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LA BELLEZZA SECONDO PAOLA MANCINELLI

LA BELLEZZA SECONDO PAOLA MANCINELLI

L’estetica come ragione profetica e l’arte come etica civile. Mi sento di condensare in questa sintesi estrema il percorso che Paola Mancinelli allestisce nel suo transito attraverso le Grammatiche della Bellezza (Aracne Editirice). La sintesi può apparire estrema, nella sua ruvida concisione: di certo forzosamente riduttiva della complessità e della ricchezza di sfumature che modellano dialetticamente e sapientemente il percorso di questo bel saggio. (Forse è anche un po’ estremistica, se si considerano le associazioni terminologiche e concettuali messe in campo dal nostro enunciato, al limite dell’ossimoro). L’immagine dell’estetica come ragione, di fatto, non è la più scontata, a questi chiari di luna: anche al netto dell’odierna disseminazione di fervore per la sua ambizione conoscitiva. L’arte come etica, poi, ridesta la memoria di antiche (e moderne) battaglie filosofiche (da Platone a Nietzsche, senza trascurare la disputa giocata in punta di fioretto e conclusa con un nulla di fatto, di Schiller e Kant), che di certo non hanno ancora conseguito uno stato di pace duratura. Eppure, con tutto ciò, il lettore di questo libro si troverà coinvolto in un progetto di riabilitazione della ragione estetica come ethos intellettuale di una conoscenza della realtà che vuole seriamente esplorarla “nella luce della redenzione”. Ebbene, non è precisamente questo, la profezia? Nell’immediato, l’evocazione di una “conoscenza come redenzione”, enunciata nel sottotitolo, richiama l’acuminato aforisma di Adorno: “L’unica filosofia capace di giustificarsi di fronte alla disperazione sarebbe quella di osservare tutte le cose nel modo in cui esse si presentano dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce se non quella che al mondo deriva dalla redenzione: tutto il resto si limita a modificare continuamente le cose e rimane un brano della tecnica”. Il debito è palese: ed è apertamente dichiarato sin dall’apertura del discorso. L’incrocio della Dialettica negativa con la Teoria estetica, lascia intravvedere a Paola Mancinelli la necessità – più ancora che la possibilità – di un nuovo e imprescindibile ruolo dell’arte per l’ethos civile di una società e di una cultura che, della ragione anestetica e anaffettiva del razionalismo storicista e progressivo, hanno ereditato le macerie, più che le magnifiche sorti e progressive. Dunque, osservare le cose dal punto di vista della redenzione è precisamente una necessità della condizione storica: se almeno si vuole ancora sfidare la fatalità della regressione che l’attraversa, e attrae il nostro sguardo attonito con l’incantamento del suo horror vacui. L’Angelo di Klee, descritto da Benjamin, resiste all’ostruzione del vento impetuoso che lo respinge dal futuro: ma vi può rimanere proteso, senza cedere, soltanto se osserva le macerie del passato che ha di fronte agli occhi come il suo unico presente. Il “battesimo dei nostri frammenti” (Luzi), promessa di rinascita senza garanzia alcuna contro la morte, è affidato alla speranza di trasmutazione della forma capace di cogliere, in tutte le cose – e in noi stessi – un non omnis moriar Ernst Bloch): una grazia, infine, che nella babelica dispersione dell’origine tragga gli umani a confidare nella giustizia di una nuova comunità di destino in cui abitare, come ethos, oikia, polis. Dove potrà / dovrà apparire, in primo luogo, questa charis? E dove, se non nell’arte: ossia nella sua libertà di smarcarsi dagli schemi precostituiti della rappresentazione imposta dalla deriva sociale dell’oggettivazione (e dell’alienazione che vi si incista parassitariamente)? L’arte diventa sociale proprio per la singolare autonomia del suo modo di rispecchiare smascherandola la civiltà del suo tempo (Adorno). Il suo modo di riaprire le condizioni date al novum di un’etica civile capace di restituirle al nomos di un’umana rinascita è insostituibile. Perché insostituibile? Perché la sensibilità per la giustizia e l’immaginazione del senso di tutte le cose sono il modo originario in cui abita l’uomo. Poeticamente, infatti, secondo il detto di Hölderlin reso celebre da Heidegger, abita l’uomo: l’uomo preistorico di tutte le generazioni, come il bambino di ogni generazione. L’arte è la “messa in opera” di questa verità affettiva ed estetica dell’ethos umano radicale. Paola Mancinelli organizza su questo crinale la possibilità di attirare nel nostro tempo una nuova stagione del “Rinascimento” del senso. L’utopia, che coltiva il sogno e la visione di un mundus imaginalis che rende visibile, nella bellezza, il disincanto dell’alienazione e la luce della redenzione, punta sulla straordinaria potenza che l’arte è in grado di sviluppare, nel momento in cui si lascia attrarre dalla passione per offrire dimora estetica alla messa in opera della verità (ossia, alla giustizia affettiva del dover essere delle cose). Paola Mancinelli si confronta lucidamente con l’intrinseca difficoltà di restituire evidenza e persuasione a questo orizzonte: oggi messo in speciale difficoltà da una qualche non dissimulata resistenza del filosofo come dell’artista. La costellazione problematica che deve essere messi a fuoco, nell’intento di portare ordine – e quindi restituire intelligenza ed efficacia – alle grammatiche della bellezza, si lascia inquadrare sull’asse di un duplice livello della domanda. Il primo livello è quello (già individuato da Kant, nel celebre paragrafo 59 della Critica del Giudizio), che concerne l’analogia (e l’omologia) del logos estetico della bellezza con il nomos etico della giustizia. La domanda è questa: l’analogia della necessità etica dell’estetica, ossia il principio della sua attitudine a costituirsi come testimonianza del valore e paradigma dell’ethos condivisibile, sta nell’evidenza della forma bella o nel postulato della ragione finalistica? L’alternativa, su questo piano, prospetta la conciliazione dal lato di un’etica della felicità e, rispettivamente, del senso. La mediazione prospettata da Mancinelli fa ricorso all’integrazione della dimensione estetica con il profilo della giustezza / giustizia del senso. La domanda che unisce l’etico e l’estetico, in altri termini, è quella che potrebbe essere formulata in questi termini: come ha da essere, l’essere, per essere come deve? La modalità della forma bella e del giusto senso si lascia istituire unitariamente sotto il segno del dover essere non utilitaristico-funzionale, bensì etico-estetico. L’interrogazione lascia però trasparire anche un’altra tensione, che ripropone la differenza sul piano del rapporto soggetto-oggetto, riproponendo il tema della “eroizzazione” dell’artista: tema del genio romantico, sregolato e ribelle, transitato nella figura messianica dell’artista come profeta della critica sociale. Quale bellezza salva? Quella che si annuncia nella percezione della forma in cui splende una “divina proporzione”, oppure quella che promette la liberazione dalla scarsità del “bene godibile”? In questa seconda alternativa, la questione della trascendenza della bellezza che annuncia la redenzione si pone insieme con il tema del giudizio condiviso: condizione della sua assunzione come tema e argomento di una comunità dell’apprezzare e del sentire nuovamente possibile. La sfida della bellezza, qui, all’imputazione di essere inutilmente seduttiva, perché ultimamente incapace di verità e di inter-soggettività, è posta nel suo cimento decisivo. Questo saggio non si sottrae alla sfida, indicando la strada risolutiva della fenomenologia (senza la quale ogni garanzia puramente metafisica finisce per portare fuori dalla condivisione del gesto critico-sociale dell’estetica), e quella dell’antropologia (che riconosce nell’arte la messa in opera di un’aura dell’esperienza umana, che anticipa affettivamente la percezione stessa). La grammatica della bellezza deve dunque transitare attraverso la sintassi della testimonianza della verità e della presa in carico dell’inter-soggettività. Per meno, ossia dalla pura “grammatica della bellezza” non prende vita alcuna narrazione del senso, né alcuna conoscenza della redenzione. La “messa in opera” di quella grammatica, in parole e opere, è l’unico modo che abbiamo per metterla alla prova della sua promessa. Il ruolo storico e civile dell’arte dipende dall’audacia – dalla fede, si potrebbe dire – con la quale siamo disposti ad accettare la potenza dell’estetica in cui la saldatura della profezia etica e dell’immaginazione artistica istruisce, ad un tempo, le ragioni e le emozioni del senso che ci è destinato. Il libro di Paola Mancinelli lascia trasparire chiaramente, nella passione e nell’argomentazione che ne compongono inestricabilmente la tessitura, il suo personale coinvolgimento con la posta in gioco. Non ci vincola ad una theoria: libera una potenza (dynamis) che chiede di passsare all’atto (energheia) nel pensiero e nell’azione. In particolare è confermata, nel coerente approdo dell’argomentazione che ne articola tutte le implicazioni, la fecondità della transizione adorniana che ha suggerito l’originale ipotesi di lavoro. Essa declina infatti, persuasivamente e produttivamente, il tema “salvifico” della bellezza, che la vulgata filosofica (e teologica) preleva sin troppo precipitosamente dall’ambigua formulazione di Dostoevskij. La risurrezione del significato si raccomanda anzitutto attraverso la redenzione del significante: in parole e opere, senza omissioni. La mossa di Paola Mancinelli rimette in circolazione il tema nell’ambito di una filosofia politica della grazia, che ci è indispensabile quanto lo è, in prospettiva, una teologia filosofica della giustizia. Queste pagine dimostrano persuasivamente, in ogni modo, che la filosofia non ha più scuse per la rimozione della sensibilità estetica e della pratica artistica dalle strutture cognitive e performative della ragione civile. L’urgenza di questa nuova alleanza è intrinseca alle ragioni della nostra speranza.

Pierangelo Sequeri

Prefazione

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