Renato Minore è nato a Chieti nel 1944 e risiede a Roma. Le sue raccolte di poesia: I nuovi giorni (Rebellato, 1965), Il convento francescano, in “Quinta Generazione” (Forum, 1970), Non ne so più di prima (Edizioni del Leone, 1994), La piuma e la biglia, in “Almanacco dello specchio” (Mondadori, 1989), Le bugie dei poeti (Scheiwiller, 1993), Nella notte impenetrabile (Passigli, 2002), I profitti del cuore (Scheiwiller 2006), Stare a vedere quel che accade, in “Almanacco dello specchio” (Mondadori, 2012), O caro pensiero (Aragno, 2019, prefazione di Raffele Manica). Ha anche pubblicato i romanzi: Leopardi, l’infanzia, la città, gli amori (Bompiani, 1987, 1999), Rimbaud (Mondadori, 1991), Il dominio del cuore (Mondadori 1996); e i racconti e le fiabe: I ritorni (Guida, 1991), Lo specchio degli inganni (Lisciani Giunti, 1992) , Tontolo (Salani, 2011). Tra i suoi libri di saggistica: Giovanni Boine (La nova Italia, 1975), Intellettuali, mass media e società (Bulzoni, 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco, 1986), Dopo Montale (Zerinthia, 1992), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1993), I moralisti del 900 (Poligrafico dello Stato, 1997), L’italiano degli altri (Newton Compton, 2011), La promessa della notte (Donzelli, 2012). Ha vinto il Campiello, l’Estense, il Flaiano.

https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Minore

www.facebook.com/renato.minore

 

POESIE

da I PROFITTI DEL CUORE

STARE A VEDERE QUEL CHE ACCADE
Come lucciole su un cielo azzurro
i grumi rosso brillante
volano sullo sfondo nero
con tenui verdi incordature.

Come lucciole su un cielo azzurro

A caso danzano i pixel a caso
schizzano avanti e indietro, sopra e sotto
si raggrumano in piccole, mortali fessure
volano a saetta sul radiante percorso.

A caso danzano i pixel a caso

Dalle crepe di quel rosso puntiforme
piove l’enigma di un anello
tanto irregolare quanto simmetrico
E’ sullo schermo il cerchio verde.

Dalle crepe di quel rosso puntiforme

Guarda come cresce l’anello
quando lo sferza la gragnuola
dei pixel rossi che vanno vengono
mentre si gonfia la verde fascia.

Guarda come cresce l’anello

Sembra interminabile l’attimo
se finalmente esplode
il terzo anello ancora irregolare
che cova altri tre suoi gemelli

Come lucciole su un cielo azzurro
A caso danzano i pixel a caso
Dalle crepe di quel rosso puntiforme
Guarda come cresce l’anello

Sembra interminabile l’attimo,
e gli anelli ansimano, pulsano,
sono blob digitali senza geometria
allungati o ristretti – come li vedi sono.

E gli anelli ansimano, pulsano

Ed ecco due blob nel fatale abbraccio
prima si fiutano poi si fondono,
incredibile si riscrive la legge
della loro ritrovata unità.

Prima si fiutano poi si fondono

Il tempo tentenna e abbaglia
mentre i sette grandi blob occupano
la scena, non fanno prigionieri,
poveri pixel blanduli e marginali
Mentre i sette grandi blob occupano

Gratta gratta sotto la pelle
trovi l’oggetto sapientissimo
che fu lesto a sottrarsi
al suo destino di legno e di bronzo.

Trovi l’oggetto sapientissimo

Bisogna dar vita al sistema
per poter capire come funziona
Ma come fa un seme a sapere
come costruire un fiore?

E gli anelli ansimano, pulsano
Prima si fiutano poi si fondono
Mentre i sette grandi blob occupano
Trovi l’oggetto sapientissimo

Per poter capire come funziona
sotto il velo della città antica
l’ordine straordinario che mantiene
le strade sicure, libero il borgo.

L’ordine straordinario che mantiene

Non è una danza in cui tutti compiono
lo stesso movimento nelle stesso istante
è la finzione più esaltante che conserva
libera l’armonia dei corpi comunicanti.

E la funzione più esaltante che conserva

Le città vitali hanno innata capacità
di conoscere e comunicare
inventare e provvedere quanto occorre
per rovesciare ogni difficoltà

Inventare e provvedere quanto occorre

Anche le città (impara) imparano
radunano lo sciame delle menti
conservano il calore della memoria
sui marciapiedi tiranni della specie.

Conservano il calore della memoria

Non sappiamo dove ci porta
quel movimento lieve che ci azzera,
ma sappiamo che in quel movimento
c’è la cieca sapienza dello sciame.

L’ordine straordinario che mantiene
E la funzione più esaltante che conserva
Inventare e provvedere quanto occorre
Conservano il calore della memoria

C’è la cieca sapienza dello sciame
C’è la forza contratta del dono
C’è l’ineguagliata grazia del moto
C’è l’opportuno ritorno della specie

Stare a vedere quel che accade
Stare a sentire quel che fugge
Stare a sgocciolare per l’eternità
Stare accantucciati nella punta dello spillo

Se la potenza del dominio
è nell’assenza di leggi e previsioni
se non interpretiamo ciò che sogniamo
ma sogniamo ciò che abbiamo interpretato,

è propizio quel momento benedetto
dal caso della sua perfetta organizzazione
strepitano le idee, abbaiano ancor più forte,
e danno quel poco che ancora gli si chiede

C’è l’opportuno ritorno della specie
Stare accantucciati nella punta dello spillo
Ma sogniamo ciò che abbiamo interpretato
E danno quel poco che ancora gli si chiede.

POTERE REGALE
Liquido torbido inarrestabile
lo spirito mortale dello spread
chiede fondi sicuri, non proficui
per  la casalinga di Voghera
l’artigiano di Sao Paulo
il pensionato di Seattle

ma stiamo genuflessi
è un dio che parla
dal corpo incorruttibile
potere regale mai piegato
non s’ammala
nel maelström dei mercati
non invecchia.

NATALE DI LUCE E DI TENEBRA
Non esistere
sarà forse impossibile.
Nel multiuniverso-patchwork,
a pochi millimetri
dal nostro presepe,
un altro lo replica
con lane di pastori,
scintillio di stagnola,
verde muschiato,
neniette a ricarica.
La luce batte e rimbalza
come in gabbia.
Mai lo vedremo,
mai sapremo
se ancora nella santa notte
le streghe alzino la selce
per fare malie
o se chi nasce vince

da L’ALMANACCO DELLO SPECCHIO

VENTO E FILO D’AMORE
1
E’ come se ora
io e te fossimo costretti a muoverci
sulla superficie di un filo elettrico,
mi accorgerei
ti accorgeresti
della dimensione
del filo
non di quella attorno
al filo

Il custode della tua anima
ora ti chiede
se è possibile
avere un’anima
senza custodia

2
Non ti manchi l’incoerenza del cuore:
non conosce casi generali,
solo il particolare,
grande perché si muove
nella sfera del piccolo.

Non credere a ciò che si racconta
e si sogna sul mare.
Terribile è la sua potenza,
più vicina al caos
che alla nostalgia
di bianchi delfini e nuvole
crucciate come carte
bruciate sugli orli.

Ma l’unico rimprovero
che non posso accettare
è proprio quello
che ho meritato.

O CARO PENSIERO
Da quella fessurina
pare dipenda che io
sia proprio io e non l’altro io
che vorrei tanto esser io.

Se resta traccia sulla spiaggia

Sfuma il pensiero
rappreso intorno alle parole,
in fine la parola raggrinzita
canzona il giro del pensiero.

Che strana la lena del ricordo.

S’arrotola e scivola
quel mio pensiero, ma guai.
a me se credo anch’io
di scivolare arrotolato.

Avevo paura che nel sogno

Ma così scivoloso e compresso
il pensiero non inganna,
proprio come un rullo
non copre ogni suo buco.

Entravo in un altro giro

Non c’è alcun nesso
tra le scaglie di quel pensiero
che s’insegue e io che arranco
nell’inseguirlo.

Temevo quel mio pensiero

O caro pensiero
d’una notte senza luna,
pure la luna è un pensiero
che sfugge appena è luce

Da quella fessurina

Ora è davvero tardi
per sapere se il pensiero
che mi guida è proprio
quel pensiero che speravo

Sfuma il pensiero

Temevo quel mio pensiero
che saliva
quando ero più sicuro
d’essere senza pensiero.

Scivola e s’arrotola

Entravo in un altro giro
e non volevo perdere
per il gioco di una rima
l’assillo della vita sfiorita

Ma così scivoloso e compresso

Avevo paura che nel sogno
fossi prigioniera,
alla fine magari
ritornassi in un sogno.

Non c’è alcun nesso

Che strana la lena del ricordo.
Tutta quella cenere
sembrava così vicina
e incandescente.

Ora è davvero tardi

Se resta traccia sulla spiaggia
dei segni incisi,
costruirò una fortezza
a prova d’erosione.

O caro pensiero

Ora capisco
che il gioco non è la corda
che tendi ma la scatola
che richiudi.

da NELLA NOTTE IMPENETRABILE

La piuma e la biglia
1)
C’erano quattro biglie colorate
pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.
La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.

2)
Rossa la prima e potevi
Aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichio
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce ed ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.

3)
Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco o nero
come le biglie che non partivano.

4)
Dall’imbuto di quel vuoto
scese una piuma leggera
vero soffio di zefiro,
e scese in una linea
immaginaria avvitandosi
su sé stessa per i piccoli
movimenti che le venivano
dal suo essere così incorporea
in quel silenzio complice.

5)
Sfiorò
la biglia rossa e nel vuoto
la scossa fu elastica, dolcissima,
la biglia ruotò lentissima,
si capovolse toccando
quella verde che toccò
la bianca e la bianca corse verso la nera
e il moto ondulante si trasmise
mentre la piuma scendeva
nel fondo e forse
vi scivola ancora
tentata da altre quattro biglie
sepolte nell’imbuto
a guardarsi come
Narciso alla fonte.

Privilegi
Anche il tempo ha i suoi privilegiati
chi vive sotto il suo segno
e ne divide corrosioni e splendori.
Ma chi è vissuto – ente pensiero mondo –
prima del big bang
dove è davvero vissuto
se neppure gli era concessa
a indennizzo l’apparenza di una larva?
E se è stato tagliato fuori
Da questa colossale trasformazione
che esce dal suo transetto
e semina l’esistenza nella forma
di luce sempre più rossa
a segnare l’invalicabile distanza…

Le conchiglie
Approdò sulla spiaggia,
assetato di mistero.
C’era la promessa, o premessa,
per una equa meditazione universale
sui beni prossimi o remoti.
dell’esistenza. Ma il calco
della mano lo ridusse
a ciò che conosceva o sperava.
Era poco, fumo che svapora,
pensava alle conchiglie,
capricciose figlie del caos.
Da qualche parte
il posto non sapeva
neppure dove collocarlo,
nel buiore della mente
o nell’universo delle forme
sempre possibili e difettive –
dovevano pur esserci
le stralunate particelle:
se le osservi, stanno meravigliate
a osservarti e tutto è nello specchio
di quello sguardo che si specchia.
Spinse l’occhio all’orizzonte.
Attese. E nulla in vista,
mio provvido signor Comandante.
Il liquido si raggrumò
nel friabile tunnel
di particole del mondo.

A chi contempla il cielo in una notte stellata
E raggrumate galassie
impongono altezza e sgomento allo sguardo,
da questa sottile crosta
prodigiosa è la vita e ogni vita s’annienta
in un battere di farfalla,
l’occhio torna a scrutare
l’armonia e la perdita, il brusio e il silenzio,
il punto addensato che scivola
in ogni sua rappresentazione
dentro nuvole e pulsio di lucciola
è il nostro tempo e la nostra morte,
questa parola che s’incurva
ruota e scopre vertigine
la distanza, impossibile aggiungere sabbia
come il bambino copre sulla spiaggia la voragine
nell’arco vuoto del refrain siderale,
e succhiati dentro le teche
gli insetti si scambiano puntute
immaginarie carezze, non disperati
segnali come se stessero per annusarsi
né possono toccarsi se conoscono
la grandezza automatica del loro gesto,
solo se la pietà libera il vetro
li vedrai annusati e felici
nel tempo saltante del desiderio,
ma pietà corre e tronca il legaccio
pietà supplica e accarezza?
pietà è l’inchiodarsi, lo schiodarsi
al nudo tacere oltre l’orizzonte,
e altre volte potrai accendere l’occhio,
gonfio di senso e di conoscenza
sentire che l’allucciolio
è ormai iridescente soffio e bufera, ancora trascina
dalla minima quiete del suo niente
e ancora parla, può rischiararti
il calore, la forza di esistere,
come crebbe quel primo pollone dentro la roccia
e come poi spezzò la lastra
stampato ancora in una forma elementare
che tutto il moto stellare della sera
brucia nella pupilla slargata e sorpresa

Piccolo trattato sull’angelo
Un lago ghiacciato di parole
e scivolano
a inseguire la striscia
che incide la crosta,
solchi dove le biglie sonanti
lasciano echi gentili, soffi,
fantasie di cieli bruciati
dalla necessità di essere cortesi,
coprirci con il Witz
e sottrarci al mulinello
stretto sotto la morsa
e potrebbe essere l’armatura
d’un guerriero d’altri tempi
con l’inchino paziente,
l’ansia leggera leggera
a seguire il sole
nel suo zenith.
Trotterellava l’elfo
come un acrobata sopra il filo,
l’hai seguito nell’intrigo
del bosco e hai riso. Hai riso
tremando mentre la sera scoloriva
quel biancore di acqua tritata.

2
Se la parola scivola
nella sua iridescenza,
s’annida quel maligno
inizio, che fa il mondo
piallato e vuoto
come una gomma
sbucciata dal vento
siderale della fine,
come un bicchiere
dove l’acqua galleggia
senza gravità
nel rinato equilibrio,
come l’onesto cercarti
che oscura la teologica
proprietà che hanno i corpi
ad essere oltre ciò che sono,
a chiamare senza che il grido
prenda voce, a essere stampo
senza forme, anche se il mondo
senza rinnegarla
spariglia la sua forma,
anche se l’amore si ritrae
come il pulcino bagnato
in cerca del modello,
e nell’angolo recalcitra,
anche se travestito
non riesce a celarsi,
non può fingere se non c’è.
E che la grazia sia cedevole
che si salga fin dove
è ancora pensabile,
e se c’è una scudisciata
(turbine o altro?)
che saetta tra le foglie e rami
che Miranda si dissolva
o ascenda tra i calchi
ancora possibili,
possibile il vento
possibile il mare
possibile il monte
dove tutto si placa,
possibile che un vetro
appena carezzato
racchiuda il gesto, il soffio
l’aguzza figura
che solleva l’anima
al suo sito naturale
e in festa improvvisata
si racconti, si racconti
la favola dei gemelli
alfine armoniosi
e la favola della lastra
in bilico nel flusso
del meriggio appena velato
di scintille e presagi.

da NON NE SO PIÙ DI PRIMA

1)
Non temerli i ritorni!
Ti amavo, mi amavi,
ma non ci amammo.
Ora io t’amo
un po’ di meno,
anche tu m’ami
un po’ di meno.
Per questo possiamo
amarci, finalmente!

2)
Ti conosco antica come un male:
l’antico male del mondo
per cui – lo dicevo piano sillabando –
sei vissuta senza conoscermi
per almeno un quarto di millennio

3)
Non ne so più di prima.

Balaiardo rincorre
la fata Oliva,
esce Berlicche,
vola come il vento.
Mentre si dilegua
il suo vice,
Azarel dice:
“Percorro mille
miglia all’ora”.

Ma Oliva si fa ombra,
si fa neve, dov’è mai?
L’ardore monta
e poi rimonta.
Grida Balaiardo,
si sente irriso
da quel viso
che sfuma in creta;
che sia paradigma
o archetipo
dell’antico sorriso?

Ma se l’amore non è prolungamento
e neppure regressione,
ecco il momento è propizio:
cresci e monta, sgomitola passione.

Ma non ne so più di prima.

Stella del mattino
Ed io
ora proprio mi sento addosso quello che mi rende
improponibile
ad un’altra qualsiasi ipotesi di me
che non sia questa sfilacciata crepuscolare
con un boccale d’ansia leggerina leggerina
e uno stipide che m’addolora, e tu
che ti affusoli e gridi con tanta bella forza
che c’è, insomma, cosa e cosa,
luna e luna, ma nessuna cosa – ne convengo –
è più straordinaria d’essere qui a usare voce e seme,
a essere amabili tranelli della lingua
in cui sostare, e poi al telefono
usi con semantica scansione l’alone sparso
della nostra umbratile voglia di essere
e di toccarci, vincendo la resistenza di urlarci,
ma in viso
che si potrebbe sostare altrove,
inseguire una larvata disposizione a saltare i fossi:
non qui, non qui
dove Alessandro ci fa sapere senza inchino
d’essere venuto correttamente al mondo in un giorno,
il suo giorno del signore, quando l’apocalisse
lasciava il passo ad un più mite ferragosto,
e c’era
tanto gusto a mettere il sandalo
e sciamare, sciamare, sciamare…

da LE BUGIE DEI POETI

Taccuino dei sogni guasti
1)
Severità severità
Raccomandò la maestra:
i cattivi vanno scovati
come erbacce tra i pulcini.
Mi imposi di punire alla cieca
la classe che rumoreggiava.
All’appello scelsi a caso:
ricordo il viso tremante
di chi colpivo senza ragione,
una volpe nella tagliola.
E il listello con il nome
era già quasi composto:
dovevo solo stampigliarlo
nel regesto universale
per rubricare quel reato
che non c’era stato.
La maestria ripeteva
la sua trista litania:
che la legge sia tonante,
sia pesante, sia asfissiante.
Ero felice
o ero imbarazzato
mentre la mannaia
colpiva l’innocente?

2)
Ed eccoti dopo un quarto di secolo
a scivolare sulla pozzanghera del sogno
a dirmi che l’ipotesi di una fuga
verso la liquidità gioiosa ch’era a nostra portata
appena dietro la cinta popolata
della città post dannunziana, sì, quel salto
era possibile, e se non fu fatto
è per la mia abissale incontinenza
a mescolare le cose dette e le cose pensate,
e non sempre, animula, ciò che ho pensato
irresistibilmente s’è tradotto
nella potenza della comunicazione
che tutto avvolge, anche questo mio sogno
sfilacciato sfilacciato da far faticare
la modesta volontà di decifrazione
che mi ha fatto pensare tutto immobile,
già deciso o già vissuto?

L’io minimo
Ma l’io è minimo, lo sai,
l’io è la lucerna
che hai dietro le gracili
tue spalle, è quel resto
di dente la stoviglia
bucherellata la spianata
di Hiroshima l’orlo
il fendente che non prende
la colla essiccata
sul tavolo di papà Leopardi,
è lo stabulario l’acquario
il dolorino dietro l’anca
il motorino che non si stanca
la turbolenza, l’eccesso
discreto o eccitato,
la porosa granulare proprietà
dei corpi che si toccano,
degli amori che divergono.
E’ il quoziente tra il tanto dire
e il poco dare o il tanto dare
e il poco dire.
L’io è tutto qui.
Pelato come un cardo,
roso come un tuorlo,
sbrindellato, accasciato
come un santo
senza aureola, come Belzebù
senza forcone,
sfilacciato arrotolato
misero moncone
d’una festa ormai finita
sgocciola sgocciola
in una serie infinita
di piroettes come al circo.

Dedicate
a me stesso
Luce. Singhiozzo. Pausa. Ritmo.
Era festa. Passavano. Gridarono.
Ragioni elementari.
Ma più elementare quel serpente
Che bucava
fino al Traforo.
Vitale: più della impossibile
vitalità richiesta.
Giusto: più dei buoni sentimenti
urlati da balconi curiosi.
S’appannava quel suo colore
con il sole pomeridiano.
Si sgolava la storia
nei candidi disegni. Tutti
bambini contro l’Orco
malefico.
Ma che fai, impassibile?
Escluso nel minestrone
non ero bambino.
Razza canaglia che sono,
non feci salto a suon di trombetta.

2)
per Elio
Non c’è pioggia che valga
quella pioggia. Non c’è ricordo
che valga quel ricordo.
Siamo prodigiosamente vuoti
di pioggia e di ricordi
e la vita è ricordarci
della pioggia e dei ricordi
senza alba
se non quella estenuata del bambino
che cerca l’oro sull’atlante.
Ma in quell’alba chi pensava
che tutto sarebbe finito
così senza gloria, neppure quella
che non si nega a nessuno
come il peccato blando
di via delle Caserme
e a noi resta soltanto
l’inconfondibile sagoma
di ciò che simula
esperienza e verità?