ai peschi
trafitti dagli aghi delle vespe,
senza filo di verde perirà
il grano dentro il tufo, e l’erba medica
si perderà nel ferro delle spine,
quando anche tu abbia abbandonato
la casa dei tuoi vecchi e l’ala
delle campane sopra le colline,
per seguire i tuoi sette fratelli
in fabbrica, a Torino,
e qui io sia rimasta con tuo padre, soli,
con i miei sogni di Croce contro i fulmini
e le aride estati e i geli e le alluvioni,
e le sue inutili bestemmie.

Le acque d’abisso
Perfino da queste acque dove aggallano
bucce d’anguria e merda e qualche testa
di pesce, stupefatta; dove fitta
più è la folla, nel poco moto d’onde:
grandi volti arrossati, coi capelli
fulvi a raggiera, intorno, mascheroni
ridenti dalla cui bocca tumida
escono getti di fiamme e ululati
allegri, barbe candide intorno a occhi
di fuoco per il sale e il sole, sguardi
sfrontati di ragazze, mentre si accarezzano
le piccole mammelle ancora bianche,
come offrendole al vento lieve e all’avida
mano del vecchio coperto d’alghe e canne:
dei e dee, insomma, adatti a questi tempi,
e puoi anche udirne il balbettìo
sconnesso, il riso stolto, il rantolo
della follia, qualche stridulo grido,
mentre con gesti sconci benedicono
fogne e sabbia, deformi culi nudi,
qualche stupida nuvola che oscilla
in mezzo al cielo, la vecchia vestita di nero
che si piega davanti a loro, con le mani giunte,
in ginocchio, tremando, perché li ha riconosciuti,
i quattro bancari che giocano a carte
intorno a un tavolino zoppo, con i mucchi
del denaro davanti.

Via Duchessa Jolanda
Nell’astratto mattino, fuori d’ogni
stagione e un’aria ferma, di cristallo,
sotto il sole deserto, la ragazza
ah forse non più giovane, ma intatta,
la maglia azzurra, corta, i fianchi lucidi,
nudi e abbronzati ancora, contemplava
incantata le guglie, gli archi, i vasi
di cera con i fiori rossi, le ombre
che si affacciavano a finestre tremule,
i volti lussuriosi o forse solo
già morti. Ferma, resta senza attesa
o ammirazione, eppure nell’assenza
così perfetta e viva che non più è
la pura forma davanti alla porta
vanamente aperta perché entri il tempo.

Cinghiale
L’unica caccia, ape o vespa che siano
intorno al volto rosato e le mani
invano scosse per salvare il corpo
incautamente sollevato a cogliere
albicocche e susine amorose e ilari
fino ai rami più eccelsi e gelosi,
e più rischioso ancora il cinghiale aspro
che d’improvviso è sorto dal boschetto
carnale e spirituale dell’autunno,
e minaccia la donna contemplante,
sdraiata sul cuscino, dopo che, un poco
incerta, ha interrotto la lettura
del libretto d’amore, cerca allora
di fuggire, si guarda intorno, trepida,
e chi sa se il verro infine l’abbranca
e stringe, ma badando di non farle
nessun male nel possederla, e infine
s’allontana nell’alto dei vigneti
avendo udito il furore dei cani,
lei si scuote, liscia e aggiusta i capelli,
abbassa un poco la maglietta lieve,
riprende a leggere, furtivamente
gli occhi a tratti volgendo se mai dopo
arrivasse l’amante ormai inutile,
saziata di ben altro come il lungo miele
dell’ape disinteressata adesso
di guancia e pube.

Resurrezione
L’albicocco rinato d’improvviso
e le foglie già lucide e scurite
come per piena luce e intatti i petali;
esitando si arrampica sul ramo
scabro il gattino nero ch’è scomparso
in autunno di tanti anni fa, il pino
che sembrò fulminato da una nuvola
buia di grandine e di falsi folgori;
bussa al cancello ansiosa la vicina
ancora un po’ tremante, recando ireos
impalliditi e gigli, e il contadino
con le ultime mele d’altri inverni
rimaste nella paglia sotto i travi
dove c’è ancora il segno della corda;
c’è un soffio di vento mite quando esce
dalla porta mia madre, rivolto il trepido
timore verso le altre voci ancora
un po’ incerte; il sole s’alza da estremi
sogni di nuvole o nebbie, nel giorno
che proclama trionfante l’anelito
di nuova vita, dopo i tempi oscuri
e confusi di lunghissime piogge
e silenzio.

Gramigna
Nell’orto, il vecchio professore strappa
la gramigna, le radici delle viti
selvatiche, ossa e crani un po’ sbrecciati,
poi il turgore ardente per coltivare
delle fragole, fragilità
candida di un ciliegio, la speranza
delle future mele rosse, l’oro
dei fiori, dell’alloro, il melograno
e tutte le altre immagini del tempo
ch’egli crede con la primavera
trionfalmente si rinnovi. Oh fede
vana della ragione più che voce
vuota nell’ombra di un cespuglio debole,
neppure appare un nome che lì voglia
mostrarsi un poco per fargli capire
che il tempo non esiste, ma soltanto
l’attimo eterno del bel corpo nudo.

Il cane bianco
Nel pomeriggio di furiosa pioggia
arrivò un cane bianco a grandi chiazze
castane, e si fermò davanti al portico
della casa di Valter: riflessivo
saggiamente e un poco timoroso,
quando intorno gli uscirono i bambini,
facendo festa alla sua presenza ironica,
allegri gli occhi nell’attesa delle
carezze e del biscotto un po’ smangiato.
Sempre più rapido e oscuro era il vento,
i fulmini variabili, faceva
freddo nel cuore dell’estate:
si scosse il pelo bagnato, tremando,
scomparsa era la casa o cancellata
dalle nuvole basse, chi sa dove
fuggiti erano i bambini, stracciate
le foglie dell’alloro; resisteva
soltanto un ultimo ireos rosso,
e il cane lo fissava sconfortato
nel periglioso annuncio di rovina
e dolore, a voce alta allora lamentando
la confusa malignità del mondo
così creato per uomini e cani.

Pura alba
La pura alba così limpida e tenera,
mentre per una volta anche a dicembre
fuggono verso occidente le nubi
oscure, in parte ancora colme, in parte
stracciate e lievi ormai, e la collina
buia rivela a poco a poco i dolci
fastigi d’alberi e di ville pallide:
contempla, prima che mescoli il vento
la folla, gli autobus, le vie affannate,
le acque del fiume maculato, i primi
eventi del dolore, le colombe
maligne, l’avvenire che c’è stato
per me una volta.

Natale
Un qualsiasi giorno (era forse
di primo autunno o quando già moriva
l’inverno), nella luce impreveduta
del mattino irruppero i pastori
con una folla infinita di pecore
festose e innanzi i cani taciturni
e trionfali, infine a comandarli
fervido e agitato nell’accenno
di danze e crotali un bambino
luminoso e una ragazza ridente,
allegra ma un poco preoccupata
per la stagione incongrua e per l’età
ansiosamente incerta, se giocare
ancora o recitare la sua parte
di madre amorevole e disattenta.
Passavano automobili, altere
schiere di avari e prodighi, le nubi
d’ombra e lampade accese, indifferenti
baci, urti d’ira, così come è il vero
mondo da sempre, povero di esistere,
incapace di udire la parola,
cieco fra i fiori solari, il tremare
delle acque illimpidite, la purezza
dei corpi intatti che la luce accendono,
e come può vedere quel che pure
è insensato e necessario: un gregge
candido, qualche persona con gli abiti
disusati, un’immagine che adesso
non è già più d’infanzia e verginale
piacere, tutto si dissolve come
per lo spettacolo del pomeriggio
televisivo, ed è la verità
invece, oh la pazienza infinita
di Dio, che allora riprende a giocare
con la madre e il bambino e coi pastori
e i cani rabboniti, e sospirando
tutto si perdona ancora.

Guerra e pace
L’aspra rissa dei passeri, la furia
dei cani che si azzannano, i bambini
che si picchiano nel giardino limpido
e sereno, dove non ci sono nubi
né venti né turbini, e canti, invece,
di usignoli e foglie e fonti eterni,
alla fine si acquietano, se giunge
il pastore paziente e li ammonisce
prima di imporre un poco di silenzio?
Pacificati, si allontana, e allora
il furore riprende nel trascorrere
del breve tempo: la guerra non ha
davvero fine, e dove è mai la pace
nella storia atroce e stolta, o forse
soltanto nella rixa metaforica
dell’amore lunare, che si fa
il tranquillato sonno per il sogno
che mai non spezzi il canto dell’allodola.